Le Quattro Nobili Verità

 

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“Proprio come, o monaci, il grande oceano ha solo un sapore, il salato, allo stesso modo, o monaci, questo Dharma e disciplina hanno un solo sapore, il sapore della liberazione.”

-Uposatasutta, Ud 5.5

Le Quattro Nobili Verità sono il fondamento teorico e pratico dell’insegnamento del Buddha; l’intero insegnamento buddhista è contenuto nello schema delle Quattro Nobili Verità, le quali possono essere riassunte schematicamente in quattro proposizioni:

1: Esiste il problema, e questo stato di cose deve essere compreso;

2: Il problema ha una causa, e tale causa deve essere abbandonata;

3: Possiamo eliminare il problema eliminandone la causa, e tale cessazione deve essere realizzata;

4: Per eliminare il problema e la sua causa ci serviamo di un metodo o sentiero, e questo sentiero deve essere coltivato.

La prima Nobile Verità: La Sofferenza

E’ importante comprendere il meccanismo delle Quattro Nobili Verità, ovvero il nesso di causa ed effetto fra la sofferenza e ciò che la origina, identificato con la taṇhā,  (sete) – nel suo triplice aspetto di kāmataṇhā, bhavataṇhā, vibhavataṇhā: sete di piacere sensuale, sete di esistenza e sete di non esistenza.

Per comprendere appieno perché il Buddha abbia indicato la sete come origine della sofferenza bisogna innanzitutto capire cosa sia la sete e di conseguenza, quale sia la sofferenza che ne consegue.

Nel Dhammacakkha Sutta viene affermato che eventi come la nascita, l’invecchiamento e la morte sono esperienze di sofferenza; di base, nascita, malattia, invecchiamento e morte sono eventi naturali che nessun essere vivente può evitare; Il problema non sono quindi questi eventi in sé ma la modalità con cui l’individuo si relaziona ad essi, dal modo cioè in cui questi eventi vengono vissuti.

I Buddha e gli Arahant sono perfettamente consapevoli che essendo nati, dovranno sperimentare la malattia, il decadimento e la morte, ma tale consapevolezza non provoca in loro alcun dukkha, e questo per via del fatto che la loro comprensione dell’esistenza è pienamente in armonia con la reale natura delle cose.

La nascita è un evento di cui non serbiamo alcun ricordo, ed è quindi improbabile associare tale evento così distante nel tempo alla nostra sofferenza attuale. Non avendo né memoria né consapevolezza della nascita, essa da sola non può essere causa della nostra angoscia o sofferenza.

Allo stesso modo, la morte è un evento che non si è ancora verificato, e come tale non può essere causa di alcuna sofferenza. La morte e la malattia ci spaventano e ci angosciano solo quando è riferiti a noi stessi o a qualcuno a noi caro, una persona o gruppo di persone verso i quali proviamo dei sentimenti positivi come ad esempio i nostri familiari; quando invece riguardano un estraneo o addirittura qualcuno che noi vediamo con ostilità – uno sconosciuto che vive dall’altra parte del mondo o un sanguinario dittatore- in noi non nasce alcun tipo di sofferenza o angoscia.

E’ evidente quindi che quei fenomeni elencati nella formulazione della prima nobile verità diventano dukkha solo quando hanno a che vedere con il nostro sé. Ciò che crea sofferenza è l’apprensione nei riguardi di questi eventi, il pensare nei termini di ‘sto invecchiando’ ‘morirò’, oppure che ‘la persona a me cara morirà e me ne dovrò separare!’.

La seconda Nobile Verità: l’origine della sofferenza

Il termine pali taṇhā, deriva dal sanscrito tṛṣṇā, che vuol dire sete o arsura/siccità (il suono è molto simile all’inglese thirst, sete ), e questo rende perfettamente l’idea di un qualcosa di impellente la cui ricerca spasmodica è considerata di vitale importanza.

