“Seyyathāpi, bhikkhave, mahāsamuddo ekaraso loṇaraso; evamevaṃ kho, bhikkhave, ayaṃ dhammavinayo ekaraso vimuttiraso”
“Proprio come, o monaci, il grande oceano ha solo un sapore, il salato, allo stesso modo, o monaci, questo Dharma e disciplina hanno un solo sapore, il sapore della liberazione.”
-Uposatasutta, Ud 5.5
Come abbiamo visto nel precedente articolo sulle Quattro Nobili Verità, la sofferenza di cui parla il Buddhismo non è un fenomeno etero-diretto ma un processo di natura interiore determinato dal modo in cui noi percepiamo la propria realtà esistenziale in relazione a mondo esteriore.
Il dukkha dipende dal modo in cui noi ci relazioniamo con la realtà delle cose; Se, per via dell’ignoranza ci afferriamo a ciò che è per natura incerto considerandolo certo, allora stiamo creando la nostra stessa sofferenza. Questo fenomeno è spiegato negli insegnamenti buddhisti sull’origine dipendente o paṭiccasamuppāda, insegnamento in cui viene esplicato il processo di condizionamento messo in atto dall’individuo sulla base di questa incapacità radicale di sperimentare la vera natura delle cose;
Questo stato di cose, quest’ignoranza, è ciò che il Buddha chiamava avijjā, termine che deriva dalla radice verbale ‘vid’ che significa ‘sentire’; dalla stessa radice verbale da cui deriva anche il termine vedana, sensazione.
A-vijjā è l’insensibilità, ovvero l’incapacità di sperimentare la reale natura delle cose,in particolare l’insensibilità o cecità circa la sofferenza, la sua causa, la sua cessazione ed il modo per arrivare a tale cessazione;
L’avijjā a sua volta dipende da un altro strato di cecità o ignoranza circa l’esistenza stessa dell’avijjā: Non conosciamo la realtà delle cose, e quel che è peggio non sappiamo di non conoscere la realtà delle cose; non siamo, in altre parole, coscienti di non sapere come stanno le cose. Per questo motivo, l’avijjā è un fenomeno molto resistente ai nostri tentativi di liberarcene.
“Katamo pana, bhante, eko dhammo yassa pahānā bhikkhuno avijjā pahīyati, vijjā uppajjatī”ti?
“Qual è, o signore, quella cosa che se abbandonata, porta all’abbandono dell’ignoranza e al sorgere della conoscenza?
“Avijjā kho, bhikkhu, eko dhammo yassa pahānā bhikkhuno avijjā pahīyati, vijjā uppajjatī”ti.
“L’ignoranza, o monaco, è quella cosa che una volta abbandonata porta all’abbandono dell’ignoranza, al sorgere della conoscenza.”
“Kathaṃ pana, bhante, jānato, kathaṃ passato bhikkhuno avijjā pahīyati, vijjā uppajjatī”ti?
“Ma in che modo, Signore, un monaco, rettamente conoscendo, rettamente comprendendo, realizza l’abbandono dell’ignoranza e il sorgere della conoscenza?”
“Cakkhuṃ kho, bhikkhu, aniccato jānato passato bhikkhuno avijjā pahīyati, vijjā uppajjati. Rūpe … cakkhuviññāṇaṃ … cakkhusamphassaṃ … yampidaṃ, cakkhusamphassapaccayā uppajjati vedayitaṃ sukhaṃ vā dukkhaṃ vā adukkhamasukhaṃ vā tampi aniccato jānato passato bhikkhuno avijjā pahīyati, vijjā uppajjati … pe … manaṃ aniccato jānato passato bhikkhuno avijjā pahīyati, vijjā uppajjati.”
“La vista, o monaco, allorché compresa e realizzata come incostante porta all’abbandono dell’ignoranza e al sorgere della conoscenza; Gli oggetti visivi..la coscienza visiva..il contatto visivo.. ed anche le sensazioni sorte per via del contatto visivo -piacevoli dolorose o neutre – riconoscendo e comprendendo tutto ciò come incostante, in un monaco si realizza l’abbandono dell’ignoranza ed il sorgere della conoscenza.” ( lo stesso schema viene ripetuto anche per gli altri organi di senso, i rispettivi oggetti sensoriali, il contatto e le sensazioni.)
