
“Abhinibbatti kho, āvuso, dukkhā, anabhinibbatti sukhā.
“Il continuo divenire, o amico, è sofferenza, l’assenza di ridivenire è la felicità”.
-Paṭhamasukhasutta, AN 10.65
La questione della rinascita, una prospettiva critica.
La dottrina della rinascita è uno degli aspetti più dibattuti e controversi nel panorama buddhista contemporaneo; La molteplicità degli approcci e delle declinazioni di questo particolare aspetto del sistema buddhista rende l’analisi dell’argomento molto complessa. Da molti, la credenza nella rinascita è percepita quasi come una presenza ingombrante con la quale bisogna forzatamente convivere, ma di cui si farebbe volentieri a meno. L’insegnamento buddhista sulla rinascita può suscitare, specie fra le persone di orientamento liberal, stati d’animo che vanno dalla diffidenza al rifiuto, dallo scetticismo all’incredulità. Per alcuni, la presenza ingombrante di questa teoria all’interno del sistema spirituale buddhista diventa un ostacolo insormontabile, fino al punto di indurli ad abbandonare il Dharma, percepito come un insieme di credenze arcaiche distante anni luce dalla realtà del mondo moderno.
Occorre perciò riflettere sul ruolo di questo aspetto particolare del sentiero spirituale buddhista e su come relazionarsi ad esso, tenendo bene in mente che nella visione del Buddha, il Dharma è uno strumento il cui solo scopo è di aiutarci ad attraversare il tumultuoso fiume dell’esistenza condizionata per approdare alle sponde sicure della liberazione dal dukkha, la sofferenza esistenziale.
I termini reincarnazione, rinascita e ridivenire vengono spesso considerati identici o simili, ma in realtà ognuno dei tre possiede un proprio significato peculiare. Di questi tre concetti i primi due non appartengono al Buddhismo, che invece asserisce il ri-essere o ri-divenire (punabbhava).
Il concetto di reincarnazione (re-in-carne-azione) presuppone l’idea che qualcosa – l’anima o qualcosa di simile- trasmigri immutata da un corpo di carne ed ossa a un altro; il Buddha ha chiaramente affermato che non esiste una tale entità, dato che ogni cosa, incluso la coscienza, è un prodotto contingente di cause e condizioni e come tale soggetto al mutamento. per questa ragione, la teoria della reincarnazione non può essere ascrivibile al Buddha.
Neppure il termine rinascita è adatto a rappresentare la visione buddhista, dato che l’idea di ri-nascita presuppone l’idea che qualcuno, un individuo o persona nasca nuovamente, identico a se stesso, di vita in vita.
La rinascita nella cultura indiana e nel Brahmanesimo
La credenza nella rinascita è detta punarjanma in sanscrito; Il significato etimologico è: punar= ancora, e janma = nascita:
Tale idea era già presente nell’antica India prima dell’avvento del Buddhismo. La teoria della rinascita presuppone l’idea che qualcosa, che nel brahmanesimo è conosciuta come atman o anima, esca dal corpo del defunto per introdursi in un nuovo embrione. Dal punto di vista dell’induismo, questa affermazione non presenta particolari elementi di contraddizione, in quanto le varie teorie e dottrine nate in seno alla cultura religiosa indiana affermano l’esistenza di un anima imperitura, l’ Atman.
Significativo che il termine punarjanma non compare in nessuno dei discorsi attribuiti al Buddha preservati in lingua Pali. Il termine impiegato dal Buddha è Punabbhava (puna+bhava), dove puna sta per ‘ancora’ e bhava ‘esistenza’;
Bhava e Jati non sonno affatto sinonimi, ma bensì uno la causa determinante dell’altro:
“Tassa mayhaṃ bhikkhave etadahosi: ”kimhi nu kho sati jāti hoti? Kimpaccayā jātī”ti? Tassa mayhaṃ bhikkhave, yoniso manasikārā ahu paññāyā abhisamayo: ”bhave kho sati jāti hoti, bhavapaccayā jātī”ti.
“E così a me fu: ‘con la presenza di cosa si manifesta la nascita? qual è la condizione per la nascita?’ e così Io, o monaci, attraverso l’attenzione portata all’origine, realizzai con saggezza: ‘essendoci il divenire esistenziale, vi è la nascita , il divenire determina la nascita’.”
-Gotama Sutta, SN 12.10
Punabbhava è traducibile quindi con ‘ridivenire’, e concettualmente indica la continuità del bhava o esistenza condizionata, esistenza plasmata dalle volizioni (kamma) e alimentata dalle tre forme di sete: di gratificazione sensuale(Kāmataṇhā), di esistenza (bhavataṇhā) e di non-esistere (vibhavataṇhā).