Come abbiamo già visto, Taṇhā ha tre modalità diverse di manifestarsi: la sete di piaceri sensuali, la sete di essere o divenire qualcosa o qualcuno di diverso rispetto a ciò che si è, e la sete di non esistere, di non sentire più nulla.

Taṇhā è l’espediente attraverso il quale l’individuo  – afflitto dalla fatica del vivere e dalla sofferenza fisica e psicologica – cerca di scalzare tale sofferenza sperando di ottenere benessere e soddisfazione;  non conoscendo altro modo per poterci liberare dalla sofferenza, quando veniamo colpiti da una o l’altra forma di sofferenza, ci rifugiamo nel piacere sensuale, nel desiderio di essere qualcosa di meglio rispetto a quello che siamo o di non esistere affatto, di annichilirci per non sentire più niente; Questo processo è spiegato magistralmente nel Sallasutta, il discorso sulle due frecce:

“Allorquando egli viene toccato da una sensazione dolorosa, in lui sorge l’avversione verso tale esperienza; Provando avversione verso quella sensazione dolorosa, in lui si sviluppa la tendenza subconscia all’avversione verso le sensazioni dolorose; Essendo colpito da una sensazione dolorosa, egli cerca godimento nei piaceri sensuali. E per quale ragione? Perché l’inesperto uomo comune non conosce altra via d’uscita dalle sensazioni dolorose che il piacere dei sensi.”

“E nel godere del piacere dei sensi, in lui si sviluppa la tendenza subconscia alla passione per le sensazioni piacevoli, essendo egli incapace di comprendere per come realmente sono il sorgere, lo svanire, i benefici, gli svantaggi e l’emancipazione da tali sensazioni.”

“Ed in lui che è incapace di comprendere per come realmente sono il sorgere, lo svanire, i benefici, gli svantaggi e l’emancipazione da tali sensazioni, si sviluppa la tendenza subconscia all’ignoranza in riguardo alle sensazioni neutre.”

“Sperimentando una sensazione piacevole, egli la sperimenta con attaccamento; Sperimentando una sensazione dolorosa, egli la sperimenta con attaccamento; Sperimentando una sensazione né dolorosa né piacevole, egli la sperimenta con attaccamento; Questo o monaci, è detto  ‘l’inesperto uomo comune attaccato alla nascita, ad invecchiamento, morte, alla pena, al lamento, alla sofferenza, al dolore ed alla disperazione’; Attaccato al Dukkha, Io vi dico.”

-Sallasutta, Sn 36.6

Ma per quale ragione Il Buddha ha indicato la sete come causa della sofferenza?

La sete di piacere sensuale, così come la sete di esistere o di non esistere sono associate alla ricerca della felicità e del benessere: il desiderio di beni materiali, di un esistenza migliore o di annullare se stessi nell’oblio dei sensi sono la triplice strategia adottata dall’ego al fine di ottenere gratificazione e quindi felicità al posto della sofferenza e del dolore;

Tutti desideriamo tutto ciò per essere felici, ma tuttavia, la sete di felicità ha come fondamento l’avijja, l’ignoranza della natura instabile, insoddisfacente e impersonale che caratterizza ogni fenomeno del mondo manifesto. 

Nel momento in cui la vera natura delle cose si palesa, quando cioè il fenomeno perde quelle caratteristiche che lo rendevano ai nostri occhi un oggetto attraente, o quando la nostra stessa percezione delle cose cambia, allora sperimentiamo la disillusione e la conseguente frustrazione prodotta dal tradimento delle nostre aspettative di felicità; Questo stato di cose è detto sofferenza del cambiamento o vipariṇāma dukkha.

In questo modo, la sofferenza del cambiamento si va a sovrapporre alla sofferenza fisiologica che proviamo allorché toccati da situazioni o eventi di per se dolorosi come la malattia o la separazione da ciò che amiamo.

