«etaṁ santaṁ etaṁ panītaṁ yadidaṁ sabbasaṅkhārasamatho sabbūpadhipaṭinissaggo taṇhakkhayo virāgo nirodho nibbānaṁ»
«Questa è la pace, questo è lo stato sublime, ovvero: la pacificazione di ogni condizionante, l’abbandono di ogni attaccamento, la distruzione della sete, il distacco, la cessazione, il nibbāna»
Lo stato di Nibbāna, l’estinzione delle sofferenza, è l’obiettivo della pratica buddhista, ciò a cui l’intera pratica del sentiero del Dhamma nei suoi aspetti di etica, meditazione e saggezza è indirizzata.
Il termine Nibbāna vuol dire “soffiare via il fuoco del dukkha”, la sofferenza esistenziale, nei suoi molteplici aspetti: pena ed angoscia (soka- parideva), prostrazione fisica e psicologica (dukkha-domanassa), ed afflizione (upāyāsa).
Il termine pali dukkha, il cui corrispettivo sanscrito è duḥkha, indica una carenza, una lacuna, la mancanza di qualcosa, un vuoto interiore (kha), caratterizzato da malessere, da un’insoddisfazione persistente, da tristezza, angoscia e assenza di agio e benessere (duḥ)
Nei sutra, il Nibbāna è definito come la cessazione delle tre afflizioni radice di ignoranza-bramosia e avversione, -le tre radici fondamentali di dukkha- oppure, in maniera più sofisticata, come la cessazione del Bhava, l’essere condizionato o esistenza afflitta (bhava-nirodho nibbānam).
Dal punto di vista linguistico, il termine Nibbāna ha una chiara valenza allegorica: nir+vāyati significa infatti “soffiare via”, nel senso di ‘soffiare via’, di raffreddare o dare refrigerio a qualcosa di infuocato e rovente; In questo contesto, l’immagine allegorica del fuoco assume una valenza negativa di afflizione.
Uno dei fattore chiave all’origine della sofferenza è l’afferrarsi o Upādāna, che a sua volta significa prendere (adāna) verso di sé (Upa); Upādāna però significa anche “combustibile”, ciò che alimenta il fuoco della sofferenza, e questo per via del fatto che, figurativamente parlando, le fiamme di un fuoco si sviluppano sulla base del sostrato combustibile, come nel caso di un incendio generatosi dalla combustione di un blocco di legna; nella lingua del Buddha, i termini ‘sostrato’ (ūpadhi) e ‘afferrarsi’ (Upādāna) sono chiaramente imparentati.
Non è un caso che il Buddha abbia indicato la ‘sete’ o bramosia, (taṇhā) come il fondamento causale dell’afferrarsi, (Taṇhāpaccayā upādānaṃ) e che tale ‘sete’ sia stata definita dallo stesso Buddha come il fertilizzante (sneho) ed alimento (Āhāra) dell’esistenza condizionata (upādānapaccayā bhavo), di cui il Nibbāna rappresenta la cessazione irreversibile (bhava-nirodho nibbānam).
Il Nibbāna Dhatu, o sfera del Nibbāna è lo stato dove, non essendovi più alcuna esistenza condizionata, afferrata cioè soggettivamente da un individuo nei termini di Io & Mio (bhava), non vi è -nel qui ed ora- più alcuna ‘nascita’ in senso soggettivo (Io sono nato), e non essendovi alcuna ‘nascita’ afferrata soggettivamente da un Io, non vi sono più decadimento e morte riguardanti un sé o Io immaginario ormai trasceso (Io sto invecchiando, Io devo morire);
Non essendovi più niente di tutto ciò, non vi sarà più alcun dukkha, alcuna pena ed angoscia di fronte al pensiero del proprio decadimento e morte (soka-parideva), e nessuna prostrazione fisica e psicologica (dukkha-domanassa), né alcuna afflizione esistenziale (upāyāsa).
Il Nibbāna è quindi la risoluzione definitiva e irreversibile del dilemma circa la propria stessa esistenza, -il dilemma esistenziale per eccellenza- alimentato dalle afflizioni di ignoranza, bramosia e avversione.
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