LA PRATICA DEI JHĀNA

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Gli stadi di meditazione con oggetto

Il termine Pali Jhāna deriva dal verbo Jhayi, ‘soffermarsi’, ‘dimorare’ o ‘focalizzare’. Jhāna è lo stato meditativo che si sviluppa focalizzando l’attenzione su di un oggetto o immagine (rūpa).

Secondo Buddhaghosa, il termine deriverebbe dal causativo jhāpeti, ‘ far accendere’.L’immagine metaforica qui utilizzata è quella di una lente focale la cui funzione può essere sia quella di accendere un fuoco (jhāpeti), che di avere una visione più chiara e nitida dell’oggetto osservato.

il Jhāna è perciò uno stato di profondo raccoglimento. È interessante notare che dal pali Jhāna derivano anche il cinese Chan ed il giapponese Zen, da cui prendono il nome le due famose scuole buddhiste. Jhāna è l’esperienza della meditazione, non una tecnica di meditazione.

La meditazione Jhāna è composta di due momenti fondamentali: una prima fase nella quale l’attenzione è sostenuta per mezzo di un’oggetto (rūpa) denominata Rūpajhāna, e una fase successiva, dove l’attenzione non necessita più dell’ausilio di un’oggetto, detta raccoglimento senza oggetto, Arūpasamādhi.

Per sviluppare i Jhāna, bisogna innanzitutto abbandonare i cinque ostacoli: desiderio sensuale, avversione, torpore e pigrizia, agitazione e irrequietezza e dubbio. Per fare ciò, il praticante impiegherà gli antidoti specifici per ciascun ostacolo, che sono rispettivamente:
1:Desiderio sensuale: contemplare gli svantaggi della sensualità e la sgradevolezza degli oggetti dei sensi;
2:Avversione: la meditazione di amorevole gentilezza;
3.Torpore e pigrizia: Il riflettere sulla morte e l’impermanenza, la meditazione camminata o in piedi;
4.Agitazione e irrequietezza: la contemplazione del respiro;
5.Dubbio: approfondire gli aspetti su cui si nutrono dubbi con un istruttore o persona competente.

Il primo Jhāna:

“𝘿𝙞𝙨𝙩𝙖𝙘𝙘𝙖𝙩𝙤 𝙙𝙖𝙞 𝙙𝙚𝙨𝙞𝙙𝙚𝙧𝙞 𝙨𝙚𝙣𝙨𝙤𝙧𝙞𝙖𝙡𝙞, 𝙙𝙞𝙨𝙩𝙖𝙘𝙘𝙖𝙩𝙤 𝙙𝙖𝙞 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙞 𝙣𝙤𝙘𝙞𝙫𝙞, 𝙧𝙖𝙜𝙜𝙞𝙪𝙣𝙜𝙚 𝙚 𝙙𝙞𝙢𝙤𝙧𝙖 𝙣𝙚𝙡 𝙥𝙧𝙞𝙢𝙤 𝙖𝙨𝙨𝙤𝙧𝙗𝙞𝙢𝙚𝙣𝙩𝙤 𝙢𝙚𝙙𝙞𝙩𝙖𝙩𝙞𝙫𝙤 (𝙅𝙝𝙖̄𝙣𝙖), 𝙛𝙖𝙩𝙩𝙤 𝙙𝙞 𝙜𝙞𝙤𝙞𝙖 𝙚 𝙗𝙚𝙣𝙚𝙨𝙨𝙚𝙧𝙚 𝙣𝙖𝙩𝙚 𝙙𝙖𝙡 𝙙𝙞𝙨𝙩𝙖𝙘𝙘𝙤 𝙚 𝙖𝙘𝙘𝙤𝙢𝙥𝙖𝙜𝙣𝙖𝙩𝙤 𝙙𝙖𝙡 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙖𝙥𝙥𝙡𝙞𝙘𝙖𝙩𝙤 𝙚 𝙙𝙖𝙡 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙨𝙤𝙨𝙩𝙚𝙣𝙪𝙩𝙤.”