In altre parole, la sofferenza di cui parla il Buddha nella prima nobile verità nasce dal conflitto fra le nostre aspettative di felicità duratura e gratificazione e la realtà mutevole, contingente, caduca e insoddisfacente delle cose. Tale frizione fra ciò che noi vorremmo e la realtà delle cose è ciò che viene definito dukkha, sofferenza esistenziale.

Desideriamo vivere, bramiamo la salute e aborriamo l’idea della malattia, dell’invecchiamento e della morte, nostre o dei nostri cari; desideriamo stare con le persone che amiamo e detestiamo dover stare con persone o in situazioni a noi sgradite; vogliamo possedere cose o fare delle esperienze speciali, ma non sempre le cose vanno come noi vorremmo, e ci attacchiamo al nostro essere, al corpo, alla mente o ai sentimenti in cerca di sicurezza e soddisfazione, e nel fare ciò siamo totalmente inconsapevoli della natura incerta dell’esperienza umana e delle cose a cui ci attacchiamo in cerca di soddisfazione e stabilità.

L’ignoranza su cui si fonda la sete ci impedisce di vedere la natura incerta che caratterizza tutti i fenomeni e cristallizza ciò che è per natura dinamico in una serie di eventi erroneamente percepiti come statici e perciò affidabili nella nostra disperata ricerca della felicità.

Sulla base di questo fraintendimento della realtà, prendiamo le cose in maniera personale, afferrandoci al nostro corpo e mente, identificandoci con essi in termini di Io e mio (Bhava); ciò determinerà l’angoscia esistenziale e la paura dell’invecchiamento e della morte, che in ultima istanza produrranno la sofferenza del condizionamento il sankhara-dukkha. 

Bisogna però ricordare che la sete è soltanto un elemento di un più vasto e complesso processo di condizionamento  esistenziale conosciuto come Origine dipendente.

Riassumendo, la sofferenza esistenziale è determinata da un fraintendimento radicale della reale natura dei fenomeni percepiti, e non dai fenomeni in sé; non sono, in altre parole, l’invecchiamento, la malattia o la morte il problema ma il nostro modo di relazionarci ad esse. 

“L’intenzione passionale è la sensualità dell’uomo,
non le belle immagini sensuali reperibili nel mondo;
 
l’intenzione passionale è la sensualità dell’uomo
le belle immagini sensuali rimangono nel mondo
Mentre i saggi si abbandonano il desiderio.”

-Nib­bedhi­kasutta, AN 6.63

Per questa ragione la possibilità di emanciparsi dal doloroso condizionamento della sete è legata alla coltivazione della Corretta Visione, Il samma ditthi.

A questo punto, è necessario fare un’importante distinzione fra il desiderio in quanto impulso naturale alla sopravvivenza e la sete che è causa di sofferenza: Il desiderio per il cibo e per il sesso sono infatti fattori del tutto normali e congeniti alla condizione di essere umano; Tutti gli esseri viventi sperimentano tali desideri come un fatto inalienabile del loro stesso esistere.

La sete causa di sofferenza è una sovrastruttura che trova il suo fondamento nell’idea erronea che possedendo qualcosa o divenendo qualcuno si possa raggiungere finalmente la tanto agognata soddisfazione e con essa una felicità eterna. 

Il desiderio naturale congenito e la sete sovrastrutturale sono certamente correlati, ma tuttavia non sono la stessa cosa e devono essere accuratamente distinti l’uno dall’altro; Il Buddhismo non ha nulla a che vedere con il puritanesimo e l’ascetismo che nega  le naturali esigenze del corpo.

Come spiegato nel Sallasutta il Discorso Sulle Freccia, anche i Buddha e gli Arahant sperimentano sensazioni piacevoli e dolorose; la differenza fra i realizzati e le persone comuni sta nel modo in cui i primi si relazionano alle sensazioni; i Buddha e gli Arahant, nello sperimentare piacere e dolore, non si lasciano condizionare, non permettendo che nella loro mente si inneschino le reazioni emotive di bramosia, avversione ed indifferenza.

