“Rūpaṃ, bhikkhave, anattā, vedanā anattā, saññā anattā, saṅkhārā anattā, viññāṇaṃ anattā. Evaṃ passaṃ, bhikkhave, sutavā ariyasāvako rūpasmimpi nibbindati, vedanāyapi nibbindati, saññāyapi nibbindati, saṅkhāresupi nibbindati, viññāṇasmimpi nibbindati. Nibbindaṃ virajjati; virāgā vimuccati. Vimuttasmiṃ vimuttamiti ñāṇaṃ hoti. ‘Khīṇā jāti, vusitaṃ brahmacariyaṃ, kataṃ karaṇīyaṃ, nāparaṃ itthattāyā’ti pajānātī”ti.
Monaci, la materialità è non-sé, le sensazioni sono non-sé, le percezioni sono non-sé, le volizioni sono non-sé, la cognizione è non-sé; monaci, quando il nobile discepolo comprende ciò, egli prova disincanto nei riguardi della materialità, prova disincanto nei riguardi delle sensazioni, prova disincanto nei riguardi delle percezioni, prova disincanto nei riguardi delle volizioni, prova disincanto nei riguardi della cognizione; Disincantato, egli si libera dalle passioni nocive; essendo libero dalle passioni ottiene la liberazione; Essendosi liberato, in lui sorge la conoscenza: ‘[la mente] è libera’; ed egli comprende pienamente: esausta è la ‘nascita’, il percorso spirituale è stato completato, fatto ciò che doveva essere fatto, non vi sarà più alcun’altra esistenza’.
-Anattasutta, SN 22.14
Dal punto di vista linguistico, il termine anattā è un sostantivo maschile al singolare formato dal prefisso privativo ‘an’ o ‘non’, e dal sostantivo ‘attan’, ‘Sé’ o ‘Io’. Di conseguenza, la traduzione letterale corretta di anattā è : ‘Non-sé’ o ‘Non-Io’; per tanto, è scorretto tradurre questo termine con [tutti i fenomeni sono]”insostanziali” (Aggettivo plurale) .
Anattā è il contrario di attan, termine di origine vedica, precedente quindi la nascita del buddhismo, che nell’antica India veniva impiegato in due modalità differenti:
1) In senso strettamente filosofico, tale termine stava ad indicare il concetto teologico di ‘anima’, quell’unità a se stante, indivisibile e permanente, creata da un entità suprema quale il Brahma (il Dio creatore del Brahamanesimo), e fulcro dell’esistenza di ogni essere.
2) Nel linguaggio comune, il termine attan era invece impiegato per indicare la persona in senso generico, così come nell’espressione “prendersi cura di se stessi”; questo stesso utilizzo del termine è rintracciabile anche in alcuni testi buddhisti antichi, come ad esempio nei seguenti versi contenuti nel dhammapada:
Attānañce piyaṃ jaññā,
rakkheyya naṃ surakkhitaṃ;
Colui il quale ha amore per se stesso,
dovrebbe proteggere se stesso con cura;
Dhammapada, 157
Nel contesto specifico dell’insegnamento del Buddha, come ad esempio nell’Anattalakkhaṇasutta o Discorso circa la caratteristica del non-sé, Anattā assume il significato di assenza di padronanza o dominio sulle cose, ovvero del fatto che non abbiamo il controllo assoluto dei fenomeni interni (gli aggregati psicofisici costituenti la persona) ed esterni (il ‘mondo’ manifesto, gli oggetti con i quali interagiamo attraverso i sensi), e ciò è dovuto alla natura dinamica e contingente di tali aggregati e fenomeni, al fatto cioè che essi sorgono e svaniscono (impermanenza) sulla base di cause e condizioni (interdipendenza o contingenza);
le leggi naturali del cambiamento e dell’interdipendenza sono leggi che l’individuo non può in alcun modo alterare in accordo alla propria volontà, essendone al contrario totalmente assoggettato. la volontà o kamma, ed il libero arbitrio vengono esercitati sempre e comunque nel quadro più ampio delle leggi naturali dell’impermanenza e della contingenza.
La sofferenza o dukkha di cui parla il Buddha è determinata dal desiderio irrealizzabile di poter controllare a proprio piacimento queste leggi, di poterle dominare, di piegare la natura delle cose in base alla propria volontà, al proprio desiderio di felicità, continuità esistenziale e repulsione verso ciò che è percepito come spiacevole, cosa del tutto impossibile.
Questo desiderio irrealizzabile ed illusorio, si basa sull’ignoranza della reale natura dell’esistenza, (Avijja), sull’immaginare una facoltà di dominio e controllo assoluto dove invece non vi può essere alcun controllo; Da qui la frustrazione dettata dal tradimento delle aspettative di soddisfazione, di continuità esistenziale dettata a sua volta dalla paura della morte, e di repulsione verso ciò che è percepito come spiacevole.