Accantonati temporaneamente i cinque ostacoli, il praticante entra nel primo Jhāna; in questa fase è necessario portare e riportare più e più volte l’attenzione all’oggetto, dato che la concentrazione non è ancora stabile; Il porre e riportare l’attenzione sono detti rispettivamente vitakka e vicara, ‘pensiero applicato’ e ‘pensiero costante’. Tuttavia, il praticante sperimenta gioia e benessere fisico (piti e sukha) grazie al fatto di esseri affrancato, seppur temporaneamente, dai pensieri malsani.

Il secondo Jhāna:

“𝘾𝙤𝙣 𝙞𝙡 𝙙𝙞𝙨𝙨𝙤𝙡𝙫𝙚𝙧𝙨𝙞 𝙙𝙚𝙡 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙖𝙥𝙥𝙡𝙞𝙘𝙖𝙩𝙤 𝙚 𝙙𝙚𝙡 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙨𝙤𝙨𝙩𝙚𝙣𝙪𝙩𝙤, 𝙚𝙜𝙡𝙞 𝙧𝙖𝙜𝙜𝙞𝙪𝙣𝙜𝙚 𝙚 𝙙𝙞𝙢𝙤𝙧𝙖 𝙣𝙚𝙡 𝙨𝙚𝙘𝙤𝙣𝙙𝙤 𝙅𝙝𝙖̄𝙣𝙖 𝙘𝙝𝙚 𝙚̀ 𝙩𝙧𝙖𝙣𝙦𝙪𝙞𝙡𝙡𝙞𝙩𝙖̀ 𝙞𝙣𝙩𝙚𝙧𝙞𝙤𝙧𝙚, 𝙪𝙣𝙞𝙫𝙤𝙘𝙞𝙩𝙖̀ 𝙢𝙚𝙣𝙩𝙖𝙡𝙚, 𝙚 𝙜𝙞𝙤𝙞𝙖 𝙚 𝙗𝙚𝙣𝙚𝙨𝙨𝙚𝙧𝙚 𝙣𝙖𝙩𝙚 𝙙𝙖𝙡 𝙨𝙖𝙢𝙖̄𝙙𝙝𝙞 𝙥𝙧𝙞𝙫𝙤 𝙙𝙞 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙖𝙥𝙥𝙡𝙞𝙘𝙖𝙩𝙤 𝙚 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙨𝙤𝙨𝙩𝙚𝙣𝙪𝙩𝙤”.

Proseguendo nella meditazione, l’attenzione diverrà più stabile e la mente rimarrà naturalmente concentrata sull’oggetto, e questo per via del fatto che grazie all’esperienza di gioia e benessere sperimentate, la meditazione diverrà un’esperienza piacevole ed attraente per la mente.

La mente persegue il piacere e rifugge il dolore; la strategia della meditazione, per lo meno in questa fase, consiste nel generare uno stato piacevole alternativo a quello della gratificazione sensoriale, che diriga la mente verso il de-condizionamento, ovvero, verso la libertà dal bisogno di ricercare costantemente la soddisfazione tramite gli oggetti esterni.

In altre parole, ci emancipiamo dal bisogno di gratificare i sensi per mezzo della gioia interiore. Svaniranno così vitakka e vicara, essendo ( essendo terminata la loro funzione), e allo stesso tempo si svilupperà la fiducia interiore (ajjhattaṃ sampasādana), la convinzione esperienziale che la meditazione è davvero efficace per emanciparsi dal condizionamento dei veleni interiori.

La gioia e il benessere sperimentate in questa seconda fase nascono dall’unificazione della mente con le qualità neutre dell’oggetto di meditazione. La mente assume le sembianze di ciò che osserva: identificandosi con un pensiero negativo, come ad esempio la rabbia, essa diventerà una mente rabbiosa; se invece la mente si identifica con un oggetto virtuoso o neutro, assumerà le stesse caratteristiche virtuose o neutre.

Il terzo Jhāna:

