Sul Nirodha-samāpatti

 

La coltivazione del Samādhi e la visione dell’Origine Dipendente

Il termine Pāli Jhāna dal verbo Jhāyi, che letteralmente significa ‘soffermarsi’, ‘dimorare’ o ‘focalizzare’. Un jhāna è  uno stato meditativo che si sviluppa focalizzando l’attenzione su di un oggetto o immagine (rūpa, nimitta).
Nel sistema buddhista si prediligono gli oggetti di meditazione presentati nei Quattro fondamenti della consapevolezza, come ad esempio il respiro, le parti del corpo, la camminata etc.

In genere, vi sono due aspetti della meditazione profonda: una prima fase nella quale l’attenzione è sostenuta per mezzo di un’oggetto meditativo o rūpa denominata rūpajhāna, e una fase successiva, dove l’attenzione non necessita più dell’ausilio di un’oggetto di meditazione ma si auto sostiene, chiamata stadio di raccoglimento senza oggetto Arūpasamādhi; i fattori di quest’ultima meditazione sono detti ayata, sfere o reami meditativi.

Dalla prospettiva delle fisiologia buddhista, ogni oggetto possiede quattro caratteristiche primarie:

1.Pathavī: L’elemento terra, la qualità dell’inerzia o resistenza (pathiga);
2. āpo: l’elemento acqua, la qualità della fluidità e della coesione;
3.tejo: l’elemento fuoco, la qualità del calore;
4.vāyo: l’elemento vento, la qualità della motilità o movimento.
Oltre a questi quattro elementi vi sono l’elemento spazio (ākāsā) e l’elemento coscienza (viñ­ñā­ṇa)  .

Un rūpa è un oggetto di meditazione caratterizzato da queste quattro qualità, o per essere precisi, l’immagine mentale di tale oggetto (rūpasaññāna). A questo proposito, vi sono vari oggetti di meditazione: Il respiro, le parti del corpo, la camminata, gli elementi del corpo, le sensazioni, la mente e i fenomeni mentali (dharma); Nell’ambito della terminologia Buddhista, tutte queste forme di meditazione sono definite ‘oggetti’.

Prendiamo ad esempio la meditazione sulla consapevolezza del respiro: Il respiro, il ‘condizionante del corpo’ per eccellenza, avrà la qualità della ‘resistenza’, osservabile durante la contrazione ed estensione della cassa toracica ad ogni inspirazione ed espirazione; la qualità della fluidità, osservabile portando l’attenzione al fluire e al defluire del respiro dal nostro corpo, dal petto verso l’addome e viceversa; Avrà altresì la qualità del calore (caldo e freddo), particolarmente evidente quando si porta l’attenzione alla frizione prodotta nelle narici dall’entrata e dall’uscita dell’aria; Inoltre avrà la qualità della motilità o movimento, osservabile portando l’attenzione all’aspetto dinamico della respirazione stessa, il ritmico e regolare alternarsi dell’inspirazione ed espirazione. È possibile osservare ognuna di queste qualità insite nel respiro focalizzando l’attenzione su ciascun singolo aspetto del respiro come descritto qui sopra.

La funzione dei Jhāna

Da una prospettiva strettamente yogica, la ragione per la quale i Jhāna sono necessari al fine dell’emancipazione ruota attorno al concetto di Saṅkhāra o attività determinante/condizionante;

Saṅkhārā è un termine composto dal prefisso ‘saṅ’, insieme, e dal sostantivo ‘khārā’, ‘fare’; Saṅkhārā indica quindi ciò che forma, ciò che determina, ciò che costruisce, predispone o condiziona, e non, come spesso si dice, ciò che è determinato, composto , costruito o formato; Il termine per indicare ciò è composto, costruito è Saṅkhata, (con il suffisso TA ) che è il participio passato del verbo saṅkharoti, dalla quale deriva anche lo stesso termine saṅkhārā.

La spiegazione fornitaci dal Cūḷa­ve­dalla­sutta in riguardo alla funzione dei Saṅkhārā deve essere tenuta ben a mente al fine di comprendere la ragione per la quale la coltivazione dei Jhāna non sia emendabile (in rosso i termini tecnici oggetto della nostra analisi):

“Assāsapassāsā kho, āvuso visākha, kāyasaṅkhāro, vitakkavicārā vacīsaṅkhāro, saññā ca vedanā ca cittasaṅkhāro”ti.

“Amico Visākha, inspirazione ed espirazione sono il condizionante del corpo, pensiero iniziale e pensiero ripetuto sono il condizionante della parola, percezione e sensazione, sono il condizionante mentale.”

