“Abhinibbatti kho, āvuso, dukkhā, anabhinibbatti sukhā.
“Il ridivenire, o amico, è sofferenza, l’assenza di ridivenire è la felicità”.
-Paṭhamasukhasutta, AN 10.65
Cari amici lettori,
questo articolo è dedicato alla comprensione della poco nota concezione buddhista sulla rinascita in accordo alle (scarse) spiegazioni fornite dal voluminoso corpo letterario contenente i discorsi del Buddha o attribuiti al Buddha in lingua pali.
Il divenire esistenziale, più noto in occidente con il termine “rinascita” è detto in pali Punabhava abhinibbatti, dove puna sta per ‘ancora’, bhava, sta per ‘esistenza’ e abhinibbatti per ‘sorgere’ o ‘manifestarsi’ di qualcosa. Punabhavaabhinibbatti è quindi traducibile con “Il sorgere di una nuova esistenza” o più semplicemente ridivenire.
La concezione buddhista del ridivenire è quindi quella di un continuo processo di manifestazione di bhava, – il senso di essere un qualcuno di definito, un “Io-sono qualcuno”- sulla base degli aggregati psicofisici, in un determinato contesto spazio temporale, continuamente rimodellato dalle nostre scelte e desideri oltre ché dalle nostre azioni.
Il ridivenire o può avvenire in uno dei sei mondi o reami: oltre al reame umano e a quello animale, l’antica cosmologia indiana prevedeva anche la possibilità di rinascere nel reame del niraya o reame infernale, nel reame dei preta o spiriti famelici, nel reame degli dei gelosi o semidei ed infine nel reame degli esseri luminosi o dei. Ognuno di questi sei reami è caratterizzato da un’afflizione peculiare. Per una trattazione in chiave moderna e metaforica dei sei reami del samsara vedere qui.
Nel suo primo discorso, il Buddha definisce la sete come causa del ridivenire, a sua volta condicio sine qua non per il manifestarsi della sofferenza esistenziale o dukkha:
Idaṃ kho pana, bhikkhave, dukkhasamudayaṃ ariyasaccaṃ—yāyaṃ taṇhā ponobbhavikā nandirāgasahagatā tatratatrābhinandinī, seyyathidaṃ – kāmataṇhā, bhavataṇhā, vibhavataṇhā.
“Questa è o monaci, la nobile verità sulla sofferenza: è proprio questa sete, conducente a nuova esistenza, connessa al godimento ed alla passione, cercando godimento qua e là, ovvero: la sete di piacere sensuale, la sete di esistenza e la sete di non esistenza.”
-Dhammacakkappavattanasutta, SN 56.11
Il principio del ridivenire è molto semplice: si diventa ciò che si desidera e ciò che si coltiva, nel bene e nel male.
Un particolare degno di nota è che degli oltre 18.000 discorsi attribuiti al Buddha e compresi nel canone in lingua pali, solo due, peraltro identici nel contenuto, trattano specificamente della questione del come avviene il ridivenire, e questo, a nostro modo di vedere, la dice lunga su cosa ne pensasse il Buddha di questo tema. Il primo di questi due discorsi è chiamato Paṭhamabhavasutta o discorso sul divenire.
Di seguito, la traduzione integrale del Paṭhamabhavasutta in italiano:
“Quindi, Il Ven. Ānanda si avvicinò dal Beato, ed avendolo avvicinato, rese omaggio al Beato e si sedette accanto. Accanto seduto, il Venerabile Ānanda chiese al Beato:
“Signore, ‘divenire, divenire’ – In che modo avviene il divenire?
“Ānanda, se non ci fosse alcun Kamma maturante nella sfera della sensualità (Kama dathu), forse che il divenire nella sfera della sensualità potrebbe essere sperimentato?”
“No, signore.”
“Così, il kamma è il campo, la coscienza il seme e la bramosia il fertilizzante. La coscienza degli esseri viventi, ostacolata dall’ignoranza ed incatenata dalla bramosia, è così stabilita in una sfera d’esistenza inferiore. In questo modo si verifica il continuo manifestarsi del divenire ( punabhavabhinibatti).
