Buddhismo ed Etica dell’Alimentazione

 

Buddhismo e alimentazione etica
Davide A. Puglisi

La posizione del Buddhismo delle origini in merito al consumo di carne è uno dei temi più dibattuti oggigiorno, dove fra larghi strati della popolazione, specialmente nei paesi più sviluppati economicamente, si sta diffondendo una sempre maggior consapevolezza circa gli effetti -sulla nostra salute e sull’ambiente, oltreché sulla dignità della vita degli animali – che il consumo di carne comporta.

In questo articolo cercheremo di capire, sulla base dei discorsi del Canone Pali, quale sia la posizione del Buddhismo antico, e della scuola Theravāda, in merito al consumo di carne.

LA DIETA DEL BUDDHA

Nel Sukhamala Sutta (AN 3.38) , è Il Buddha stesso a raccontare che presso la propria famiglia d’origine, era consuetudine la consumazione di piatti a base di riso e carne, e che questi venivano generosamente elargiti anche agli inservienti:
«Mentre nelle case altrui, schiavi, lavoratori e servi ricevono riso rotto e farinata per pasto, nella residenza di mio padre ricevevano riso di collina, carne e riso bollito».

Nel Satipaṭṭhāna Sutta, il più importante discorso canonico sulla meditazione di consapevolezza, il Buddha arriva a portare ad esempio l’immagine di una vacca appena macellata e fatta a pezzi per essere venduta al mercato, per illustrare il modo in cui il praticante dovrebbe osservare consapevolmente gli elementi costituenti il proprio corpo materiale: 

«Monaci, proprio come un abile macellaio, o un apprendista macellaio, dopo aver macellato una vacca, si stabilisse presso un incrocio stradale [per esporre] le porzioni; allo stesso modo, o monaci, un monaco contempla questo stesso corpo, per come è, in riguardo agli elementi: ‘In questo corpo vi è l’elemento dell’inerzia, l’elemento della coesione, l’elemento del calore e l’elemento del movimento’» . 

Inoltre, il Mahāparinibbānasutta (DN 16), ci informa che l’ultimo pasto consumato dal Buddha poco prima della morte consisteva in un piatto a base di carne di maiale (sūkaramaddava). Questi riferimenti scritturali indicano senza ombra di dubbio che il futuro Buddha crebbe in un contesto socio-familiare in cui il consumo di carne non era considerato contrario ai principi etico-religiosi vigenti. 

MONACI E MONACHE

Per quanto riguarda la dieta dei monaci ( Bhikkhu, Bhikkuni), il primo spunto di riflessione ci viene fornito dal Jīvakasutta (MN 55); in questo discorso, Jīvaka Komāra­bhacca, il medico personale del Buddha, chiede al Maestro stesso alcuni chiarimenti in merito al consumo di alimenti non vegetariani da parte dei monaci:

Cosi ho udito: Una volta il Sublime dimorava presso Rājagaha, nel bosco di manghi di Jīvaka, il medico di corte. Jīvaka si recò là dove si trovava il Sublime, lo salutò rispettosamente e si sedette accanto dicendo: «Ho sentito che per l’asceta Gotama tolgono la vita ed egli mangia scientemente la carne cucinata proprio per lui! quelli che lo hanno detto, Signore, ripetono solo ciò che il Sublime ha detto e, non a torto, lo incolpano di ciò, ma non sono da biasimare i seguaci che lo ripetono, perché parlano in accordo con il Dharma.»

«Jīvaka, quelli che hanno detto così non ripetono ciò che io ho detto, hanno torto e mi incolpano senza ragione. Vi sono tre casi in cui io dico di non mangiare carne: vista, sentita e sospettata. E vi sono tre casi in cui io dico di mangiare carne: non vista, non sentita, non sospettata.