Il saggio non sperimenta alcun piacere o dolore 
mentale, essendo egli ben istruito;
Questa è la grande differenza fra il sapiente 
 e l’inesperto uomo comune.

Il sapiente ha ben compreso la realtà,
avendo visto in profondità questo e l’altro mondo;
Gli oggetti del desiderio non sconvolgono la sua mente,
 e le cose sgradevoli non provocano in lui avversione

 Per lui, attrazione e repulsione sono cessate,
 entrambe estinte, non più esistenti;
 Conoscendo lo stato privo di dolore,
 pienamente comprendendo, egli trascende l’esistenza.”

Salla Sutta

Cercare di ottenere gratificazione e benessere rincorrendo i desideri è come cercare di dissetarsi dall’arsura bevendo acqua salata: una tentativo maldestro, frutto dell’ignoranza della realtà delle cose, che in ultima analisi avrà come risultato ancora più sete ed ancora più frustrazione.

A tal proposito, il Ven. Ajhan Sumedho scrive:

“Per quanto riguarda bramosia, avversione ed ignoranza, i tre maggiori problemi condivisi da tutti noi, bisogna riconoscere che il corpo umano è fatto di desiderio, e che al fine della sua sopravvivenza deve essere nutrito. Potreste provare avversione nei riguardi del desiderio se avete assunto una posizione contraria ad esso senza aver compreso le necessità del corpo. Fin quando il corpo vivrà, vi sarà il desiderio ad operare attraverso di esso: Desiderio di cibo, bevande e sesso sono cose naturali. Esse sono nella natura del non-sé; non sono un’anomalia personale. Attraverso la saggezza li riconosciamo per quello che sono, invece di attaccarci incantati ad essi, esasperandoli o cercando di annullarli per via dell’avversione.”

Nell’ottica buddhista, non tutte le forme di desiderio sono causa di sofferenza: ad esempio, il desiderio di ottenere la liberazione dalla sofferenza o il desiderio di aiutare il prossimo (Compassione) non sono condizionanti ma liberanti.

Così come la sete che è causa di sofferenza è quella sovrastrutturale e auto imposta e non il desiderio naturale o fisiologico, la sofferenza che la pratica del Dharma si prefigge di estinguere è quella prodotta dalla mente ignorante circa la vera natura del nostro esistere, non quella sofferenza naturale, fisiologica e congenita propria del nostro essere degli organismi viventi.

La terza Nobile Verità: la Cessazione

Se il problema deriva dall’ignoranza della realtà, il rimedio deve necessariamente basarsi sulla sua eliminazione attraverso la coltivazione dello stato mentale direttamente antitetico, la conoscenza (Vijja); con conoscenza non si intende l’onniscienza, ma bensì la conoscenza della sofferenza, delle sue cause, della possibilità di arrivare alla sua cessazione e al metodo da impiegare a tale fine.

Lo stato di Nirodha o Nibbāna, l’estinzione delle sofferenza, è l’obiettivo della pratica buddhista, ciò a cui l’intera pratica del sentiero del Dhamma nei suoi aspetti di etica, meditazione e saggezza è indirizzata.

Il termine Nibbāna vuol dire “soffiare via [il fuoco del dukkha]”, nei suoi molteplici aspetti: pena ed angoscia (soka- parideva), prostrazione fisica e psicologica (dukkha-domanassa), ed afflizione (upāyāsa).

Il Nibbāna è definito come la cessazione delle tre afflizioni radice di ignoranza-bramosia e avversione, -le tre radici fondamentali di dukkha- oppure, in maniera più sofisticata, come la cessazione del Bhava, l’essere condizionato o esistenza afflitta (bhava-nirodho nibbānam).