“Ānanda, se non ci fosse alcun Kamma maturante nella sfera della forma (rupa Dathu), forse che il divenire nella sfera della forma potrebbe essere sperimentato?
“No, Signore.”
“Così, il kamma è il campo, la coscienza il seme e la bramosia il fertilizzante. La coscienza degli esseri viventi, ostacolata dall’ignoranza ed incatenata dalla bramosia, è così stabilita in una sfera d’esistenza mediana. In questo modo si verifica il continuo manifestarsi del divenire.
“Ānanda, se non ci fosse alcun Kamma maturante nel reame del Senza forma (ArupaDathu), forse che il divenire nella sfera della Senza forma potrebbe essere sperimentato?
“No, signore.”
“Così, il kamma è il campo, la coscienza il seme e la bramosia il fertilizzante. La coscienza degli esseri viventi, ostacolata dall’ignoranza ed incatenata dalla bramosia, è così stabilita in una sfera d’esistenza raffinata. In questo modo si verifica il continuo manifestarsi del divenire.”
-Paṭhamabhavasutta – Il discorso sul divenire, AN 3.76
Secondo questo discorso, vi sono tre modalità d’esistenza o bhava : l’esistenza sensuale (Kamabhava), l’esistenza formale (rupabhava) e l’esistenza informale (arupabhava); la prima è quella in cui tutti noi ci muoviamo ordinariamente, dove la ricerca di benessere tramite il godimento dei sensi (che per il Buddhismo include anche la mente) la fa da padrone; In questa situazione, ci barcameniamo fra il desiderio di sperimentare piacere tramite la ricerca di esperienze piacevoli ed il tentativo costante di sfuggire da tutto ciò che consideriamo indesiderabile.
Il secondo tipo di esistenza, detta esistenza formale, è quella in cui vivono gli esseri assorti negli stadi meditativi con oggetto, altrimenti noti con il nome di RupaJhana; in questo stato d’esistenza, la sfera sensuale viene temporaneamente trascesa ed il meditante prova gioia tramite il distacco dagli oggetti sensuali, piacevoli, dolorosi e neutri.
L’ultimo tipo di esistenza è chiamato esistenza informale, un termine tecnico che sta ad indicare la condizione dell’essere propria di quei rari individui la cui mente dimora per la maggior parte del tempo negli stadi di raccoglimento meditativo senza oggetto.
Il Buddha paragona il Karma ad un campo coltivabile (khetta), a sottolineare che le azioni da noi compiute determinano la qualità della nostra esistenza in divenire; In questo contesto, con karma si intendono le azioni intenzionali compiute sulla spinta di una motivazione (cetana), basata a sua volta su una delle tre radici non salutari di bramosia, avversione ed ignoranza o su una delle tre radici salutari di assenza di bramosia, amore e saggezza, al fine di ottenere gratificazione e soddisfazione.
Il Kamma è definito campo in quanto esso rappresenta il campo d’azione pressoché infinito per l’individuo spinto dalle intenzioni; coltivando azioni di un certo tipo, si sperimenterà una corrispondente esperienza esistenziale. Si raccoglie ciò che si è seminato.
Sulla base delle azioni compiute, si sperimenterà il frutto o risultato corrispondente alle azioni che lo hanno prodotto, nei termini di una delle tre sfere di esistenza: quella sensuale, quella formale e quella sottilissima della sfera esistenziale del senza forma. Per il Buddha quindi, la nostra esistenza, in questa vita e nelle successive, è costantemente plasmata e ridefinita dalle nostre attività mentali, fisiche e verbali.
Il Buddha poi prosegue affermando che la sete è il fertilizzante (sneho) o alimento ( ahara), ad indicare che le azioni determinanti la qualità della nostra vita in termini di felicità o sofferenza sono alimentate o nutrite dalla sete (Tanha), l’impulso radicato nella non conoscenza della realtà instabile delle cose a possedere o essere, dettato dall’aspettativa di protezione e dalla ricerca di gratificazione e felicità.