Ecco che un monaco vive nei dintorni d’un villaggio o di una città. Con animo amorevole egli irradia le quattro regioni e così anche l’alto e il basso: dappertutto riconoscendosi egli irradia il mondo intero con animo amorevole, con ampio, profondo, illimitato animo privo di rabbia e di rancore. E lo visita un padre di famiglia o suo figlio, e lo prega di desinare il dì seguente da lui. Il monaco può accettare e lo fa. E il mattino seguente, preparatosi per tempo, prende mantello e scodella e si reca là dove abita il padre di famiglia o il figlio. Là giunto prende posto sul sedile che gli viene offerto, e viene servito con scelto cibo d’elemosina. Allora egli non pensa: ‘E’ bello veramente che questo padre di famiglia mi ospiti offrendomi scelto cibo! Ah, se egli volesse ospitarmi così anche per l’avvenire!’ Egli prende questi bocconi d’elemosina non allettato, non stordito, non accalappiato, vedendo la miseria e memore dello scampo. Cosa ne pensi: ha forse in mente il monaco, in questa occasione, il proprio danno, o il danno di altri, o il danno di entrambi?»

«Questo no, Signore!»

«Quel monaco, Jīvaka, in questa occasione, non prende appunto nutrimento irreprensibile?»

«Certamente, Signore! Ho sentito dire: ‘Brahmā è amorevole’, ‘Brahmā è immoto’. Ho visto far testimonianza di ciò il Sublime perché egli è amorevole, perché egli è immoto».

«Quella brama, quell’avversione, quell’ignoranza da cui sorge la malevolenza è stata dal Compiuto rinnegata, troncata alla radice, resa simile al ceppo di palma, estirpata, e non può quindi mai più svilupparsi. Se le tue parole, Jīvaka, hanno inteso ciò, te lo concedo».

«Le mie parole intendevano esattamente questo».

«Chi ora toglie la vita per il Compiuto o per un suo discepolo, costui si acquista cinque volte grave colpa. Perché egli comanda: ‘Andate e portate qui quell’animale!’; per questo egli acquista per la prima volta grave colpa. Perché poi l’animale, trascinato tremante e riluttante, prova dolore e tormento; perciò egli acquista per la seconda volta grave colpa. Perché poi egli ordina: ‘Uccidete questo animale!’; perciò egli acquista per la terza volta grave colpa. Perché poi l’animale nel morire prova dolore e tormento; perciò egli acquista per la quarta volta grave colpa. Perché poi egli fa ristorare sconvenientemente il Compiuto o i suoi discepoli; perciò egli acquista per la quinta volta grave colpa. Ecco cosa accade a chi toglie la vita per il Compiuto o per i suoi discepoli!»

«Mirabile, Signore, straordinario, Signore! Conveniente nutrimento, invero, prendono i monaci. Benissimo, Signore, benissimo! Come fedele seguace voglia il Sublime considerarmi da oggi, per la vita».

In base a quanto scritto in questo discorso, il Buddha riteneva ammissibile il consumo di carne da parte dei monaci, sulla base di tre pregiudiziali: che il monaco ricevente l’offerta di cibo non avesse né visto, né sentito, né sospettato che un animale fosse stato ucciso apposta per lui. il principio di quest’affermazione è quello della non-intenzionalità: se l’offerente decide di offrire del cibo a base di carne ad un monaco, e questi è totalmente ignaro del contenuto dell’offerta, allora tale offerta di cibo è definita ‘pura’, in quanto l’intenzione dell’offerente non era macchiata dalla malevolenza ma dal semplice desiderio di offrire un pasto al suddetto monaco.

Un secondo elemento ci viene fornito dal Manāpa­dāyī­sutta (AN 5.44), dove un discepolo laico di nome Ugga dichiara esplicitamente di aver sentito dalla bocca del maestro che il consumo di carne fosse una cosa accettabile per li Buddha:

«Signore, in presenza del Sublime ho udito ciò, dalla sua bocca ho appreso: ‘Colui che dona ciò che è delizioso otterrà ciò che è delizioso.’ Signore, il mio porco ai datteri (sūkaramaṃsa) è delizioso; possa il Sublime accettare tale piatto preparato da me, per compassione».
E Il Sublime accettò per compassione.

Nel Sīhasutta (AN 8.12) , il generale Sīha, un seguace della scuola puritana dei Niganta (i moderni Jainisti), dopo aver ricevuto istruzioni sulla pratica dal Buddha stesso, avendo invitato il maestro assieme all’ordine dei monaci a pranzo per il giorno seguente, si rivolge ad un suo inserviente ordinandogli di procurare della carne da offrire al Buddha, cosa che venne accettata dal Buddha.

