«E così a me fu: ‘con la presenza di cosa si manifesta l’essere? qual è la condizione per il prodursi dell’essere?’ così, o monaci, portando l’attenzione all’origine, io realizzai con saggezza: essendoci l’attaccamento si produce l’essere, l’attaccamento determina l’essere.»
-Gotama Sutta, SN 12.10
Bhava: essere e divenire
Bhava è un concetto fondamentale per la comprensione del Dharma, la realtà fondamentale delle cose. Il termine bhava deriva dal verbo bhavati, traducibile con ‘essere’, ‘esistere’; nel contesto specifico dell’insegnamento sull’Origine Dipendente di Dukkha, con bhava si intende l’esistenza soggettivamente concepita nei termini di un Io statico, autonomo rispetto agli aggregati psicofisici, le proprie ‘basi di designazione’ ( io sono)
In altre parole, bhava è il processo di appropriazione cognitiva (upādāna) dei cinque aggregati psicofisici nel quale viene continuamente proiettata un’identità soggettiva (‘Io’) associata alla facoltà di dominio (‘mio’) sugli aggregati.
Essendo bhava un prodotto dell’ignoranza e delle afflizioni mentali, in ambito buddhista si parla di esistenza condizionata, e per via del fatto che tale esistenza tende a riprodursi ciclicamente – perlomeno fino a quando ne saranno presenti le cause- tale fenomeno è anche detto esistenza ciclica condizionata (samsara) o punabbhava, ‘ri-divenire’.
Il ‘ri-divenire’ non è altro che questo processo di creazione continua del sé di momento in momento e di esistenza in esistenza.
Nel Bhavasutta è spiegato che il ‘ri-divenire’ può avvenire su tre piani esistenziali distinti: La sfera sensuale, quella formale e quella priva di forma (kāma, rupa, arupa); queste sfere d’esistenza consistono in un processo cognitivo (seme) seminato nel campo fertile delle formazioni mentali alimentato dal desiderare:
«Ānanda, se non ci fosse alcun intenzione maturante nella sfera della sensualità, sarebbe possibile fare esperienza dell’esistenza nella sfera sensuale?
«No, Signore.»
«Perciò Ānanda, il kamma è il terreno, la cognizione il seme e la sete il fertilizzante. La cognizione degli esseri viventi, ottenebrata dall’ignoranza e incatenata dalla bramosia, viene a stabilirsi in una sfera d’esistenza inferiore; in questo modo si manifesta il prodursi di una nuova esistenza».
Il Bhavanettisutta spiega quali siano le condizioni per il manifestarsi di bhava:
«Rādha, l’interesse, la passione, il diletto, la bramosia, e la tendenza latente della mente (anusayā) al coinvolgimento, all’afferrare, al persistere nel rimanere invischiata nella forma, nella sensazione, nel riconoscimento, nelle intenzioni e nella cognizione è ciò che conduce all’esistere; la cessazione di tutto ciò è la cessazione degli elementi che conducono all’esistenza[condizionata» .
Saṃyutta Nikāya 23, Paṭhamamāravagga
In accordo alla cosmologia buddhista vi sono sei reami esistenziali, ognuno dei quali simboleggia una particolare inclinazione psicologica; il Lama Tibetano Chögyam Trungpa descrisse tali reami come sei diverse forme di coscienza:
«l’esperienza dei sei reami – il reame degli dei, quello degli dei gelosi, il reame umano, quello animale, degli spiriti famelici e quello infernale – sono semplicemente ‘spazi’, differenti tipi di spazio. [Lo spazio] appare intenso e solido, ma in realtà non lo è affatto.
I sei reami sono differenti tipi di spaziosità – questo è il loro aspetto interessante. Di fatto, si tratta di spaziosità senza limiti, priva di colore o di alcuna reale sostanza.
Per questa ragione, i sei reami sono definiti come i sei tipi di coscienza. Sono pura coscienza, piuttosto che qualcosa di solido, al punto che potrebbero quasi essere definiti stadi di incoscienza invece che stadi di coscienza.
Lo sviluppo dell’Ego accade al livello di completa incoscienza, da un livello di incoscienza ad un altro; per questa ragione, questi livelli sono definiti ‘Loka‘, che significa ‘reame’ o ‘mondo’. Essi rappresentano i sei ‘mondi’, ognuno dei quali è un’unità completa a se stante.