Dal punto di vista linguistico, Nibbāna ha una chiara valenza allegorica: nir+vāyati significa infatti “soffiare via”, nel senso di raffreddare o dare refrigerio a qualcosa di infuocato e rovente; in questo contesto, l’immagine allegorica del fuoco assume una valenza negativa di afflizione.

Uno dei fattore chiave all’origine della sofferenza è l’afferrarsi o Upādāna, che a sua volta significa prendere (adāna) verso di sé (Upa); Upādāna però significa anche “combustibile”, ciò che alimenta il fuoco della sofferenza, e questo per via del fatto che, figurativamente parlando, le fiamme di un fuoco si sviluppano sulla base del sostrato combustibile, come nel caso di un incendio generatosi dalla combustione di un blocco di legna; nella lingua del Buddha, i termini ‘sostrato’ (ūpadhi) e ‘afferrarsi’ (Upādāna) sono chiaramente imparentati.

Non è un caso che il Buddha abbia indicato la ‘sete’ o bramosia, (taṇhā) come il fondamento causale dell’afferrarsi, (Taṇhāpaccayā upādānaṃ) e che tale ‘sete’ sia stata definita dallo stesso Buddha come il fertilizzante (sneho) ed alimento (Āhāra) dell’esistenza condizionata (upādānapaccayā bhavo), di cui il Nibbāna rappresenta la cessazione irreversibile (bhava-nirodho nibbānam).

Il Nibbāna Dhatu, la sfera del Nibbāna è lo stato dove, non essendovi più alcuna esistenza condizionata, afferrata cioè soggettivamente da un individuo nei termini di Io & Mio (bhava), non vi è -nel qui ed ora- più alcuna ‘nascita’ in senso soggettivo (Io sono nato), e non essendovi alcuna ‘nascita’ afferrata soggettivamente da un Io, non vi sono più decadimento e morte riguardanti un sé o Io immaginario ormai trasceso (Io sto invecchiando, Io devo morire);

Non essendovi più niente di tutto ciò, non vi sarà più alcun dukkha, alcuna pena ed angoscia di fronte al pensiero del proprio decadimento e morte (soka-parideva), e nessuna prostrazione fisica e psicologica (dukkha-domanassa), né alcuna afflizione esistenziale (upāyāsa).

Per questa ragione il Buddha ha definito il Nibbāna come lo stato “senza morte” (Amata).

Al fine di realizzare il Nibbāna o estinzione del dukkha, bisogna eliminare il maniera definitiva le sue cause, ovvero gli stati afflittivi della mente:

1)l’ignoranza della natura cangiante, incerta ed incontrollabile di ogni cosa, interna ed esterna (moha);

2)la sete illusoria che brama continuamente una soddisfazione duratura impossibile da ottenere in mondo soggetto al cambiamento e all’incertezza (Lobha);

3)l’avversione verso tutti quei fenomeni interni ed esterni che si contrappongono alla nostra disperata ed irrealizzabile ricerca di soddisfazione e felicità durature (dosa).

 

La quarta Nobile Verità: il Sentiero

 

Il Nobile Ottuplice Sentiero è la quarta delle Nobili Verità, ed è conosciuto in pali con il nome di Ariya aṭṭhaṅgika magga; esso è detto nobile o ariya in quanto la sua funzione è di condurre (Āyati) al di là della sfera d’influenza del nemico interiore (ari), i veleni interiori causa di sofferenza.

Il Nobile Ottuplice Sentiero è il percorso ideato dal Buddha per condurre all’estinzione della sofferenza.

Ai fini didattici, il sentiero per la liberazione è presentato nella forma di otto elementi concatenati fra loro, in cui ogni elemento dipende da quello che lo precede; tuttavia si tratta solo di una suddivisione teorica; nella pratica è un unico processo graduale di comprensione e liberazione.

Quando il sentiero è presentato assieme ai suoi frutti, allora gli elementi diventano dieci, includendo così anche la corretta conoscenza e la corretta liberazione, come nel discorso che introdurremo per primo in questo articolo.