In altre parole, noi tutti ricerchiamo la felicità e aborriamo il dolore, ma non conoscendo la realtà incerta ed insoddisfacente degli oggetti a cui ci afferriamo, proiettiamo inconsciamente su di esse una capacità di soddisfare stabilmente le nostre aspettative che esse non posseggono. Questa sete di felicità innesca il meccanismo delle azioni rivolte ad ottenere tale gratificazione; al fine di ottenere ciò che vogliamo compiamo un’infinita serie di azioni -mentali, verbali e fisiche – con l’obiettivo di raggiungere l’agognata felicità, e queste azioni a loro volta determinano il nostro vissuto esistenziale (Bhava).
Se quindi, continuando con l’analogia del sutta, il karma è il campo dove noi coltiviamo la nostra esistenza e i desideri ne sono il nutrimento, la coscienza è il seme, a significare che una data condizione esistenziale è tale solo in quanto vi è coscienza da parte dell’individuo della propria condizione particolare.
Il termine pali viññāṇa significa distinguere (vi) e avere conoscenza (ñāṇa), ed in questo contesto, con conoscenza si intende la coscienza o consapevolezza soggettiva della presenza di una dato oggetto o situazione. In altre parole, IO esisto, in quanto sono cosciente di esistere; IO sono qualcuno in quanto ho coscienza di essere quel qualcuno situato in un dato contesto spazio temporale, ove con spazio si intende un determinato luogo nell’universo e con temporale un determinato momento storico.
Il desiderio di possedere (kama tanha), di esistere (bhavatanha) e di non esistere ( vibhava tanha), nutrono tale senso di essere un individualità concreta sorto all’atto della presa di coscienza di noi stessi in quanto individui specifici dotati di personalità, opinioni, aspirazioni e di una vasta gamma di idee e valori di riferimento.
È abbastanza semplice comprendere come questo processo avvenga costantemente, in ogni momento della nostra vita; più arduo è invece pensare che secondo la concezione buddhista, tale processo non si arresti con la morte ma continui a perpetuarsi anche dopo di essa, nella forma di una nuova aggregazione di elementi psico-fisici afferrati da una mente percipiente come “questo sono Io” e “questo è il mio corpo, la mia mente etc.”
Nel Buddhismo infatti, elementi di natura prettamente psicologica quali il desiderio e l’avversione ed altri di natura cosmologica si mescolano in un unica concezione circa l’origine e la sorte della nostra esistenza in questo universo.
Nel Kammanirodhasutta, il Buddha definisce questa nostra esistenza nei termini del manifestarsi delle sedi dei sensi sulla base del karma compiuto in precedenza, detto in gergo vecchio karma o purāṇakamma, spiegando allo stesso tempo che con nuovo karma sono da intendersi quelle azioni compiute in risposta agli stimoli sensuali percepiti tramite quegli stessi organi sensoriali, determinanti a loro volta la nostra situazione esistenziale presente e futura. Nel primo caso, con il termine vecchio karma si intende più che altro il risultato del karma precedentemente compiuto, mentre con nuovo karma sono da intendersi la attività generanti risultati nel futuro, oltreché nel presente.
In questo modo, viene a configurarsi un circolo vizioso in cui le nostre azioni vanno a determinare il manifestarsi di una nuova unità psicofisica provvista delle sei sedi dei sensi, attraverso le quali si sperimentano quegli stimoli sensoriali in risposta ai quali vengono compiute nuove azioni determinanti a loro volta una nuova configurazione esistenziale in cui non è possibile sperimentare alcuna pace duratura…
Katamañca, bhikkhave, purāṇakammaṃ? Cakkhu, bhikkhave, purāṇakammaṃ abhisaṅkhataṃ abhisañcetayitaṃ vedaniyaṃ daṭṭhabbaṃ … pe … jivhā purāṇakammā abhisaṅkhatā abhisañcetayitā vedaniyā daṭṭhabbā … pe … mano purāṇakammo abhisaṅkhato abhisañcetayito vedaniyo daṭṭhabbo. Idaṃ vuccati, bhikkhave, purāṇakammaṃ.
“Cos’è, o monaci, il vecchio karma? L’occhio, o monaci, è il vecchio karma, da vedere come costruito sulla base delle intenzioni, di cui è possibile fare esperienza; la lingua è il vecchio karma, costruito sulla base delle intenzioni, di cui possibile fare esperienza […] l’intelletto è il vecchio karma, costruito sulla base delle intenzioni, di cui possibile fare esperienza.”
