La corretta intenzione (Sammāsaṅkappa)

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Katamo ca, bhikkhave, sammāsaṅkappo? Yo kho, bhikkhave, nekkham­ma­saṅkappo, abyāpā­da­saṅkappo, avihiṃ­sā­saṅkappo—ayaṃ vuccati, bhikkhave, sammāsaṅkappo.

“Cos’è, monaci, la corretta intenzione? L’intenzione alla rinuncia, l’intenzione alla non avversione, l’intenzione di non nuocere; ciò, o  monaci, è detta corretta intenzione.”

-Mahā­sati­paṭṭhā­na­sutta, DN, 22. 

Sammāsaṅkappa, la corretta intenzione, traducibile anche come ‘corretta aspirazione’, ‘giusto pensiero’ o ‘corretta risoluzione’, è il secondo elemento del Nobile Ottuplice Sentiero; essa si fonda sulla corretta comprensione (sammādiṭṭhi), il primo elemento del sentiero, il quale è il prodotto dell’osservazione consapevole della realtà originale (yonisomanasikara) e dell’aver interiorizzato le istruzioni sul Dharma impartite dal Buddha.

Il termine saṅkappa è composto dal prefisso ‘saṅ”, insieme, e dal causativo ‘kappeti’, letteralmente: modellare, dare forma, preparare; questo verbo deriva a sua volta dalla radice verbale ‘kappa’, forma, figura, configurazione; saṅkappeti indica quindi l’attività mentale del plasmare, di dare forma e configurare la propria forma mentis in una maniera coerente con la corretta comprensione, ovvero con la consapevolezza dell’esistenza della sofferenza, delle sue cause, della possibilità di realizzarne la cessazione e del sentiero che permette di arrivare a tale cessazione.

Come affermato nel sutta citato in apertura, la corretta intenzione ha tre aspetti: corretta intenzione: l’intenzione connessa all’abbandono,  l’intenzione connessa all’abbandono dell’avversione e l’intenzione connessa alla non violenza.

1.Nekkham­ma, la rinuncia alla sofferenza del bramare

Il primo aspetto della corretta intenzione, nekkhamma o rinuncia alla sofferenza, dipende dall’aver compreso la natura precaria e perciò insoddisfacente dell’esistenza condizionata, ma anche dall’aver intuito che tale insoddisfazione è il prodotto della sete d’esistere e degli stati mentali afflitti quali l’avversione e l’ignoranza; a quel punto, il praticante adotterà la risoluzione o intenzione di abbandonare quelle stesse afflizioni e le azioni ad esse connesse.

Per questa ragione, il Buddha ha spiegato la corretta intenzione nei termini di abbandono (nekkham­ma) di quei comportamenti aventi come risultato un incremento della sofferenza.

In questo contesto, con abbandono o rinuncia non si intende un sentimento negativo o di censura moralista nei confronti della vita sociale e affettiva, ma un’astensione volontaria e consapevole da ciò che è causa di malessere, come l’indugiare in stati emotivi colmi d’avversione e violenza verso se stessi e gli altri. La rinuncia di cui parla il Buddha è un astenersi (ne) dal mettere passione (kāma) in ciò che causa sofferenza

Nekkham­ma è libertà di non agire, è disimpegno dalle cause della sofferenza, libertà dalla coercizione imposta dall’ignoranza di perseguire forme idealistiche felicità e soddisfazione in modi che in realtà non faranno altro che rafforzare la frustrazione e l’insoddisfazione.

Nel Sammohavinodanī, il commentatore Buddhaghosa suggerisce la pratica della contemplazione degli aspetti sgradevoli dell’oggetto di desiderio (asubha) quale antidoto contro il desiderio afflittivo.

2. Abyāpā­da: la non avversione

Il secondo aspetto della corretta intenzione è detto abyāpā­da, vocabolo che vuol dire assenza (a) di avversione, (byāpā­da), uno degli ostacoli principali alla meditazione profonda e alla liberazione. L’abyāpā­da o assenza di avversione è una delle caratteristiche proprie della mettā o amichevolezza, uno pratica nella quale ci si impegna a smettere di alimentare sentimenti distruttivi come l’odio, il risentimento e la malevolenza, verso se stessi o gli altri.

3.Avihiṃ­sā: il pensiero non violento

Infine, il terzo aspetto è quello del pensiero non violento o  avihiṃ­sā. Nel coltivare l’avihiṃ­sā­, non violenza o assenza di crudeltà (vihiṃ­sā), ci si impegna nell’abbandonare la pulsione di nuocere a se stessi e agli altri. La risoluzione di abbandonare tali stati d’animo, è de facto, la risoluzione di muoversi da uno stato di offuscamento e confusione verso la chiarezza e la libertà. Anche in questo caso, l’attitudine mentale improntata alla non violenza dipende dall’aver realizzato il funzionamento della legge di causa ed effetto e la legge del Karma (kammaniyama); secondo quest’ultima dottrina, le nostre intenzioni sono il determinante (sankhara) per il prodursi degli stati mentali di sofferenza e felicità, nel presente e nel futuro. L’intenzione basata sulla crudeltà determinerà stati esistenziali dominati proprio dalla crudeltà e dalla violenza, che nella mitologia buddhista sono rappresentati allegoricamente dal Reame Infernale o Naraka; al contrario, modalità di pensiero salutari come quelli associati alla coltivazione della compassione (karuna) determineranno il prodursi di stati d’esistenza caratterizzati da libertà e pienezza, che nell’allegoria buddhistica sono rappresentati dal Reame Divino (devaloka).

Questi tre aspetti della corretta intenzione sembrano essere collegati alle tre radici non salutari di bramosia, avversione e ignoranza.

Corretta intenzione e fattori etici

La corretta aspirazione è, assieme alla corretta comprensione, il fondamento per la coltivazione del comportamento virtuoso, il cui e scopo è quello di non creare ulteriore sofferenza:

“Qual è lo scopo,  Signore, e qual è il beneficio del comportamento virtuoso?” “il non rimorso, o Ānanda è lo scopo del comportamento virtuoso, il non rimorso è il beneficio.”

-Kimatthi­ya­sutta, AN, 10.1

In particolare, il pensare in accordo alla corretta comprensione è la base del passo successivo dell’ottuplice sentiero, la corretta parola; questo perché il pensare, assieme al ponderare, è il determinante principale della parola (vacīsaṅkhāro), come suggerito in questo dialogo fra la monaca Dhammadinna e il laico Visākha:

“Innanzitutto, o amico Visakha, si pensa e si pondera, dopodiché ci si esprime con le parole; perciò il pensare e il ponderare sono il determinante della parola”.
-Cūḷa­ve­dalla­sutta, MN 44
Inoltre, l’intenzione mentale improntata all’abbandono di stati nocivi quali l’avversione, l’odio e la crudeltà, è ovviamente propedeutica allo sviluppo della corretta azione e del corretto stile di vita; la pratica di questi due aspetti del sentiero implica l’astensione dall’uccidere, dal rubare, dalla condotta sessuale abusiva o da attività quali la vendita di armi, il traffico di esseri o la vendita di sostanze intossicanti e velenose.

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