“Kasmā panāyye, assāsapassāsā kāyasaṅkhāro, kasmā vitakkavicārā vacīsaṅkhāro, kasmā saññā ca vedanā ca cittasaṅkhāro”ti?

“Ma perché, venerabile Signora, inspirazione ed espirazione sono il condizionante del corpo, perché pensiero iniziale e pensiero ripetuto sono il condizionante della parola, e perché percezione e sensazione sono il condizionante mentale?”

Assāsapassāsā kho, āvuso visākha, kāyikā ete dhammā kāyap­paṭi­baddhā, tasmā assāsapassāsā kāyasaṅkhāro. Pubbe kho, āvuso visākha, vitakketvā vicāretvā pacchā vācaṃ bhindati, tasmā vitakkavicārā vacīsaṅkhāro. Saññā ca vedanā ca cetasikā ete dhammā cittap­paṭi­baddhā, tasmā saññā ca vedanā ca cittasaṅkhāro”ti.

“’Inspirazione ed espirazione, amico Visakha, sono fenomeni di natura fisica, connessi al corpo: perciò inspirazione ed espirazione condizionano il corpo; Innanzitutto, amico Visakha, si pensa e si pondera, dopodiché si inizia a parlare; perciò pensiero iniziale e pensiero ripetuto sono il condizionante della parola; percezione e sensazione sono fattori mentali, sono elementi connessi alla mente, perciò essi sono condizionanti della mente-cuore.”

-Cūḷa­ve­dalla­sutta, MN 44.

Di seguito, una descrizione degli stadi di meditazione Jhāna  e dei successivi ayatana, le sfere meditative.

Il primo Jhāna

“Vivicceva kamehi vivicca akusalehi dhammehi savitakkam savicaram vivekajam piti-sukham pathamam-jhanam upasampajja vihareyyanti”

“Distaccato dai desideri sensoriali, distaccato dai pensieri nocivi, raggiunge e dimora nel primo assorbimento meditativo (Jhāna), che è nato dal distacco e accompagnato dal pensiero applicato, dal pensiero costante, da gioia e benessere.”

Il secondo Jhāna

vitakkavicārānaṃ vūpasamā ajjhattaṃ sampasādanaṃ cetaso ekodibhāvaṃ avitakkaṃ avicārā samādhijaṃ pītisukhaṃ dutiyaṃ jhānaṃ upasampajja viharati.”

“Con il dissolversi di pensiero applicato e pensiero sostenuto, egli raggiunge e dimora nel secondo Jhāna, caratterizzato da tranquillità interiore, unificazione (della mente) priva di pensiero applicato e sostenuto, e dotato di gioia e benessere.

Il terzo Jhāna

“Pītiyā ca virāgā upekkhako ca viharati sato ca sampajāno sukhaṃ ca kāyena paṭisaṃ vedeti yantaṃ ariyā ācikkhanti upekkhako satimā sukhavihārīti taṃ tatiyaṃ jhānaṃ upasampajja viharati.”

“Con il distacco dalla gioia egli dimora in equanimità, consapevole, con una chiara comprensione, e godendo di benessere nel corpo, raggiunge e dimora nel terzo Jhāna, che i nobili (ariya) definiscono: ‘Il dimorare in equanimità, consapevolezza e beatitudine. “

Il quarto Jhāna

“Sukhassa ca pahāṇā dukkhassa ca pahāṇā pubbeva somanassadomanassānaṃ atthaṃgamā adukkhaṃ asukhaṃ upekkhāsatipārisuddhiṃ catutthaṃ jhānaṃ upasampajja viharati.”

“Con l’abbandono di benessere e malessere, e con la pregressa scomparsa di gioia e dolore, egli raggiunge e dimora nel quarto Jhāna, che non è né beatitudine né felicità, ma è la purezza di equanimità-consapevolezza.”

Il samadhi senza oggetto: il primo ayatana

“idha bhikkhu sabbaso rūpasaññānaṃ samatikkamā paṭi­gha­saññā­naṃ atthaṅgamā nānat­ta­saññā­naṃ amanasikārā ananto ākāsoti ākāsānañ­cāyata­naṃ upasampajja viharati.”

“Ora monaci, con il completo superamento di ogni percezione dell’oggetto, con l’abbandono della percezione di resistenza, distogliendo l’attenzione dalla varietà delle percezioni, sperimentando lo spazio infinito, egli accede e dimora nella sfera dello spazio infinito.”  