Katamañca, bhikkhave, navakammaṃ? Yaṃ kho, bhikkhave, etarahi kammaṃ karoti kāyena vācāya manasā, idaṃ vuccati, bhikkhave, navakammaṃ.
“E cos’è, o monaci, il Karma nuovo? Quelle azione che, o monaci, vengono compiute nel presente attraverso il corpo,la parola e la mente, questo, o monaci, è detto essere il Karma nuovo.”
-Navapurāṇavagga, SN 35.146.
Così, per il Buddha, la nascita che è la base di ogni esperienza di sofferenza, è da intendersi come il manifestarsi degli aggregati psicofisici, il formarsi delle sei sedi dei sensi, che una coscienza afflitta da ignoranza concepisce erroneamente come “questo sono Io”, “questo è il mio corpo-mente”:
Katamā ca, bhikkhave, jāti? Yā tesaṃ tesaṃ sattānaṃ tamhi tamhi sattanikāye jāti sañjāti okkanti abhinibbatti khandhānaṃ pātubhāvo āyatanānaṃ paṭilābho. Ayaṃ vuccati, bhikkhave, jāti.
“Cos’è o monaci, la nascita? Ciò che a questo o quell’essere, in questa o quella specie di esseri è nascita, venire a nascere, discesa dal ventre materno, manifestazione, sorgere degli aggregati, ottenimento delle basi sensoriali. Questo, o monaci è chiamato nascita.”
-Paṭiccasamuppādasutta, SN 12.1
Bisogna quindi ribadire che la nascita di per sé non rappresenta un problema: La sofferenza esistenziale si manifesta per via del fraintendimento circa l’esistenza stessa determinata dalla mente afflitta dalla non conoscenza, il bhava. La nascita base della sofferenza di cui parla il Buddha non è quindi meramente la nascita dal ventre materno, ma l’dea della nascita concepita da una mente afflitta dai veleni mentali. I Buddha e gli Arahat sono ovviamente soggetti a nascita e quindi ad invecchiamento, malattia e morte, ma sono tuttavia liberi dalla sofferenza. Questo dimostra che il problema è la nascita in quanto condizionata dall’ignoranza e dagli altri veleni interiori.
‘Bhavapaccayā jātī’ti iti kho panetaṃ vuttaṃ, tadānanda, imināpetaṃ pariyāyena veditabbaṃ, yathā bhavapaccayā jāti. Bhavo ca hi, ānanda, nābhavissa sabbena sabbaṃ sabbathā sabbaṃ kassaci kimhici, seyyathidaṃ—kāmabhavo vā rūpabhavo vā arūpabhavo vā, sabbaso bhave asati bhavanirodhā api nu kho jāti paññāyethā”ti? “No hetaṃ, bhante”. “Tasmātihānanda, eseva hetu etaṃ nidānaṃ esa samudayo esa paccayo jātiyā, yadidaṃ bhavo.
“La nascita è determinata dal Bhava, ma se ciò fu detto, o Ānanda, è nel seguente modo che questa affermazione deve essere compresa: Se, o Ānanda, non vi fosse alcuna esistenza, di nessun tipo – esistenza sensuale, esistenza formale ed esistenza informale – con l’assenza di qualunque tipo di esistenza, con la cessazione di Bhava, forse che si potrebbe sperimentare ancora la nascita? “No di certo, Signore.” . “Perciò Ānanda, questa e la ragione, questo è il fondamento, questa è l’origine e la causa della nascita, ovvero, l’esistenza.”
-Mahānidānasutta, DN, 15.
Tuttavia bisogna tenere presente che in accordo agli insegnamenti del buddhismo antico, l’idea che la coscienza si trasferisca da un esistenza all’altra è considerata una visione distorta particolarmente grave, come si evince da questo dialogo fra il Buddha ed un monaco di nome Sati, convinto che fosse proprio la coscienza a muoversi immutabile da un’esistenza all’altra:
Evaṃ me sutaṃ— ekaṃ samayaṃ bhagavā sāvatthiyaṃ viharati jetavane anāthapiṇḍikassa ārāme. Tena kho pana samayena sātissa nāma bhikkhuno kevaṭṭaputtassa evarūpaṃ pāpakaṃ diṭṭhigataṃ uppannaṃ hoti: “tathāhaṃ bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati anaññan”ti.