-Paṭhamaavijjāpahānasutta, SN 35.79
Se quindi il problema deriva dalla non conoscenza della realtà, il rimedio deve necessariamente basarsi sulla sua eliminazione attraverso la coltivazione dello stato mentale direttamente antitetico alla non conoscenza, ovvero la conoscenza, il Vijja.
Per conoscenza qui non si intende una conoscenza universale o onniscienza su ogni cosa esistente nell’universo, ma più modestamente la conoscenza della sofferenza, delle sue cause profonde, della possibilità di arrivare alla cessazione ed al metodo da impiegare a tale fine.
La conoscenza o saggezza dipende a sua volta dalla capacità del praticante di rendere la mente -lo strumento principale al fine dell’ottenimento della conoscenza – tersa e raccolta nel momento presente, l’unico momento in cui è possibile osservare e quindi comprendere il processo attraverso il quale la sofferenza si manifesta per poi svanire ad ogni contatto sensibile, incluso il contatto mentale con i pensieri e le emozioni; Tale stato di chiarezza e calma è ciò che viene propriamente inteso come meditazione (bhavana).
A sua volta, la possibilità di sviluppare uno stato mentale chiaro e raccolto dipende dall’assunzione di uno stile di vita etico che sia adeguato e non in conflitto con la ricerca della chiarezza e della calma equanime.
Per questa ragione, il sentiero per la liberazione dalla sofferenza o Nobile ottuplice sentiero è suddiviso in tre parti principali: Etica, meditazione e saggezza, Sila, samādhi e Paññā.
L’etica buddhista è basata sul concetto di Ahimsa, termine tradotto in italiano con innocenza, il non nuocere, la pratica consapevole di abbandonare quelle azioni che danno come risultato ulteriore sofferenza, per chi le compie e per chi gli sta attorno. Sintetizzando, l’aspetto etico del sentiero può essere condensato nel motto “non creare altra sofferenza”. L’assunzione di uno stile di vita etico teso a ridurre l’influenza delle afflizioni sulle nostre attività quotidiane dipende a sua volta da una prima comprensione – seppur a livello concettuale – delle Quattro verità e della legge naturale del Karma, il meccanismo delle azioni e dei risultati.
Quando comprendiamo che la sofferenza è il prodotto delle nostre azioni -fisiche, verbali e mentali- e che tali azioni sono basate su di un intenzione o desiderio a sua volta determinato dall’ignoranza o insensibilità circa la realtà delle cose, allora cominceremo a comprendere che abbiamo la possibilità di scegliere se continuare ad indirizzare la nostra esistenza verso la confusione ed il condizionamento o verso l’emancipazione da tutto ciò.
Per questo motivo, il primissimo elemento del nobile ottuplice sentiero è detto sammā diṭṭhi o corretta ( giusta) comprensione-realizzazione.
La pratica dell’etica o comportamento virtuoso è chiamata sila in lingua pali, termine che possiamo tradurre con argine, confine, o cornice, in quanto la sua funzione è quella di contenere gli effetti negativi che le azioni compiute sulla scorta delle emozioni negative già manifestatesi ed imperanti nella mente (come ad esempio un momento di rabbia) potrebbero produrre;
La funzione dell’aspetto meditativo del sentiero è quella di eliminare tali stati emotivi negativi dalla mente nel momento in cui si stanno manifestando;
Infine, la funzione dell’aspetto di saggezza del sentiero è quella di eradicare in via definitiva dal continuum mentale le radici o fondamenti latenti degli stati mentali ed emotivi alla base del processo di condizionamento: Bramosia, avversione, ignoranza eccetera.
Queste radici profonde sono dette Anusaya o tendenze dormienti, e sono, come è facile intuire, ben radicate ed invisibili attraverso la vista della mente conscia ordinaria. Gli anusya infatti sono tendenza subconscie, e in quanto tali fuori dal campo d’azione della mente conscia. Per questa ragione, è spiegato che la cessazione della sofferenza e del conflitto interiore non può essere realizzato attraverso la logica, l’analisi razionale delle cose, né tanto meno tramite la mera conoscenza intellettuale e filosofica del problema. (per non parlare della conoscenza filosofica dell’insegnamento del Buddha).
Nella terza parte della nostra trattazione delle Quattro Nobili Verità ci concentreremo sull’analisi del Nobile ottuplice sentiero.
Rispondi