Il dukkha che ne deriva è il problema a cui la pratica del Dhamma tenta di offrire una soluzione, ed il rimedio consiste nell’armonizzazione della propria comprensione della realtà con la realtà stessa. Tale visione armoniosa, congrua cioè con la realtà naturale, è la porta d’accesso all’emancipazione dalla sofferenza esistenziale, e non a caso, costituisce il primo elemento del nobile ottuplice sentiero.
Avvicinandosi all’insegnamento buddhista, bisognerebbe sempre tenere a mente che L’approccio del primo buddhismo è epistemologico, e non ontologico: per il Dhamma, il problema non è tanto l’esistenza o meno di un dato fenomeno (che in quanto manifesto è di fatto esistente), quanto la vera natura di ciò che l’individuo apprende tramite le porte dei sensi;
Per quanto riguarda il concetto di Sé o Atman del Brahmanesimo, il Buddha non ne negava l’esistenza ne tanto meno la asseriva, limitandosi -allorché sollecitato a farlo- a confutare la validità delle dottrine filosofico-religiose che ne propugnavano o negavano l’esistenza.
In tali circostanze, la strategia adottata dal Buddha era quella di partire dalle convinzioni del suo interlocutore, per poi portarlo alla comprensione di quanto assurde queste fossero, conducendolo alla comprensione della realtà attraverso una serie di domande e risposte elaborate con l’intento di dimostrare l’illogicità e l’infondatezza di tali convinzioni.
La ragione di tale mancanza di una negazione diretta da parte del Buddha era quindi puramente pratica: negare in maniera diretta l’esistenza del sé come intesa dalla religione Brahminica non avrebbe portato alcun beneficio pratico ai suoi interlocutori, creando solo ulteriore confusione in merito alla vera natura dell’esistenza.
Per il Buddha, l’anima non faceva semplicemente parte del quadro complessivo dei fenomeni esistenti, e come tale non veniva presa in considerazione. Come avrebbe potuto negare l’esistenza di una cosa che non esiste? affermare che ‘l’anima non è esistente’ è una pura contraddizione in termini, in quanto verrebbe meramente negata (non esiste) una cosa di cui si sta implicitamente affermando l’esistenza (è).
Consapevole di tale contraddizione insita nella mera negazione di un qualcosa che non esiste, il Buddha era solito rispondere alle domande concernenti il sé o confutando la validità della proposizione stessa (negando di conseguenza la validità di tale domanda) o attraverso il famoso silenzio, come nel caso dell’asceta errante Vacchagotta:
Atha kho vacchagotto paribbājako yena bhagavā tenupasaṅkami; upasaṅkamitvā bhagavatā saddhiṃ sammodi. Sammodanīyaṃ kathaṃ sāraṇīyaṃ vītisāretvā ekamantaṃ nisīdi. Ekamantaṃ nisinno kho vacchagotto paribbājako bhagavantaṃ etadavoca: “kiṃ nu kho, bho gotama, atthattā”ti? Evaṃ vutte, bhagavā tuṇhī ahosi. “Kiṃ pana, bho gotama, natthattā”ti? Dutiyampi kho bhagavā tuṇhī ahosi. Atha kho vacchagotto paribbājako uṭṭhāyāsanā pakkāmi.
Quindi, l’asceta errante Vacchagotta si recò là dove si trovava il Sublime, e dopo averlo avvicinato scambiò con il Sublime cordiali saluti, e avendo scambiato con lui amichevoli saluti e cortesie, si sedette al suo fianco. Sedendo al suo fianco, l’asceta errante Vacchagotta disse al Sublime: “Dunque, amico Gotama, esiste il Sé?” -A queste parole il Sublime rimase in silenzio. “Ma allora, amico Gotama, il Sé non esiste?” – ma per la seconda volta il Sublime rimase in silenzio. A quel punto l’asceta errante Vacchagotta si alzò e se ne andò.
Atha kho āyasmā ānando acirapakkante vacchagotte paribbājake bhagavantaṃ etadavoca: “kiṃ nu kho, bhante, bhagavā vacchagottassa paribbājakassa pañhaṃ puṭṭho na byākāsī”ti?
Quindi, non molto tempo dopo che l’asceta errante Vacchagotta se ne era andato, Il Venerabile Ānanda disse al Sublime: “Signore, per quale ragione il Sublime non ha risposto alle domande poste dall’asceta errante Vacchagotta? ”
“Ahañcānanda, vacchagottassa paribbājakassa ‘atthattā’ti puṭṭho samāno ‘atthattā’ti byākareyyaṃ, ye te, ānanda, samaṇabrāhmaṇā sassatavādā tesametaṃ saddhiṃ abhavissa.