“Così ho udito: Una volta soggiornava il Sublime presso Savatthi, nella selva del Vincitore, nel parco di Anathapindika. Ora in quel tempo, in un monaco di nome Sati Kevattaputta era sorta questa dannosa visione erronea: “Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).”
Assosuṃ kho sambahulā bhikkhū: “sātissa kira nāma bhikkhuno kevaṭṭaputtassa evarūpaṃ pāpakaṃ diṭṭhigataṃ uppannaṃ: ‘tathāhaṃ bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati, anaññan’”ti. Atha kho te bhikkhū yena sāti bhikkhu kevaṭṭaputto tenupasaṅkamiṃsu; upasaṅkamitvā sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ etadavocuṃ: “saccaṃ kira te, āvuso sāti, evarūpaṃ pāpakaṃ diṭṭhigataṃ uppannaṃ: ‘tathāhaṃ bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati, anaññan’”ti?
Venne ora alle orecchie di molti monaci che nel monaco Sati Kevattaputta, era sorta questa dannosa visione erronea, “Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).” Quei monaci si recarono presso di lui e dissero: È vero, o amico Sati, che in te è sorta tale erronea visione: “Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).”?
“Evaṃ byā kho ahaṃ, āvuso, bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati, anaññan”ti. Atha kho te bhikkhū sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ etasmā pāpakā diṭṭhigatā vivecetukāmā samanuyuñjanti samanugāhanti samanubhāsanti: “mā evaṃ, āvuso sāti, avaca, mā bhagavantaṃ abbhācikkhi, na hi sādhu bhagavato abbhakkhānaṃ, na hi bhagavā evaṃ vadeyya. Anekapariyāyenāvuso sāti, paṭiccasamuppannaṃ viññāṇaṃ vuttaṃ bhagavatā, aññatra paccayā natthi viññāṇassa sambhavo”ti.
“proprio così, o amici, Io comprendo il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).” Quindi, quei monaci desiderosi di correggere il monaco Sati Kevattaputta da quella dannosa visione erronea, interrogarono, domandarono ed esaminarono così:” Non dire così, amico sati, non parlare così, Non distorcere ciò che ha detto il Sublime, non è bene distorcere ciò che ha detto il Sublime, il Sublime non può aver detto ciò. In molti modi, amico Sati, è stato detto e spiegato dal Sublime che la coscienza è sorta in maniera interdipendente, che senza cause non può sorgere alcuna coscienza.”
Evampi kho sāti bhikkhu kevaṭṭaputto tehi bhikkhūhi samanuyuñjiyamāno samanugāhiyamāno samanubhāsiyamāno tadeva pāpakaṃ diṭṭhigataṃ thāmasā parāmāsā abhinivissa voharati: “evaṃ byā kho ahaṃ, āvuso, bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati anaññan”ti.
“Ma nonostante che il monaco Sati Kevattaputta fosse stato interrogato, contro-interrogato ed esaminato da quei monaci, egli continuava ostinatamente a mantenere tale dannosa visione erronea: “così, o amici, Io comprendo il Dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).”
Yato kho te bhikkhū nāsakkhiṃsu sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ etasmā pāpakā diṭṭhigatā vivecetuṃ, atha kho te bhikkhū yena bhagavā tenupasaṅkamiṃsu; upasaṅkamitvā bhagavantaṃ abhivādetvā ekamantaṃ nisīdiṃsu. Ekamantaṃ nisinnā kho te bhikkhū bhagavantaṃ etadavocuṃ:
“Allora quei monaci, incapaci di correggere il Monaco sati Kevattaputta da tale dannosa visione erronea, si recarono la dove si trovava il Sublime, ed avvicinandosi al Sublime, gli resero omaggio e si sedettero di fianco a lui. E sedendogli accanto, quei monaci dissero al Sublime: (I monaci ripetono al Buddha l’intera conversazione avuta con Sati)
Yato kho mayaṃ, bhante, nāsakkhimha sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ etasmā pāpakā diṭṭhigatā vivecetuṃ, atha mayaṃ etamatthaṃ bhagavato ārocemā”ti.