Per esserci un ‘mondo’, deve esserci un’atmosfera; devi avere spazio per creare qualcosa. Quindi, i sei reami sono lo spazio fondamentale attraverso cui ogni esperienza di transizione opera, ed è per questo che è possibile trasmutare questi ‘spazi’ in sei tipi di stati risvegliati o libertà» .
– The Collected Works of Chogyam Trungpa, Volume 6.
Attaccamento e esistenza soggettiva
Secondo Ñāṇavīra Thera, «L’upādāna o ‘afferrarsi’ fondamentale è detto attavādaupādāna, l’afferrarsi all’idea di un sé o Io; la persona comune afferra ciò che meramente appare come il proprio ‘Io’ come tale, e, fintanto che questo stato di cose rimarrà tale, egli continuerà a percepire se stesso nei termini di ‘Io’.
Questo è il bhava o ‘Essere’. Il Puthujjana sa che gli esseri nascono e muoiono, e pensando alla propria esistenza in termini di ‘Io esisto’, penserà di conseguenza ‘Io nacqui’ e anche ‘Io morirò’. Egli concepisce così un ‘Io’ al quale i concetti di nascita e morte vengono applicati.
Il Puthujjhana, prendendo come proprio Io ciò che meramente appare come tale, è incapace di comprendere di essere vittima dell’afferrarsi all’Io; egli è incapace di comprendere che il suo esistere dipende dall’afferrarsi all’idea del sé (upādāna paccayā bhavo), non riuscendo a comprendere che nascita e morte dipendono da questo suo pensare di ‘essere un Io’ (bhava paccayā jāti).
D’altro canto, l’Arahant è completamente libero del concetto di ‘Essere un Sé’ o ‘Io’ e non pensa in termini di ‘Io sono’. questo è bhavanirodha, la cessazione dell’essere. Non pensando nei termini di ‘Io sono’ egli non pensa nemmeno nei termini di ‘Io nacqui’ né di ‘Io morirò’. In altre parole, egli non concepisce alcun ‘sé’ o ‘Io’ ai quali associare i concetti di nascita e morte. Ciò è detto jāti·nirodhā jarāmaraṇaṃnirodha, la cessazione concettuale di nascita, invecchiamento e morte» .
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Nel contesto dell’Origine Dipendente, le nozioni di nascita e morte hanno una valenza figurata (pariyāyena), e si riferiscono alla condizione della persona soggetta all’afferrarsi al sé e all’esistere, come risulta evidente da un’attenta lettura di questo dialogo fra il Buddha e il Re Pasenadi, nel quale il Buddha opera una sottile ma importantissima distinzione sul piano linguistico nel descrivere ‘l’ineluttabilità di vecchiaia e morte per i Puthujjhana’ e viceversa, ‘il mero disfacimento del corpo per gli arahat’:
«A Sāvatthi: Sedendo al suo fianco, il Re Pasenadi del Kosala disse al Bhagavan: Esiste, o Signore, per colui che è nato altra [possibilità] oltre ad invecchiamento e morte?»
«Gran Re, per colui che è nato non esiste altra [possibilità] oltre ad invecchiamento e morte. Gran Re, neanche per quei nobili guerrieri, per quei Brahmana, e per quei capi famiglia, possessori di grandi dimore, di grandi ricchezze e provviste, di enormi riserve d’oro e argento, di risorse e riserve di grano, neanche per costoro, essendo nati, vi è altra [possibilità] oltre ad invecchiamento e morte.»
«Gran Re, perfino per quei monaci arahant, i quali hanno distrutto i veleni, compiuto ciò che doveva essere fatto, perfetti, liberi dal fardelli, che hanno realizzato il bene più alto, distrutto le catene dell’essere, completamente liberi grazie alla piena comprensione, anche per loro, questo corpo è per natura soggetto alla disgregazione, alla putrefazione.»
-Jarāmaraṇasutta del SN 3.3
In sintesi, il conflitto esistenziale sorge quando una mente condizionata dall’ignoranza e ossessionata dalla sete di gratificazione e di esistere, fraintende quello che è un mero processo dinamico in divenire per un essere o esistere statico, un Io o sé permanente, autonomo, dotato della facoltà di dominio sui fenomeni interni ed esterni; di conseguenza, la soluzione indicata dal Buddha a questo conflitto legato all’esistere consiste nel prendere coscienza della natura transitoria, “problematica” e impersonale di qualunque condizione esistenziale.
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