“𝘾𝙤𝙣 𝙡𝙤 𝙨𝙫𝙖𝙣𝙞𝙧𝙚 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝙜𝙞𝙤𝙞𝙖, 𝙚𝙜𝙡𝙞 𝙙𝙞𝙢𝙤𝙧𝙖 𝙞𝙣 𝙚𝙦𝙪𝙖𝙣𝙞𝙢𝙞𝙩𝙖̀, 𝙘𝙤𝙣𝙨𝙖𝙥𝙚𝙫𝙤𝙡𝙚, 𝙚 𝙘𝙤𝙣 𝙪𝙣𝙖 𝙘𝙝𝙞𝙖𝙧𝙖 𝙘𝙤𝙢𝙥𝙧𝙚𝙣𝙨𝙞𝙤𝙣𝙚, 𝙜𝙤𝙙𝙚𝙣𝙙𝙤 𝙙𝙞 𝙗𝙚𝙣𝙚𝙨𝙨𝙚𝙧𝙚 𝙣𝙚𝙡 𝙘𝙤𝙧𝙥𝙤, 𝙀𝙜𝙡𝙞 𝙧𝙖𝙜𝙜𝙞𝙪𝙣𝙜𝙚 𝙚 𝙙𝙞𝙢𝙤𝙧𝙖 𝙣𝙚𝙡 𝙩𝙚𝙧𝙯𝙤 𝙅𝙝𝙖̄𝙣𝙖, 𝙞𝙡 𝙦𝙪𝙖𝙡𝙚 𝙚̀ 𝙙𝙚𝙛𝙞𝙣𝙞𝙩𝙤 𝙙𝙖𝙞 𝙣𝙤𝙗𝙞𝙡𝙞 (𝙖𝙧𝙞𝙮𝙖𝙨) 𝙘𝙤𝙢𝙚 ‘𝙄𝙡 𝙙𝙞𝙢𝙤𝙧𝙖𝙧𝙚 𝙞𝙣 𝙚𝙦𝙪𝙖𝙣𝙞𝙢𝙞𝙩𝙖̀, 𝙘𝙤𝙣𝙨𝙖𝙥𝙚𝙫𝙤𝙡𝙚𝙯𝙯𝙖 𝙚 𝙗𝙚𝙖𝙩𝙞𝙩𝙪𝙙𝙞𝙣𝙚. “

In questa terza fase, il meditante riconosce la natura condizionante della gioia ed assume verso di essa un’atteggiamento di equanimità consapevole (upekkha-sati). In precedenza, avendo riconosciuto la natura condizionante dei veleni, il praticante aveva rivolto la sua attenzione all’oggetto di meditazione, e ciò aveva prodotto uno stato positivo di gioia e benessere; ora egli riconosce che anche gli stati mentali positivi sono per natura instabili, contingenti ed inaffidabili.

Il benessere sperimentato in questa fase è puramente fisico, legato cioè all’esperienza di agio fisico indotto dalla meditazione.
In questo contesto, l’equanimità è la capacità di rimanere equilibrati, focalizzati al centro dell’esperienza meditativa, permettendo così alle esperienze positive e negative di fluire senza afferrale o respingerle.

Il quarto Jhāna:

“𝘾𝙤𝙣 𝙡’𝙖𝙗𝙗𝙖𝙣𝙙𝙤𝙣𝙤 𝙙𝙞 𝙛𝙚𝙡𝙞𝙘𝙞𝙩𝙖̀ 𝙚 𝙨𝙤𝙛𝙛𝙚𝙧𝙚𝙣𝙯𝙖, 𝙚 𝙡𝙖 𝙥𝙧𝙚𝙘𝙚𝙙𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙨𝙘𝙤𝙢𝙥𝙖𝙧𝙨𝙖 𝙙𝙞 𝙜𝙞𝙤𝙞𝙖 𝙚 𝙩𝙧𝙞𝙨𝙩𝙚𝙯𝙯𝙖, 𝙚𝙜𝙡𝙞 𝙧𝙖𝙜𝙜𝙞𝙪𝙣𝙜𝙚 𝙚 𝙙𝙞𝙢𝙤𝙧𝙖 𝙣𝙚𝙡 𝙦𝙪𝙖𝙧𝙩𝙤 𝙅𝙝𝙖̄𝙣𝙖, 𝙡𝙞𝙗𝙚𝙧𝙤 𝙙𝙖𝙡 𝙙𝙤𝙡𝙤𝙧𝙚 𝙚 𝙙𝙖𝙡𝙡𝙖 𝙛𝙚𝙡𝙞𝙘𝙞𝙩𝙖̀, 𝙡𝙖 𝙥𝙪𝙧𝙚𝙯𝙯𝙖 𝙙𝙞 𝙚𝙦𝙪𝙖𝙣𝙞𝙢𝙞𝙩𝙖̀ 𝙚 𝙘𝙤𝙣𝙨𝙖𝙥𝙚𝙫𝙤𝙡𝙚𝙯𝙯𝙖.

