Yad aniccam tam dukkham, yam dukkham tad anatta, yad anatta tam ‘N’etam mama, n’eso ham asmi, na me’so atta’ ti. Evam etam yathabhutam sammappannaya datthabbam
Ciò che è incostante è insoddisfacente, ciò che è insoddisfacente è non-sé, ciò che è non-sé, così deve essere compreso con saggezza secondo realtà: ‘ciò non è mio’ ‘ciò non sono Io’ , ‘questo non è il mio sé’ .
Bahira anicca sutta, S.N. 4, 35.
Aniccā è la natura, incostante, instabile, incerta delle cose;
Dukkhā, l’insoddisfazione, la sofferenza e frustrazione che si presentano quando la natura precaria delle cose ritenute erroneamente permanenti si manifesta. Il dukkhā è il doloroso tradimento delle nostre false aspettative di felicità riposte nelle cose. Il dukkhā deriva dalla percezione distorta delle cose viste come permanenti, stabili e quindi affidabili al fine di ottenere una soddisfazione duratura che riesca a riempire i nostri vuoti interiori e le nostre ansie esistenziali sulla vita e la morte.
Anattā, il ‘non-sé’, la natura impersonale delle cose. Per capire l’anattā, può essere utile prendere in considerazione il concetto di atta o sé in accordo all’uso specifico fattone dal Buddha, facendo accuratamente attenzione a non confondere il senso che il buddhismo attribuisce al concetto di ‘atta’ con quello di altre tradizioni.
Nel Buddhismo, il concetto di atta (atman) presuppone la facoltà di dominio sulle cose, il potere di dominare i fenomeni secondo la volontà individuale; nello specifico, con atta si intende la facoltà di controllo sugli aggregati costituenti l’individualità personale (purisa-puggala), corpo, sensazione, percezione, intenzioni e cognizione.
D’altro canto, anattā significa che le cose a cui ci attacchiamo in cerca di sicurezza e auto affermazione non sono sotto il dominio personale di un agente ma bensì fenomeni determinati soggetti alla legge naturale di nascita, persistenza nel cambiamento e cessazione.
Una persona è l’insieme di aggregati psicofisici percepiti erroneamente come io, mio, me stesso; la mente condizionata dall’ignoranza proietta su questo stesso sé immaginario delle caratteristiche che in realtà esso non possiede, come la costanza, la piacevolezza ed il sé, il potere di dominio. Questo stato di cose è detto atta, il sé sostanzialmente esistente.
Da un certo punto di vista l’individuo ha effettivamente la possibilità di influenzare gli eventi e il proprio corpo-mente, ma si tratta pure sempre di una facoltà parziale, ed in ultima analisi non c’è niente che egli possa fare per mutare il naturale corso delle cose secondo i propri desideri; ad esempio, possiamo curare il nostro corpo, fare esercizio fisico e seguire una dieta equilibrata, ma non possiamo comunque impedire l’invecchiamento, la malattia e la morte.
Come già detto, l’idea dell’atta presuppone la facoltà di dominio sulle cose, il potere di determinare le cose a proprio piacimento, uno stato in cui il sé si erge a dominatore dell’esperienza.
Ma la natura mutevole (aniccā) e lacunosa (dukkhā) delle cose rende palese la falsità dell’idea di dominio e controllo su di esse, il loro essere fuori dal dominio assoluto di un sé, perché se cosi fosse, l’individuo avrebbe il potere di impedire al corpo di invecchiare, alla bellezza di sfiorire, alla malattia di manifestarsi; egli avrebbe inoltre il potere di evitare le sensazioni sgradevoli, gli stati d’animo dolorosi, eccetera.
Realtà oggettiva e soggettiva
Il Buddha disse che “ciò che è incostante è lacunoso, e ciò che è lacunoso è non-sé”. Questa affermazione non deve essere presa come una rivelazione della natura delle cose sul piano oggettivo, ma come l’esperienza soggettiva di chi si sta addestrando nel sentiero della liberazione del Dharma.
l’affermazione che “ciò che è incostante è lacunoso, e ciò che è lacunoso è non-sé”, non può essere applicata né ad un oggetto non senziente né ad un Buddha o ad un Arahant, in quanto questo significherebbe affermare che anche i Buddha e gli Arahant, essendo soggetti all’impermanenza e al non-sé delle cose siano soggetti alla sofferenza. I Buddha sono coscienti che la natura dell’esperienza individuale è di sorgere e svanire, ma tuttavia (o forse proprio per questo) sono liberi dalla sofferenza che nasce dal pretendere che le cose siano diverse da quello che sono. Sono, in altre parole, esenti da dukkha.
La natura di questa triplice affermazione è quindi di tipo didattico e pratico, serve solamente come guida nel sentiero e non deve essere intesa come un’affermazione sul piano ontologico circa la natura dei fenomeni.
Nel Buddhismo si distinguono tre differenti tipi di individui:
1. L’uomo comune, privo di conoscenza della realtà, o Puthujjhana;
2. L’apprendista o allievo, colui che persegue la liberazione dal dukkhā, o Sekha,
3. Colui che si è liberato dal dukkhā, I Buddha e gli Arahant.
Il Puthujjhana percepisce le cose, gli aggregati ed il proprio sé come permanenti, piacevoli e sotto il proprio controllo ( Nicca-Sukha-atta); Il Sekha riconosce, per averlo appreso dal Buddha, che questa pretesa di permanenza, certezza e dominio sulle cose è una percezione errata fonte di sofferenza e si impegna a realizzare la vera natura delle cose contemplandole nei termini di “questo è incostante, ciò che è incostante è insoddisfacente, e ciò che è insoddisfacente è non-sé; ciò non è mio’ ‘ciò non sono io’ , ‘ciò non è il mio sé’ (Yad aniccam tam dukkham, yam dukkham tad anatta, yad anatta tam ‘N’etam mama, n’eso ham asmi, na me’so atta’ ).
I Buddha e gli Arahant, avendo realizzato la natura mutevole delle cose, sono liberi dalla sofferenza del prendere le cose per certe, liberi dall’immaginare le cose come sotto il domino di un sé sostanzialmente esistente.
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