“Quindi, signore, non essendo riusciti a correggere il monaco Sati Kevattaputta da quella dannosa visione erronea, noi siamo qui venuti a vedere il Sublime.”
Atha kho bhagavā aññataraṃ bhikkhuṃ āmantesi: “ehi tvaṃ bhikkhu, mama vacanena sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ āmantehi: ‘satthā taṃ, āvuso sāti, āmantetī’”ti. “Evaṃ, bhante”ti kho so bhikkhu bhagavato paṭissutvā yena sāti bhikkhu kevaṭṭaputto tenupasaṅkami; upasaṅkamitvā sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ etadavoca: “satthā taṃ, āvuso sāti, āmantetī”ti. “Evamāvuso”ti kho sāti bhikkhu kevaṭṭaputto tassa bhikkhuno paṭissutvā yena bhagavā tenupasaṅkami
“Quindi, Il Sublime si rivolse ad un certo monaco e gli disse: “vieni monaco, vai dal monaco Sati Kevattaputta e digli a nome mio: Amico, il maestro ti vuole parlare. ” Certo Signore”, rispose quel monaco al Sublime ed obbedendo al Sublime, si recò la dove risiedeva il monaco Sati Kevattaputto, ed essendo arrivato la, disse al monaco Sati Kevattaputta: “Amico Sati, il maestro ti vuole parlare”. “Certo, amico”, ed avendo assentito a quel monaco, si recò la dove si trovava il Sublime.”
upasaṅkamitvā bhagavantaṃ abhivādetvā ekamantaṃ nisīdi. Ekamantaṃ nisinnaṃ kho sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ bhagavā etadavoca: “saccaṃ kira te, sāti, evarūpaṃ pāpakaṃ diṭṭhigataṃ uppannaṃ: ‘tathāhaṃ bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati, anaññan’”ti? “Evaṃ byā kho ahaṃ, bhante, bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati, anaññan”ti.
“e recatosi la dove si trovava il sublime, rese omaggio al Sublime, e si sedette accanto a lui. E al monaco Sati Kevattaputta che gli sedeva accanto il Sublime disse: È vero, come si dice, che in te, Sati è sorta una tale dannosa visione distorta: “Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa)”?
“Proprio così, signore, Io comprendo il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).”
“Katamaṃ taṃ, sāti, viññāṇan”ti? “Yvāyaṃ, bhante, vado vedeyyo tatra tatra kalyāṇapāpakānaṃ kammānaṃ vipākaṃ paṭisaṃvedetī”ti.
“E cosa, o Sati, sarebbe questa coscienza?”
“Signore, proprio quella che parla, prova sentimenti e sperimenta qua e là i risultati delle azioni benefiche e nocive.”
“Kassa nu kho nāma tvaṃ, moghapurisa, mayā evaṃ dhammaṃ desitaṃ ājānāsi? Nanu mayā, moghapurisa, anekapariyāyena paṭiccasamuppannaṃ viññāṇaṃ vuttaṃ, aññatra paccayā natthi viññāṇassa sambhavoti? Atha ca pana tvaṃ, moghapurisa, attanā duggahitena amhe ceva abbhācikkhasi, attānañca khaṇasi, bahuñca apuññaṃ pasavasi. Tañhi te, moghapurisa, bhavissati dīgharattaṃ ahitāya dukkhāyā”ti.
“Da chi hai tu dunque sentito, essere stolto, che io abbia esposto un simile dharma? Non ho forse io, essere stolto, spiegato in molti modi la natura condizionata della coscienza: senza cause non può sorgere alcuna coscienza? Ma tu, essere stolto, distorci quello che ho insegnato e scavi a te stesso la fossa, causando a te stesso un grave danno. Ciò ti sarà, essere stolto, di grande danno, e sofferenza.”
Atha kho bhagavā bhikkhū āmantesi: “taṃ kiṃ maññatha, bhikkhave, api nāyaṃ sāti bhikkhu kevaṭṭaputto usmīkatopi imasmiṃ dhammavinaye”ti? “Kiñhi siyā, bhante? No hetaṃ, bhante”ti
Quindi il Sublime si rivolse a quei monaci: “Cosa pensate, o monaci, forse che in questo monaco Sati Kevattaputta si sia acceso un qualche barlume di conoscenza circa questo Dharma e disciplina?”