Il secondo ayatana

“‘idha bhikkhu sabbaso ākāsānañ­cāyata­naṃ samatikkamma anantaṃ viññāṇanti viñ­ñā­ṇañ­cāyata­naṃ upasampajja viharati.”

“Quindi, o monaci, con il completo superamento della sfera dello spazio infinito,  percependo  l’infinto, entra e dimora nella sfera della coscienza infinita.”

Il terzo ayatana

“‘Idha bhikkhu sabbaso viñ­ñā­ṇañ­cāyata­naṃ samatikkamma natthi kiñcīti ākiñ­cañ­ñā­yatanaṃ upasampajja viharati.”

“Quindi monaci, con il completo superamento della sfera della coscienza infinita, non essendoci alcunché, entra e dimora nella sfera dove non v’è alcunché.”

Il quarto ayatana

“‘idha bhikkhu sabbaso ākiñ­cañ­ñā­yatanaṃ samatikkamma neva­saññā­nā­sañ­ñāyata­naṃ upasampajja viharati.”

“Quindi monaci, con il completo superamento della sfera del non v’è alcunché, egli entra e dimora nella sfera della né percezione né assenza di percezione.”

La cessazione di sensazione e percezione (saññā­ve­dayi­ta­nirodha-nirodha-samāpatti)

“sabbaso neva­saññā­nā­sañ­ñāyata­naṃ samatikkamma saññā­ve­dayi­ta­nirodhaṃ upasampajja viharati, paññāya cassa disvā āsavā parikkhīṇā honti.”

“Con il completo superamento della sfera della né percezione né assenza di percezione, egli entra e dimora nella cessazione di percezione e sensazione, ed avendo visto la realtà con saggezza, i veleni sono eliminati completamente.”

La funzione del nirodha-samāpatti

Nel Madhupiṇḍika Sutta è esposta la serie causale degli elementi determinanti la proliferazione concettuale alla base di dukkha, nel quale il binomio vitakka-vicara gioca un ruolo fondamentale in tale processo:

“Cakkhuñcāvuso, paṭicca rūpe ca uppajjati cakkhuviññāṇaṃ, tiṇṇaṃ saṅgati phasso, phassapaccayā vedanā, yaṃ vedeti taṃ sañjānāti, yaṃ sañjānāti taṃ vitakketi, yaṃ vitakketi taṃ papañceti, yaṃ papañceti tatonidānaṃ purisaṃ papañ­ca­saññā­saṅ­khā samudācaranti atī­tā­nāga­ta­pac­cup­pan­nesu cak­khu­viññeyyesu rūpesu”.

“Per via di occhio e oggetto visivo sorge la cognizione visiva; la concomitanza dei tre determina il contatto; il contatto determina la sensazione; ciò che si sente viene riconosciuto e su ciò che viene riconosciuto si rimugina; ciò che viene rimuginato prolifera mentalmente; per via di ciò su cui si è proliferato l’individuo viene ossessionato dalla proliferazione concettuale [nata dalla] percezione in riguardo ad oggetti percepiti tramite la vista, in relazione al passato, al futuro ed al presente”. 

Come possiamo notare, i tre tipi di condizionanti incontrati nella progressione della meditazione sono gli stessi fattori responsabili della formazione del dukkha, ed è proprio per dissolvere tali condizionanti che il Buddha insegnò a sviluppare gli stadi di meditazione profonda. Ancora dal Cūḷa­ve­dalla­sutta:

“Saññā­ve­dayi­ta­nirodhaṃ samā­pajjan­tassa kho, āvuso visākha, bhikkhuno paṭhamaṃ nirujjhati vacīsaṅkhāro, tato kāyasaṅkhāro, tato cittasaṅkhāro”ti

“Amico Visakha, avendo ottenuto la cessazione di sensazione e percezione (il quinto ayatana N.d.T.), si dissolvono innanzitutto i determinanti verbali (pensiero e riflessione), quindi i determinanti fisici (inspirazione ed espirazione). ed infine i determinanti mentali (sensazione e percezione)”.

In altre parole, i determinanti sono esattamente ciò che determina il dukkha, e l’etimologia di tale termine ci da conferma circa la natura pro-creativa dei determinanti.

Nella meditazione jhanica, questi tre gruppi di condizionanti vengono gradualmente dissolti, causando così la dissoluzione dell’intero processo di condizionamento alla base del dukkha. Questa è la ragione fondamentale per la quale una pratica ben strutturata non può prescindere dalla coltivazione del samādhi.

