Cos’é il saṃsāra?

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“Nāhaṃ, bhikkhave, aññaṃ eka­saṃ­yoja­nampi samanupassāmi yena saṃyojanena saṃyuttā sattā dīgharattaṃ sandhāvanti saṃsaranti yathayidaṃ, bhikkhave, taṇhā­saṃ­yoja­naṃ. Taṇhā­saṃ­yoja­nena hi, bhikkhave, saṃyuttā sattā dīgharattaṃ sandhāvanti saṃsarantī”ti. 
“Monaci, non conosco alcun altro legame, per via del quale gli esseri sono costretti per lungo tempo al girovagare nel saṃsāra, come il legame della sete.
Invero, è per via di questo legame che gli esseri,
imprigionati, sono costretti al girovagare nel saṃsāra”. 
(Taṇhā­saṃ­yoja­na­sutta, Iti, 15) 

Il termine saṃsāra deriva dal prefisso ‘saṃ’, ‘assieme’ e dal verbo ‘sarati’, lett. ‘fluire’ ‘muoversi’, dalla radice verbale ‘sṛ’ (fluire); saṃsārati può essere tradotto con ‘rifluire’, ‘vorticare’, ‘girare in tondo’.

Con saṃsāra si intende uno stato esistenziale di inquietudine che si perpetua in continuazione, dalla nascita fino alla morte, e il suo continuo ripetersi (vaṭṭa), il ritornare sempre al punto di partenza, senza realmente andare da nessuna parte.
Nel breve spazio di tempo fra questi due eventi chiamato vita, l’individuo è soggetto a sperimentare le sofferenze di nascita, malattia, invecchiamento e morte, a sottostare a ciò che non vorrebbe, a separarsi da ciò che ama ed alla frustrazione delle proprie aspirazioni.

Per il Buddha, l’origine, (lett. la ‘matrice’, mata) del saṃsāra è sconosciuta (anamatagga), e il suo inizio (Pubbā koṭi) non può essere compreso (na paññāyati):

“Anamataggoyaṃ, bhikkhave, saṃsāro. Pubbā koṭi na paññāyati avijjānīvaraṇānaṃ sattānaṃ taṇhāsaṃyojanānaṃ sandhāvataṃ saṃsarataṃ.”

“Monaci, sconosciuta è l’origine del saṃsāra, e il suo inizio non può essere compreso dagli esseri che vagano e rifluiscono, ostacolati dall’ignoranza e legati dalla sete.”

– Dhītusutta, SN 15.19

Similmente, il niddesa, un commentario attribuito a Sariputta afferma:

“Saṃsārassa purimāpi koṭi na paññāyati, pacchimāpi koṭi na paññāyati; majjheva saṃsāre sattā ṭhitā patiṭṭhitā allīnā upagatā ajjhositā adhimuttā.”

“L’inizio del saṃsāra non può essere conosciuto, né tanto meno la sua fine; gli esseri rimangono saldamente invischiati nel saṃsāra, attaccati, intenti e dediti ad esso.”
– Cnd 14.

Secondo le vie del Dharma come l’Induismo e il Buddhismo, questo stato di cose non termina con la vita attuale, ma si perpetua in nuove forme in una serie di esistenze (puna bhava) senza soluzione di continuità. Tuttavia, la liberazione da questo stato di cose deve essere realizzata in questa stessa vita.
Per la filosofia buddhista, la radice di questo stato di cose è la sete (Taṇhā) nei suoi tre aspetti di sete di piacere, sete d’esistenza, e sete di non-esistenza (annichilimento). Questa sete è  generata a sua volta per via dall’avijjā, l’ignoranza della realtà.
Non importa quanto ricchi, belli e famosi si possa essere, nel saṃsāra è semplicemente impossibile trovare una qualche forma di soddisfazione stabile. Tuttavia, per via dell’ignoranza, gli esseri senzienti continuiamo a permanere in questo circolo vizioso alimentando la sete d’esistenza,  definita dal Buddha ‘Āhāra’, ‘alimento’ o ‘sneha’ ‘fertilizzante’. In quest’ottica, la felicità tanto anelata è sempre un passo avanti rispetto alla nostra attuale posizione, e quindi, – come nell’immagine dell’asino che insegue la carota legata alla sua schiena – irraggiungibile.

Secondo il Buddhismo, la soluzione a questo stato di cose passa attraverso la piena comprensione dell’impossibilità di ottenere una soddisfazione eterna. Questa comprensione, e l’attitudine rispetto alla vita che ne consegue è definita nekkhamma (‘abbandono’).

Coltivare il Nekkhamma non significa assumere atteggiamenti negativi rispetto alla vita né implica l’adozione di atteggiamenti moralisti o puritanici di negazione della sensualità. Il problema non è nel piacere (Kāma) in se stessa, ma nella sete di piacere (Kāmataṇhā) o brama si piacere (kāmarāga). Questa importante distinzione deve essere sempre tenuta a mente quando si parla di Nekkhamma.

In altre parole, coltivare la rinuncia significa coltivare l’abbandono della sofferenza dell’insoddisfazione, attraverso la coltivazione del nobile ottuplice sentiero, la via di mezzo fra gli estremi dell’indulgenza edonistica e della mortificazione puritanica.

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