“Come potrebbe essere ciò? No di certo, Signore.”
Quindi il Buddha, dopo aver sgridato il monaco Sati, ormai ammutolito e paonazzo in volto, continua la spiegazione sulla natura contingente della coscienza:
“Yaṃ yadeva, bhikkhave, paccayaṃ paṭicca uppajjati viññāṇaṃ, tena teneva viññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati Cakkhuñca paṭicca rūpe ca uppajjati viññāṇaṃ, cakkhuviññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati; sotañca paṭicca sadde ca uppajjati viññāṇaṃ, sotaviññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati; ghānañca paṭicca gandhe ca uppajjati viññāṇaṃ, ghānaviññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati; jivhañca paṭicca rase ca uppajjati viññāṇaṃ, jivhāviññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati; kāyañca paṭicca phoṭṭhabbe ca uppajjati viññāṇaṃ, kāyaviññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati; manañca paṭicca dhamme ca uppajjati viññāṇaṃ, manoviññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati.
“per qualsiasi ragione, voi monaci, abbia origine coscienza, proprio per quella, e solo per quella, essa viene a determinarsi. Mediante la vista e le forme viene a determinarsi coscienza visiva. Mediante l’udito e i suoni viene a determinarsi la coscienza uditiva. Mediante l’olfatto e gli odori viene a determinarsi la coscienza olfattiva. Mediante il gusto e i sapori viene determinarsi la coscienza gustativa. Mediante il tatto e i contatti, viene a determinarsi la coscienza tattile. Mediante il pensiero e le cose ha origine la coscienza mentale.”
-Mahātaṇhāsaṅkhayasutta, MN 38
la mancanza di spiegazioni sul processo di rinascita deve essere stata la causa del proliferare di teorie e dottrine su questo processo nei due secoli successivi la morte del Buddha tese a riempire tale vuoto dottrinario. Fra le elaborazioni dottrinali più antiche dal punto di vista filologico vi è quella del Patisandhi Vinnana o ‘coscienza di riconnessione’ esposta nel patisambhidamagga, un testo composto da un autore ignoto ed attribuito a Sariputta incluso nella raccolta dei discorsi brevi o kuddhaka Nikaya.
Secondo questa dottrina, sarebbe proprio la coscienza di ri-connessione (pati-sandhi) a garantire la continuità fra le esistenze passate, presenti e future; e tuttavia, tale dottrina è difficilmente riconciliabile con quanto asserito nel sutta esposto qui sopra. Inoltre, non vi è alcun riferimento a tale particolare tipo di coscienza in nessuno dei discorsi attribuiti al Buddha.
Altre dottrine, come quella del citavithi e del citta bhavanga sono esposte nei testi dell’abhidharma, ma anche in questo caso, non vi sono riscontri a tali dottrine.
In conclusione, possiamo affermare che, in accordo alle informazioni forniteci dai discorsi inclusi nel canone pali, il Buddhismo antico intendeva la rinascita, o meglio, il ridivenire, come un processo continuo che avviene di momento in momento e di vita in vita a causa della sete d’esistenza e delle azioni (karma) volte a soddisfare tale sete; Inoltre, tale rinascita o ridivenire si configura come il sorgere di una nuova entità psicofisica dotata di basi sensoriali in una determinata area geografica ed in una certa epoca, in uno dei sei reami d’esistenza.
Tale entità viene così afferrata da una mente ignorante è concepita erroneamente come un sé o Io autonomo ed imperituro. Qualunque sia il reame nel quale tale rinascita prenda forma, si sarà sempre e comunque soggetti all’inesorabile legge di causa ed effetto secondo la quale si riceve ciò che si coltiva, in termini di felicità e sofferenza. La via d’uscita da tale circolo vizioso è rappresentato dal sentiero di liberazione esposto dal Buddha, che ha la funzione di liberare dalla sofferenza di questa vita ed eventualmente delle altre.
Davide A. Puglisi.
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