Nell’esposizione classica, ogni elemento del sentiero è preceduto dall’aggettivo ‘giusto’ o ‘corretto'(ad es. giusta comprensione), traduzione italiana del termine Pali sammā, vocabolo che deriva dalla radice saṃ, parente dell’inglese ‘same’ (uguale), che sta quindi ad indicare qualcosa che è uguale e quindi equilibrato, ben fatto, ben proporzionato e bilanciato.

Sammā indica ciò che è giusto e corretto, nel senso di armonioso, bilanciato, in accordo al concetto fondamentale della via di mezzo fra gli opposti estremi di indulgenza e mortificazione esposto nel Dhamma­cakkap­pa­vat­ta­na­sutta.

Di seguito, presentiamo un’esposizione del Nobile Ottuplice Sentiero tratta dai testi canonici. il primo discorso, chiarisce la natura interdipendente degli elementi che lo compongono; Il secondo sutta espone invece il significato di ogni elemento.

“In colui il quale è dotato di corretta comprensione, vi sarà anche la corretta intenzione, in colui il quale è dotato di corretta intenzione, vi sarà anche la corretta parola, in colui il quale è dotato di corretta parola, vi sarà anche l’azione corretta, in colui il quale è dotato di agire corretto, vi sarà anche lo stile stile di vita corretto, in colui il quale è dotato di stile di vita corretto, vi sarà anche la corretta applicazione, in colui il quale è dotato di corretta applicazione, vi sarà anche la corretta consapevolezza, in colui il quale è dotato di corretta consapevolezza, vi sarà anche il corretto raccoglimento, in colui il quale è dotato del corretto raccoglimento, vi sarà anche la corretta conoscenza, in colui il quale è dotato della corretta conoscenza vi sarà anche la corretta liberazione.” 

Micchattasutta (AN 10, 103),

“Monaci, vi esporrò e spiegherò il Nobile Ottuplice Sentiero, ascoltate bene e fate ben attenzione, Io parlerò. I monaci risposero in assenso al Beato, ed egli così disse:“

Qual è, monaci il Nobile Ottuplice Sentiero? la corretta comprensione, corretta intenzione, corretta parola, corretta azione, corretto stile di vita, corretta applicazione, corretta consapevolezza, corretto raccoglimento“.

“E cos’è, monaci, la corretta comprensione? La conoscenza della sofferenza, conoscenza dell’origine della sofferenza, conoscenza della cessazione della sofferenza, conoscenza del cammino conducente alla cessazione della sofferenza: questa, monaci, è la corretta comprensione.”

“E cos’è, monaci, la corretta intenzione?: ciò che è, monaci, l’intenzione improntata alla rinuncia, l’intenzione improntata alla non avversione, l’intenzione di non nuocere; questa, monaci, è la corretta intenzione.”

“E cosa, monaci, è la parola corretta? L’astenersi dal mentire, dalla parola divisiva, dalla parola violenta e dai discorsi futili. Questa, monaci, è la parola corretta”.

“E cos’è, monaci, la corretta azione? L’astenersi dal togliere la vita, l’astenersi dal prendere ciò che non è dato, l’astenersi da una condotta sessuale scorretta[1]. Questa, monaci è la corretta azione”.

“E cos’è, monaci, il corretto stile di vita? Ecco, o monaci, un nobile discepolo abbandona gli stili di vita erronei e assume uno stile di vita corretto. Questo, monaci, è il corretto stile di vita”.[2]“

E cos’è, monaci, lo sforzo corretto? monaci, un monaco genera desiderio, si applica, suscita energia, applicazione mentale e impegno al fine di impedire che stati mentali non salutari non ancora sorti possano sorgere; genera desiderio, si applica, suscita energia, applicazione mentale e impegno al fine di abbandonare gli stati mentali non salutari già sorti; genera desiderio, si applica, suscita energia, applicazione mentale e impegno al fine di generare stati mentali salutari non ancora sorti; genera desiderio, si applica, suscita energia, applicazione mentale e impegno al fine di stabilizzare, mantenere, incrementare, estendere, sviluppare e completare quegli stati mentali salutari già sorti. Questo, o monaci, è lo sforzo corretto.”