Ānanda, se Io, alla domanda posta dall’asceta errante Vacchagotta ‘esiste il Sé?’ avessi risposto: ‘esiste il sé’, ciò avrebbe voluto dire conformarsi alle dottrine eternaliste di alcuni asceti e sacerdoti;
Ahañcānanda, vacchagottassa paribbājakassa ‘natthattā’ti puṭṭho samāno ‘natthattā’ti byākareyyaṃ, ye te, ānanda, samaṇabrāhmaṇā ucchedavādā tesametaṃ saddhiṃ abhavissa.
Ānanda, se invece Io, alla domanda posta dall’asceta errante Vacchagotta ‘non esiste il sé?’, avessi risposto: ‘non esiste alcun sé’, ciò avrebbe voluto dire conformarsi alle dottrine nichiliste di certi asceti e sacerdoti.
Ahañcānanda, vacchagottassa paribbājakassa ‘atthattā’ti puṭṭho samāno ‘atthattā’ti byākareyyaṃ, api nu me taṃ, ānanda, anulomaṃ abhavissa ñāṇassa uppādāya: ‘sabbe dhammā anattā’”ti? “No hetaṃ, bhante”.
Ānanda, se Io, alla domanda posta dall’asceta errante Vacchagotta ‘esiste il Sé?’ avessi risposto: ‘esiste il sé’, forse che questa mia un’affermazione sarebbe stata coerente con il manifestarsi della conoscenza che ‘ogni fenomeno è non-sé?’
-“No di certo, Signore”.
“Ahañcānanda, vacchagottassa paribbājakassa ‘natthattā’ti puṭṭho samāno ‘natthattā’ti byākareyyaṃ, sammūḷhassa, ānanda, vacchagottassa paribbājakassa bhiyyo sammohāya abhavissa: ‘ahuvā me nūna pubbe attā, so etarahi natthī’”ti.
Ānanda, se invece Io, alla domanda posta dall’asceta errante Vacchagotta ‘non esiste il sé?’, avessi risposto: ‘non esiste alcun sé’ , ciò avrebbe causato ancora più confusione al già confuso asceta errante Vacchagotta: ‘ Il mio Sé, esistente in passato, adesso non esiste più!’
–Ānandasutta, SN 44.10
***
Dal punto di vista storico, fu solo con lo sviluppo del buddhismo in quanto sistema dottrinario o sasana che avvenne uno spostamento dal piano epistemologico a quello ontologico, con la conseguente necessità, -da parte dei seguaci del Buddha, divenuti ormai ‘buddhisti’- di negare l’esistenza dell’atman sul piano ontologico, al fine di confutare le numerose teorie delle scuole di pensiero non buddhiste e le visione erronee sviluppatesi in seno ad alcuni gruppi buddhisti dopo la morte del Buddha.
Lo scopo della pratica del Dhamma è puramente pratico: serve a condurre aldilà della sofferenza esistenziale in cui tutti gli esseri viventi sono intrappolati; lungi dall’essere un problema di carattere teologico o filosofico, il problema del sé è un problema soggettivo, esistenziale, che riguarda tutti gli esseri viventi, incluso gli illetterati e tutti coloro i quali non hanno alcuna conoscenza filosofica né alcuna credenza religiosa.
Il postulare un Io sostanziale, padrone degli aggregati e dotato della facoltà di dominio sui fenomeni è un fatto istintivo, connaturato in tutti gli esseri viventi, a prescindere dalla religione di appartenenza, delle convinzioni ideologiche, filosofiche e dal grado di istruzione scolastica.
la contemplazione del non-sé ha quindi uno scopo pratico, il lasciare andare la presa, l’eliminazione dell’attaccamento all’idea subconscia di essere o possedere un Io o sé sostanziale dotato di potere assoluto sulle cose, dotato cioè della capacità di dominare i fenomeni interni, esterni e gli eventi della vita.
la comprensione del non-sé è la comprensione delle realtà della via di mezzo fra gli estremi del nichilismo e dell’eternalismo: Per essere chiari, per il Buddha la persona esiste, come un insieme di aggregati psicofisici soggetti a cambiamento (cambiamento che non è né ‘continuo’, né ‘costante’ in senso stretto); ciò che non esiste, nonostante la mente condizionata dall’ignoranza la pensi al contrario, è la facoltà del dominio sulle cose, la loro stabilità e la conseguente possibilità di offrire una soddisfazione permanente e duratura.
Per approfondire l’argomento , rimandiamo ad un altro articolo da noi pubblicato tempo addietro: Essere & non essere: la concezione Buddhista dell’esistenza.
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