«Dveme, bhikkhave, tathāgataṃ abbhācikkhanti. Katame dve? Yo ca neyyatthaṃ suttantaṃ nītattho suttantoti dīpeti, yo ca nītatthaṃ suttantaṃ neyyattho suttantoti dīpeti. Ime kho, bhikkhave, dve tathāgataṃ abbhācikkhantī”ti.»
«Monaci, due tipi di persone non rappresentano correttamente il Tathāgata: quali due? chiunque esponga un discorso il cui significato necessita di essere interpretato come se fosse determinato/esplicito, e chiunque esponga il significato di un discorso il cui senso è determinato/esplicito come necessitante di essere interpretato, questi due, o monaci, non rappresentano correttamente il Tathāgata.»
-AN, 2.24.
In questo articolo ci proponiamo di fare un po’ di chiarezza in merito al particolare metodo espositivo impiegato dal Buddha e dai suoi seguaci, consci che consapevolezza dell’utilizzo di tale metodo sia di fondamentale importanza al fine di evitare fraintendimenti dannosi al proprio progresso nel sentiero della liberazione, oltreché per una corretta comprensione de messaggio del Dharma.
Innanzitutto, bisogna tenere a mente che, come spiegato in maniera esauriente dal Prof. Richard Gombrich nel suo libro Il Pensiero del Buddha, con il passare del tempo e il diffondersi del Buddhismo su vasta scala in paesi lontani dalla terra d’origine, vennero persi di vista sia il contesto sociale originario entro il quale avvenne la predicazione del Buddha, sia il significato (e di conseguenza le implicazioni di carattere etico e pratico) della fraseologia impiegata dal maestro nell’esporre il Dhamma.
Per quanto riguarda il metodo didattico adottato dal Buddha, egli era solito utilizzare una terminologia familiare ai suoi interlocutori, scomponendo e ricomponendo l’etimo delle parole, svuotando così quei termini del loro significato originario e riempiendoli con un nuovo significato, al fine di veicolare il messaggio che gli stava a cuore.
Questo ha indotto alcuni studiosi poco accorti a credere erroneamente che il Buddha seguisse, a suo modo, i Veda e le Upaniṣad, (i testi sacri del brahmanesimo), mentre ne stava semplicemente impiegando la terminologia, dando a questa un nuovo significato.
Tale prassi è spesso evidenziata nei discorsi dalla locuzione «In questa dottrina e disciplina» (imasmiṃ dhammavinaye), a sottolineare che in quel contesto il Buddha stava impiegando la fraseologia tradizionale vedica in accordo al Dhamma da lui scoperto e predicato. L’uso di tale locuzione aveva anche lo scopo di differenziare la posizione del Buddha da quella degli altri maestri suoi contemporanei.
Un altro indicatore che il Buddha stava utilizzando il linguaggio tradizionale dei Veda in una maniera non convenzionale era l’inserimento, in una data sentenza, dell’espressione «Io affermo» (Aham vadāmi), come nel caso della riformulazione del concetto tradizionale di Karma contenuta nel ‘Discorso sull’analisi penetrativa’ (AN, 6,63):
«Cetanāhaṃ, bhikkhave, kammaṃ vadāmi. Cetayitvā kammaṃ karoti: kāyena, vācāya, manasā.»
«Monaci le intenzioni, Io intendo per Kamma. Avendo prima ponderato, uno agisce di conseguenza tramite il corpo, la parola e la mente.»
-Nibbedhika Sutta, AN 6,63
Questo è il classico esempio della riformulazione linguistica e concettuale della terminologia vedica operata dal Buddha: Se nella visione tradizionale il termine karma stava ad indicare le azioni rituali (sacrifici) generanti un risultato, nella visione del Buddha tale termine venne a significare (previo rovesciamento del significato originale), non più le azioni ma le intenzioni (Cetanā), da cui esse dipendono.
Questo ha comportato, sul piano filosofico e linguistico -oltreché su quello escatologico- una translitterazione dal piano cosmologico a quello psicologico di molti concetti chiave propri a quasi tutte le correnti di pensiero indiane precedenti o contemporanee al Buddha.
Dal punto di vista storico, il Buddha ha riportato il Dhamma dal reame del rituale a quello dell’attuale, come è evidente nel caso sopracitato del concetto di karma ed in moltissimi altri casi, come ad esempio nel caso del concetto di mondo (loka); Infatti, nel contesto dell’insegnamento del Buddha, il termine Loka è usato in maniera metaforica per indicare l’insieme delle esperienze sensoriali e la loro natura effimera, vuota e priva di quella concretezza che noi siamo soliti attribuire alle cose, in particolare al nostro Io. Alcuni esempi tratti dai discorsi del Buddha:
A tale proposito, T.W. Rhys Davids, nella sua introduzione alla traduzione inglese del Dīgha Nikāya, la raccolta dei discorsi lunghi del Buddha, afferma:
«Nel discutere di sacrifici con un sacerdote dedito ai sacrifici rituali, di “unione con Dio” con un aderente a tale teologia, della superiorità della casta sacerdotale con un bramino arrogante convinto di ciò, di visione mistiche con un fedele seguace di tali credenze o di anima con una persona convinta dell’esistenza dell’anima, il metodo seguito era sempre lo stesso: Gotama si immedesimava il più possibile con la posizione mentale dell’interlocutore, evitando qualsiasi attacco alle convinzioni sostenute con passione da questi; egli accettava, come punto di partenza della propria esposizione, la desiderabilità dell’attività o della condizione ambita dall’interlocutore, fosse questa l’unione con Dio, (come nel Tevijja sutta), i sacrifici (Kūṭadanta sutta), lo status sociale (Ambaṭṭha sutta), le visioni celestiali (come nel Mahāli Sutta), o la credenza nell’anima (Poṭṭhapāda).
Egli adottava perfino la stessa fraseologia dei suoi interlocutori, e quindi, in parte infondendo un nuovo e più alto (dal punto di vista buddhista) significato in tali parole, in parte facendo ricorso ad una concezione etica comune, egli riusciva a portare i suoi oppositori alle proprie posizioni.
In tale metodo da lui adottato vi erano sia un senso di rispetto che di dignità, oltreché una non piccola abilità dialettica, ed una grande padronanza dei concetti etici implicati era certamente necessaria al fine di produrre il risultato desiderato..
Comunque sia, il metodo seguito in tutti questi dialoghi presenta uno svantaggio: accogliendo la posizione dei suoi avversari, adottandone il linguaggio, i redattori dei sutta ci impongono – al fine di comprendere ciò che essi ci presentano come la visione di Gotama- di leggere in profondità fra e righe del discorso; L’argumentum ad hominem non può essere messa sullo stesso piano dell’affermazione di un’opinione espressa senza alcun riferimento ad una persona o contesto specifico.»
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