“E cos’è, o monaci, la corretta consapevolezza? monaci, un monaco dimora contemplando il corpo come corpo, energico, con chiara comprensione e consapevole, avendo rimosso bramosia e scontento riguardo al mondo; dimora contemplando le sensazioni come sensazioni, energico, con chiara comprensione e consapevole, avendo rimosso bramosia e scontento riguardo al mondo; dimora contemplando la mente come mente, energico, con chiara comprensione e consapevole, avendo rimosso bramosia e scontento riguardo al mondo; dimora contemplando i fenomeni come fenomeni, energico, con chiara comprensione e consapevole, avendo rimosso bramosia e scontento riguardo al mondo. Questa, monaci, è la corretta consapevolezza.”

“E cos’è, monaci, il corretto raccoglimento? Qui, monaci, un monaco, distaccatosi dai piaceri sensuali, distaccato dagli stati mentali non salutari, entra e dimora nel primo jhāna, dotato di pensiero applicato, pensiero sostenuto, di gioia e benessere nate dal distacco;

con l’acquietarsi del pensiero applicato e del pensiero sostenuto, sviluppando la fiducia interiore e l’univocità mentale, egli entra e dimora nel secondo jhāna, il quale è privo di pensiero applicato e pensiero sostenuto, è dotato di gioia e benessere sorte dal raccoglimento(samadhi);

con lo svanire della gioia, egli dimora equanime, consapevole e con chiara comprensione, sperimentando benessere corporeo, lo stato del quale i nobili dichiarano : ‘Egli dimora equanime, consapevole e felice’; in questo terzo jhāna egli entra e dimora;

con l’abbandono di felicità e sofferenza, avendo precedentemente trasceso gioia e dolore, egli entra e dimora nel quarto jhāna, privo di sofferenza e felicità, dotato di consapevolezza equanime completamente purificata. Questo, o monaci, è chiamato il corretto raccoglimento.”

Magga-vibhanga SuttaAnalisi del SentieroSaṃyutta Nikāya, 45.8

Note:

1. “In questo modo egli si comporta erroneamente in riguardo ai piaceri sensuali, intrattenendo rapporti sessuali con chi è sotto la tutela di madre, del padre, di padre e madre, di un fratello maggiore, di una sorella maggiore o di altri familiari, sotto la tutela del clan di appartenenza, del Dhamma, del coniuge, con chi [per tale rapporto sarebbe soggetto] a punizione da parte della legge e con chi ha già ricevuto la ghirlanda di fiori [simbolo del fidanzamento ufficiale].(AN10.211)

“Un uomo, la cui giovinezza è ormai passata, che si accompagna ad una ragazza il cui seno è della misura di un piccolo frutto timbaru, e per gelosia non riesce neppure a dormire: questo è ciò che porta della rovina”.
(Parabhavo sutta, KN, Sn)



2. “Monaci, un praticante laico dovrebbe astenersi da cinque tipi di attività: Quali cinque? Commercio di armi, di esseri umani, di carni, di sostanze intossicanti e di sostanze velenose; queste, o monaci, sono le cinque attività da cui un laico dovrebbe astenersi”.(Vaṇijjāsutta, AN, 5.177)

3 risposte a "Le Quattro Nobili Verità"

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  1. Mi tornano utili le riflessioni di Ajahn Chan, cioè di chiedermi spesso qualcosa tipo : Che cosa mi porterò via da questo mondo? Ho l’impressione che questo tipo di riflessione aiuti a spegnere la brama.

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