
La lingua del Buddha
Siddhārtha Gautama faceva parte di un clan tribale, i Sakya, insediatosi nei territori oggi compresi fra il nord dell’India ed il sud del Nepal (Terai).
I Sakya, pur avendo assimilato gran parte degli usi e costumi dei cosiddetti popoli indo- ariani, mantennero degli stili di vita e delle tradizioni peculiari rispetto a quelle dei gruppi etnici maggioritari presenti in India a quel tempo, quali la poligamia, i matrimoni fra consanguinei, il consumo di carne vaccina e l’organizzazione statale repubblicana, e consideravano la casta dei nobili guerrieri più importante rispetto a quella dei brahmana.
Inoltre, quella dei Sakya non era una monarchia ma una sorta di repubblica oligarchica dove i capi venivano scelti tramite elezioni fra i membri del parlamento, detto Santagraha.
I rapporti fra gli autarchici Sakya, le repubbliche facenti parte della confederazione dei Vajji e le due grandi monarchie vigenti a quel tempo nella pianura del Gange -quella del Magadha e quella del Kosala- non erano certo dei più semplici; basti pensare che entrambi i Re dei due grandi regni summenzionati, Bimbisara del Magadha e Pasenadi del Kosala, vennero brutalmente destituiti e uccisi dai propri discendenti, e che lo stesso Virudhaka, figlio del Re Pasenadi e di una schiava Sakya, fu l’artefice della distruzione della Repubblica del Sakya e dello sterminio dei suoi abitanti.
I testi del Canone Pali fanno risalire l’origine del clan Sakya al mitico re Okkaka o Iksvaku, originario dell’area della pianura del Gange nota come Mahajanapada:
“In passato, secondo coloro che ricordano il lignaggio ancestrale, i Sakya erano i padroni, mentre tu discendi da una schiava dei Sakya. I Sakya considerano il Re Okkaka come loro capostipite. Un tempo il Re Okkaka, che amava e adorava la sua regina, lasciò il regno ad un suo figlio, bandì i fratelli maggiori dal regno- Okkamukha, Karandu, Hatthiniya e Sinipura- e costoro, essendo stati banditi, costruirono la loro dimora sulle pendici dell’Himalaya vicino ad uno stagno di loti dove cresceva un grande albero di tek, e timorosi di inquinare il loro lignaggio, presero a mogli le loro stesse sorelle.
Quindi, il Re Okkaka chiese ai suoi ministri e consiglieri: “Dove sono adesso i principi?” “Sire, adesso vivono sulle pendici dell’Himalaya, vicino ad uno stagno di loti dove cresce un grande albero di tek, e timorosi di inquinare il loro lignaggio, hanno preso a mogli le loro stesse sorelle.”
Quindi, il Re Okkaka esclamò: “Potenti (sakyā) sono invero i principi, davvero potenti, o amico, sono i principi! Questa è la ragione, o Ambaṭṭha, per la quale sono chiamati Sakya.“
-Ambaṭṭhasutta DN 3
Okkaka era discendente della mitica dinastia solare (suriya-wansha), e per questa ragione il Buddha è spesso definito come ‘il discendente della dinastia solare’(ādiccabandhu) o Principe della dinastia del sole (Kumara Angirasa). Gautama Buddha era quindi un membro della casta dei nobili guerrieri o Kṣatriya, anche se il nome Gautama suggerisce che il clan dei Shakya abbia avuto origine dal Gota (lignaggio) brahmanico dei Gautama, fondato da un Rishi di casta brahamana conosciuto come Gotama Maharishi.
Nel Dhammacetya sutta (MN 89), il Re del Kosala Pasenadi ricorda al Buddha che fra le cose che li accomunava vi era il fatto di essere entrambi Kosalesi, oltre che di stirpe guerriera.
“Il Sublime è di nascita un guerriero, e lo sono anch’io; è originario del Kosala, e lo sono anch’io; è ottuagenario, e lo sono anch’io, perciò conviene a me fare atto di ossequio al Sublime ed esprimergli affettuosa devozione. Orsù dunque, Signore, ora vogliamo andare: molti doveri ci aspettano, molte occupazioni.”
Il Regno del Kosala corrisponde grosso modo alla regione di Awadh, Nell’Uttar Pradesh, dove si trova fra l’altro la città di Siddhartnagar, identificata da alcuni studiosi come l’antica Kapilavastu, la capitale della Repubblica dei Sakya.
Di fatto, poco tempo dopo questa conversazione, il territorio dei Sakya, noto anche come Uttara Kosala o Kosala del Nord, venne ferocemente sottomesso dal Generale Vidudabba, -figlio dello stesso Pasenadi e di una schiava dei Sakya- ed i Sakya massacrati e costretti alla fuga.
Essendo di nobile stirpe, Gautama conosceva certamente il Sanscrito, la lingua colta dell’India, e diversi altri dialetti locali parlati nei luoghi della sua predicazione, ma tuttavia è probabile che egli parlasse una qualche forma di Pracrito diffusa in quell’epoca nel regno di Kosala.
Il Pracrito è una sorta di dialetto, strettamente imparentato con lo stesso sanscrito ed il Pālibhāsā, il linguaggio (bhāsā) in cui sono tramandati i testi canonici (Pāli). Il termine Pracrito o Prakrit deriva da prakṛta che letteralmente vuol dire ‘normale’ ‘o naturale’, a significare la lingua parlata normalmente dalle persone comuni, a differenza del sanscrito, termine che deriva da saṃskṛta che vuol dire ‘costruito’ ‘prodotto’.