«Quindi,  il Generale Sīha si rivolse ad un certo uomo: «Buon uomo, vai a cercare della carne pronta per la vendita.» Così, quando la notte era al termine, il Generale Sīha, avendo preparato presso la propria residenza diverse pietanze eccellenti, cibi morbidi e solidi, fece annunciare al Sublime: «Signore, il pranzo è servito».

Nell’Āmagandhasutta (Sn 2.2),  il Venerabile Kassapa risponde così ad un bramino che gli contesta il consumo di carne:

«Uccidere, torturare e mutilare, imprigionare, rubare, mentire e frodare; Inganno e adulterio: questo è ripugnante, non il consumo di carne;

quelle persone bramose e dai sensi incontrollati, avide dei piaceri del palato misti a ciò che è impuro, sostenitore della visione nichilista, instabili, difficili da educare: questo è ripugnante, non il consumo di carne;

i ruvidi, i crudeli e i traditori, privi di compassione, molto arroganti, gli avari, coloro i quali non donano niente a nessuno: questo è ripugnante, non il consumo di carne;

chi è rabbioso, ostinato, ostile e vano, ingannatore, invidioso e vanaglorioso, pieno di sé e interiormente malvagio: questo è ripugnante, non il consumo di carne;

esseri immorali, falliti per i debiti, impostori, calunniatori, fraudolenti, uomini vili che commettono azioni vili: questo è ripugnante, non il consumo di carne;

persone prive di controllo, si appropriano delle proprietà altrui, inclini alle ingiurie; Immorali, rudi e irrispettosi: questo è ripugnante, non il consumo di carne;

pieno d’odio e avidi, destinati all’oscurità nel dopo morte; questi esseri cadranno in basso, negli stadi infernali: questo è ripugnante, non il consumo di carne;

né assaporando pesce e carne, né per via della nudità, né strappandosi i capelli, né la crocchia di capelli, né ricoprendo il corpo con le ceneri funebri, né indossati pelli ruvide, né per via dei fuochi sacrificali, né tramite la mortificazione mondana; non i mantra, non le offerte o le oblazioni o il servizio possono purificare colui il quale è ancora soggetto al dubbio;  ma colui il quale dimora con la corrente dei sensi ben custodita, stabile nel dharma, godendo di una rettitudine soffice, essendo andato oltre gli attaccamenti, avendo abbandonato ogni forma di dukkha, un tale saggio non è sozzato da ciò che ha visto o sentito.»

Occorre ricordare che il Buddha ha sempre avuto un atteggiamento pragmatico in merito alle questioni eticamente sensibili, essendo l’etica unicamente propedeutica al percorso di liberazione dalla sofferenza.

IL RIFIUTO DEL BUDDHA DEL VEGETARIANESIMO

Il divieto di consumare carne e pesce era una delle cinque pratiche austere estreme proposte da Devadatta, cugino e rivale del Buddha, e rigettate da quest’ultimo, sulla base delle tre pregiudiziali sopracitate: 

«Basta Devadatta! a chiunque lo desideri, è permesso dimorare nella foresta, chiunque lo desideri, è permesso dimorare in un villaggio; a chi lo desideri, è permesso praticare la questua del cibo, a chi lo desideri, è permesso accettare un invito per il pranzo; a chi lo desideri, è permesso indossare vesti fatte di stracci, a chi lo desideri, è permesso accettare vesti donati dai capifamiglia; per otto mesi, è da permesso di dimorare ai piedi di un albero; pesce e carne sono ‘puri’ in tre modi: non visto, non sentito, non sospettato (che un animale sia stato ucciso apposta per il monaco)».

 -Vinaya Pitaka, Cūḷavagga, Khandhaka, Saṃgha­bheda­kak­khan­dhaka.

Nei testi Vinaya sulla disciplina monastica, vengono elencati dieci tipi di carne il cui consumo è proibito ai membri dell’ordine monastico, in quanto il consumo di quei tipi di carne era considerato incivile per gli standard dell’epoca. i dieci tipi di carne proibiti ai monaci sono: carne umana, di elefante, cavallo, cane, serpente, leone, tigre, leopardo, orso e iena.