”La quarta fase della meditazione sui Jhāna è fondamentalmente uno stato di equanimità dove le esperienze di felicità e dolore, di benessere e malessere, sono assenti, perlomeno finché egli permane in questo stato. Lungi quindi dall’essere uno stato di trance privo di coscienza, la meditazione sui Jhāna è un’esperienza di attenzione equanime totalmente raffinate (upekkhāsatipārisuddhi), un’esperienza, seppur mutevole, che va oltre gli stati di malessere e benessere (adukkhaṃasukhaṃ).

La coltivazione dei Jhāna conduce all’esperienza del Samādhi. Questo termine, spesso tradotto come ‘concentrazione’, deriva dalla radice verbale sam-a-dha, il tenere (dha) assieme (sam), ed indica l’unificazione della consapevolezza con l’oggetto di meditazione; Samādhi è sinonimo di Samatha. il Samādhi è uno stato funzionale allo sviluppo della vipassanā:

“𝘾𝙤𝙣 𝙡𝙖 𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙘𝙤𝙨𝙞̀ 𝙘𝙤𝙣𝙘𝙚𝙣𝙩𝙧𝙖𝙩𝙖, 𝙥𝙪𝙧𝙞𝙛𝙞𝙘𝙖𝙩𝙖 𝙚 𝙘𝙝𝙞𝙖𝙧𝙖, 𝙨𝙚𝙣𝙯𝙖 𝙢𝙖𝙘𝙘𝙝𝙞𝙖, 𝙡𝙞𝙗𝙚𝙧𝙖 𝙙𝙖 𝙞𝙢𝙥𝙪𝙧𝙞𝙩𝙖̀, 𝙖𝙜𝙞𝙡𝙚, 𝙢𝙖𝙡𝙡𝙚𝙖𝙗𝙞𝙡𝙚, 𝙨𝙖𝙡𝙙𝙖 𝙚 𝙞𝙢𝙥𝙚𝙧𝙩𝙪𝙧𝙗𝙖𝙗𝙞𝙡𝙚, 𝙚𝙜𝙡𝙞 𝙡𝙖 𝙙𝙞𝙧𝙞𝙜𝙚 𝙚 𝙡’𝙤𝙧𝙞𝙚𝙣𝙩𝙖 𝙫𝙚𝙧𝙨𝙤 𝙡𝙖 𝙘𝙤𝙣𝙤𝙨𝙘𝙚𝙣𝙯𝙖 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝙙𝙞𝙨𝙩𝙧𝙪𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙙𝙚𝙞 𝙫𝙚𝙡𝙚𝙣𝙞 𝙞𝙣𝙩𝙚𝙧𝙞𝙤𝙧𝙞; 𝙀𝙜𝙡𝙞 𝙘𝙤𝙢𝙥𝙧𝙚𝙣𝙙𝙚: ‘𝙌𝙪𝙚𝙨𝙩𝙤 𝙚̀ 𝙞𝙡 𝙙𝙤𝙡𝙤𝙧𝙚, 𝙦𝙪𝙚𝙨𝙩𝙖 𝙚̀ 𝙡’𝙤𝙧𝙞𝙜𝙞𝙣𝙚 𝙙𝙚𝙡 𝙙𝙤𝙡𝙤𝙧𝙚, 𝙦𝙪𝙚𝙨𝙩𝙖 𝙚̀ 𝙡𝙖 𝙘𝙚𝙨𝙨𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙙𝙚𝙡 𝙙𝙤𝙡𝙤𝙧𝙚, 𝙦𝙪𝙚𝙨𝙩𝙤 𝙚̀ 𝙞𝙡 𝙨𝙚𝙣𝙩𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙘𝙝𝙚 𝙘𝙤𝙣𝙙𝙪𝙘𝙚 𝙖𝙡𝙡𝙖 𝙘𝙚𝙨𝙨𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙙𝙚𝙡 𝙙𝙤𝙡𝙤𝙧𝙚.”-𝙎𝙖𝙢𝙖𝙣̃𝙣̃𝙖𝙥𝙝𝙖𝙡𝙖 𝙎𝙪𝙩𝙩𝙖, 𝘿.𝙉. 2

(A cura di Davide Puglisi)

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