Nel Vinaya Pitaka vi è un famoso dialogo fra Il Buddha e due monaci di stirpe braminica di nome Yamelu e Tekulā, circa la possibilità di standardizzare i discorsi del Maestro in base alla metrica dei testi sacri indiani (chanda); l’intento dei due dotti monaci era quello di preservare le parole del fondatore da possibili deformazioni dovute ad un uso disinvolto del linguaggio da parte di alcuni monaci. Tuttavia, il Buddha rifiutò tale proposta, asserendo che ” Le parole del Buddha possono essere apprese nella propria lingua”.
Tuttavia, Il dotto Buddhaghosa interpreta l’espressione “la propria lingua” (sakāya niruttiyā) nel senso di “La lingua propria del Buddha” , identificando quest’ultima con la lingua del Magadha. Inutile dirlo che questa singolare interpretazione da parte di Buddhaghosa è ritenuta alquanto sospetta da molti esperti di grammatica pali e studiosi buddhisti. Nel suo commentario Samantapāsādika, Buddhaghosa afferma che la lingua propria del Buddha (sakāya niruttiyiā) corrispondeva alla lingua parlata nel Magadha :
“sammāsambuddhena vuttappakāro Māgadhikavohāro”
“La lingua del Magadha utilizzata dal Buddha Pienamente Risvegliato.”
Secondo questa affermazione, il linguaggio originario (mulabhāsā) dei discorsi canonici inclusi nel Tipitaka corrisponderebbe alla lingua parlata nel Magadha nel IV secolo a.C.
Degno di nota è ricordare che tutti e tre i grandi concili nei quali vennero raccolti e catalogati gli insegnamenti del Buddha si svolsero nel Magadha; lo stesso Milinda, il figlio dell’imperatore Asoka artefice della trasmissione del Buddhismo a Ceylon, era Magadhese e naturalmente parlava la lingua di quelle terre.
Mahinda trasmise ai suoi discepoli singalesi i testi canonici (pali) in magadhi, traducendo invece i commentari (attakatha) in singalese (sihalabhasa).
Per più di 250 anni, Il Tipitaka in lingua Magadhi venne trasmesso oralmente di generazione in generazione, fino a quando nel 34 d.C., i monaci singalesi decisero di renderlo in forma scritta.
In seguito, lo stesso Buddhaghosa decise di ritradurre gli antichi commentari dal singalese nella lingua canonica (pālibhāsā) ovvero, il Magadhi.
Per la tradizione buddhista singalese, la “lingua Pāli”, ovvero la lingua del Canone, corrisponde quindi al magadhi, anche se molti studiosi contemporanei nutrono seri dubbi; lo studioso W. Geigerz sostiene che in realtà si tratterebbe di un “linguaggio universale” frutto di un adattamento del magadhi, creato appositamente per le elite colte del Subcontinente indiano.
Per Lamotte: “Sebbene i testi più antichi in Pali, quelli del canone buddhista, siano stati conservati a Ceylon, nessuno si sognerebbe di ricercare la culla di questa lingua sull’isola.
È certo che il Pali abbia avuto origine nel subcontinente indiano, ma la sua casa natia non è stata ancora determinata con certezza. Sono state avanzate argomentazioni a favore del Magadha (Buddhaghosa, Windisch, Geiger), del Kalinga (Oldenberg), di Taxila (Grierson), di Vindhya (Konow), della regione di Ujjayini (Westergaard, Kuhn, Franke) o di Kausambi (Przyluski). La molteplicità delle ipotesi può essere spiegata dalla natura composita del Pali, che gli consente di essere a sua volta confrontato con i dei dialetti locali più disparati.”
In merito all’origine del Pāli, Maurice O’Connell Walshe scrive:
“In senso stretto, il termine Pāli significa ‘testo’, e tuttavia, l’espressione Pālibhāsā, ‘il linguaggio dei testi’, venne intesa dai primi studiosi come indicante il nome della lingua stessa. Il suo impiego è di fatto limitato al buddhismo, in particolare alla scuola Theravāda. L’origine esatta del Pālibhāsā è oggetto di dibattito accademico.
Non possiamo approfondire questo argomento in questa sede, ma possiamo affermare che l’equazione tradizionale con la lingua dell’antico regno del Magadha, e l’asserzione che il Pāli corrisponda precisamente con la lingua parlata dallo stesso Buddha, non è sostenibile.
Allo stesso modo, sappiamo che la lingua parlata dal Buddha fosse molto probabilmente non molto diversa dal Pāli.
Dal punto di vista non specialistico, possiamo pensare al Pāli come ad una forma di sanscrito semplificato. Il suo sviluppo, come nel caso di altri dialetti indiani antichi, può essere paragonato a quello dell’italiano antico, sviluppatosi dal Latino. Prendiamo ad esempio il termine ‘sette’, dove il Latino ‘septem’ è diventato ‘sette’ in italiano attraverso la semplificazione tramite assimilazione del morfema ‘pt’ in ‘tt’.
L’equivalente sanscrito sapta diventa satta in Pāli, ed altre semplificazioni di questo genere sono rintracciabili in centinaia di termini.
Anche la grammatica è stata sensibilmente semplificata, seppur non così tanto come quella italiana. Tuttavia, le due lingue sono così affini che è possibile tradurre interi passaggi scritturali dal sanscrito al Pāli semplicemente operando le necessarie trasposizioni meccaniche. (ad esempio : Mārga (sentiero) in sanscrito diventa Māgga in Pāli; Agni ( fuoco) diventa aggi in Pāli.”
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