Ma c’è un’altra ragione, più profonda, per la quale l’esperienza del samādhi senza oggetto è di fondamentale importanza: la base dell’esperienza samsarica, caratterizzata dall’incertezza e dall’insoddisfazione è la combinazione di oggetto (rūpa), fattori mentali (nāma), i fattori deputati alla percezione e al riconoscimento di questa massa di materia che definiamo ‘il mio corpo’, e cognizione (viññāṇa).

Questi tre fattori si sostengono a vicenda in un rapporto di dipendenza reciproca. Venendo meno uno dei tre, automaticamente anche gli altri verranno a decadere ,in quanto nessuno dei tre può esistere senza gli altri due.
Nella meditazione, ad un certo punto l’oggetto viene abbandonato, e questo provoca, inevitabilmente la cessazione della cognizione di tale oggetto , in quanto la cognizione è sempre cognizione di qualcosa, e degli stessi fattori nāma.

“Katamañca, bhikkhave, nāmarūpaṃ? Vedanā, saññā, cetanā, phasso, manasikāro— idaṃ vuccati nāmaṃ. Cattāro ca mahābhūtā, catunnañca mahābhūtānaṃ upādāyarūpaṃ. Idaṃ vuccati rūpaṃ. Iti idañca nāmaṃ, idañca rūpaṃ. Idaṃ vuccati, bhikkhave, nāmarūpaṃ”.

“E cos’è il nāmarūpa? Sensazione, percezione, intenzione, contatto ed attenzione: ciò è detto ‘nāma’; i quattro elementi fondamentali, e l’immagine sorta dall’aggrapparsi ai quattro elementi fondamentali: ciò è detto rūpa”.

-Vibhaṅgasutta SN, 2

A questo proposito, è utile ricordare che vi sono fondamentalmente due tipi di dipendenza:
1. dipendenza sequenziale, dove un fattore precede il successivo in termini temporali, come ad esempio la sensazione a cui farà seguito -senza soluzione di continuità- la sete o bramosia;
2. dipendenza simultanea, dove due fattori esistono in maniera contemporanea, sostenendosi a vicenda, come nel caso della dipendenza fra nāmarūpa e viññāṇa, i quali, per svolgere le loro rispettive funzioni necessitano di esistere contemporaneamente e di sostenersi l’un l’altro.
Un esempio classico di questo tipo di dipendenza e quello dei due fasci di canne che si sostengono l’uno con l’altro offerta nel Naḷa­kalāpī­sutta:

“Seyyathāpi, āvuso, dve naḷakalāpiyo aññamaññaṃ nissāya tiṭṭheyyuṃ. Evameva kho, āvuso, nāmarū­papaccayā viññāṇaṃ; viññāṇapaccayā nāmarūpaṃ; nāmarū­papaccayā saḷāyatanaṃ; saḷāya­tana­pac­cayā phasso … pe … evametassa kevalassa duk­khak­khan­dhassa samudayo hoti.”

“Proprio come due fasci di canne si sostengono l’una l’altra, allo stesso modo  nāmarū­pa è la base di viññāṇa e viññāṇa è la base di nāmarū­pa; nāmarū­pa è la base per le sedi sensoriali, e le sedi sensoriali sono base per il contatto … ed in questo modo che tutta questa intera massa di sofferenza viene a manifestarsi.”

-Naḷa­kalāpī­sutta, SN 12.67

Con la scomparsa dell’oggetto dal campo della coscienza, si dissolvono i fattori nāma che hanno la funzione di dare un nome a tale oggetto ed anche il processo cognitivo, la consapevolezza della presenza di quell’oggetto. Per questo motivo, l’esperienza di tale stato è definita ‘spazio infinito’ (ākāsānañ­cāyata­na), mentre lo stato di coscienza ad essa associata è detta coscienza infinita o priva di di ostruzioni (Viñ­ñā­ṇañ­cāyata­na).

Come descritto negli stati di meditazione senza oggetto (dal primo a quinto ayatana) questo stato di cose ha come effetto la dissoluzione temporanea dell’esperienza del io-mio, il quale lascerà il posto all’esperienza della vacuità o assenza di sé sostanziale e autonomo. 

La peculiarità del nirodha-samāpatti è che una volta terminato, il praticante sarà in grado di osservare direttamente il riapparire del paṭiccasamuppāda, la genesi condizionata dell’ io-mio che, identificandosi con gli aggregati psicofisici, proietta un’immagine illusoria di sé nel mondo fenomenico. Questo processo è conosciuto come Sorgere Dipendente o Paṭiccasamuppāda, e rappresenta, in estrema sintesi, il processo causale attraverso il quale il dukkha si manifesta.

 

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