PRATICANTI LAICI

Per quanto riguarda la pratica dei laici, i testi canonici non contengono alcuna indicazione in merito alla dieta che un praticante laico dovrebbe adottare. Questo vulnus è probabilmente dovuto al fatto che l’unica ragion d’essere della pratica buddhista è la liberazione dell’individuo dalla sofferenza esistenziale, obbiettivo raggiungibile eliminando le cause profonde di tale sofferenza, ovvero le tendenze subconscie alla bramosia, all’avversione, al desiderio di esistenza, all’ignoranza; tale obiettivo è raggiungibile da qualunque individuo, a prescindere dalle tradizioni culturali, dall’orientamento sessuale, dalle convinzioni politiche, ideologiche e dallo stile di vita, purché queste non contraddicano ovviamente il principio cardine dell’etica buddhista del non creare volontariamente altra sofferenza.

A differenza del Jhainismo, che pone l’enfasi sulle azioni fisiche, l’etica buddhista è basata sul principio delle intenzioni: un’azione o scelta di vita è considerata nociva o salutare sulla base dell’intenzione o motivazione. Ad esempio, strattonare con forza fino a farla cadere a terra una persona che sta per essere travolta da un autobus è un’azione fisica violenta, ma tuttavia salutare, in quanto la motivazione di fondo è di impedire che questa persona venga travolta e ferita o uccisa; viceversa, coprire una persona di parole dolci, mostrandosi amici e facendole favori  e regali al solo fine di approfittare della sua amicizia per i propri interessi meschini è un modo di comportarsi decisamente negativo, in quanto la motivazione è basata su una delle tre radici negative: bramosia, odio, ignoranza.

ETICA BUDDHISTA E PRINCIPIO DI CORRELAZIONE 

Sulla base di questo principio, possiamo capire perché il Buddha non ha mai esplicitamente proibito il consumo di carne e pesce: lo scopo o motivazione del cibarsi di tali alimenti è quello di sopravvivere, di sostenere la vita, eliminando la sofferenza della fame, non certo quello di nuocere gratuitamente alla vita degli animali; in altre parole, nel nutrirsi di carne non vi è di per sé alcuna motivazione negativa o crudeltà gratuita, come invece accade nel caso di chi pratica la caccia per puro divertimento o crudeltà. 

La posizione che un praticante dovrebbe tenere è quella di cercare di minimizzare il danno prodotto all’eco sistema, cercando di consumare quei prodotti con un minor impatto negativo sulla vita degli altri esseri viventi e della natura.

Questo approccio è tutt’altro che semplice, dato l’alto grado di complessità che il sistema produttivo ha sviluppato nella società contemporanea e la relazione di inter-dipendenza che sussiste fra la produzione di un prodotto e le conseguenze che tale produzione produce: basti pensare al fatto che un alimento semplice come un pomodoro, per arrivare sulle nostre tavole, necessita della manodopera di lavoratori, molto spesso sfruttati nella maniera più ignobile, dell’utilizzo di prodotti chimici dannosi per l’ambiente, gli animali, e per gli stessi addetti alla coltivazione e alla raccolta di quei pomodori, oltreché di macchinari azionati con carburanti derivati dal petrolio per il quale si combattono guerre le quali a loro volta producono quotidianamente migliaia di morti, oltre a generare inquinamento che si traduce in malattie e costi sociali altissimi.

Questo stesso schema può essere applicato a qualunque prodotto di utilizzo comune come i computer o gli smartphone, la corrente elettrica usata per farli funzionare, e persino il tavolo sulla quale esso è posato. Una breve ricerca sulle modalità di produzione dei beni di consumo nella società capitalistica renderà chiaro che qualunque produzione, qualunque alimento o oggetto, per essere prodotto, trasportato e acquistato, ha prodotto non pochi danni dell’ecosistema, anche se questo danno è spesso «invisibile» agli occhi del consumatore poco accorto.

 

Una risposta a "Buddhismo ed Etica dell’Alimentazione"

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  1. E’ proprio vero, diamo per scontate un sacco di cose, non abbiamo spesso idea di tutte le cose che possono scaturire da un singolo gesto. Quindi non è detto che mangiare una fettina produca meno sofferenza che mangiare una foglia di lattuga. Però il buon senso credo che aiuti tutti, ad esempio cercando di avere rispetto per il mondo animale e la vita in generale, riducendo per quanto possibile le loro sofferenze.

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