Ciò che è soggetto al divenire è il nāmarūpa unito al Viññāṇa, ossia la materia interna ed esterna (il proprio corpo, e gli oggetti con cui interagiamo) detta rūpa, i processi mentali quali la sensazione, la percezione, il contatto, la volizione e l’attenzione, fattori atti a dare un nome o definire le cose materiali incluso il proprio corpo, o nāma, ed il processo della cognizione di tutto ciò che viene esperito soggettivamente nei termini di Io, mio (per me),il Viññāṇa.
Dal discorso esteso sulle concause:
“Viññāṇañca hi, ānanda, nāmarūpe patiṭṭhaṃ na labhissatha, api nu kho āyatiṃ jātijarāmaraṇaṃ dukkhasamudayasambhavo paññāyethā”ti? “No hetaṃ, bhante”. “Tasmātihānanda, eseva hetu etaṃ nidānaṃ esa samudayo esa paccayo viññāṇassa yadidaṃ nāmarūpaṃ.”
“Ananda, se il Viññāṇa (cognizione) non fosse ben stabilito nel nāmarūpa (mente e materia), forse che si sperimenterebbero ancora nascita, invecchiamento, morte, ed il sorgere della sofferenza? “No di certo Signore”.”Perciò, Ananda, questa è la causa,questa la base,questa è l’origine e la condizione del Viññāṇa, ovvero il nāmarūpaṃ.”
“Ettāvatā kho, ānanda, jāyetha vā jīyetha vā mīyetha vā cavetha vā upapajjetha vā. Ettāvatā adhivacanapatho, ettāvatā niruttipatho, ettāvatā paññattipatho, ettāvatā paññāvacaraṃ, ettāvatā vaṭṭaṃ vattati itthattaṃ paññāpanāya yadidaṃ nāmarūpaṃ saha viññāṇena aññamaññapaccayatā pavattati.”
“Ed è In questo modo, o Ananda, che esistono la nascita, l’invecchiamento, la morte, il trapasso ed il ri-apparire; In questo modo esiste un viatico per la designazione (adhivacana), la descrizione (nirutti), e la delineazione (paññatti); ed è in questo senso che esiste la sfera del discernimento (paññā) finalizzata al rendere manifesto questo stato dell’essere, ed è in questo modo che il circolo vizioso [del samsara] continua a vorticare, ovvero : mente e materia fluiscono, assieme alla cognizione, sostenendosi l’un l’altro.”
Il divenire non è quindi un processo di TRASMIGRAZIONE di un qualcosa ma la CREAZIONE reiterata della propria esistenza soggettiva (bhava) attraverso le proprie scelte, intenzioni ed azioni in una determinata sfera spazio temporale.
Non vi è, in altre parole, alcun passaggio da un corpo all’altro, nella stessa maniera in cui una persona la cui immagine viene ripresa da una telecamera per essere ritrasmessa in televisione non viene in realtà proiettata dentro lo schermo televisivo. Si tratta di mere onde elettromagnetiche captate da un’antenna, inviate all’apparecchio televisivo attraverso un cavo coassiale e riprodotte sullo schermo. Nessuna trasmigrazione.
Allo stesso modo, le intenzioni (kamma), alimentate dai desideri, creano la nostra esistenza, plasmandola in continuazione, senza che vi sia alcun passaggio di alcuna entità da un corpo all’altro. Il Buddhismo afferma che questo processo dell’esistere continui dopo la morte, come effetto i tale Kamma e desideri, anche se non in nessuno dei discorsi attribuiti al Buddha viene spiegato come ciò avvenga.
Il divenire esistenziale, più noto in occidente con il termine “rinascita” è detto in pali Punabhava abhinibbatti, dove puna sta per ‘ancora’, bhava, sta per ‘esistenza’ e abhinibbatti per ‘sorgere’ o ‘manifestarsi’ di qualcosa. Punabhavaabhinibbatti è quindi traducibile con “Il sorgere di una nuova esistenza” o più semplicemente ridivenire.
La concezione buddhista del ridivenire è quindi quella di un continuo processo di manifestazione di bhava, – il senso di essere un qualcuno di definito, un “Io-sono qualcuno”- sulla base degli aggregati psicofisici, in un determinato contesto spazio temporale, continuamente rimodellato dalle nostre scelte e desideri oltre ché dalle nostre azioni.
Il ridivenire o può avvenire in uno dei sei mondi o reami: oltre al reame umano e a quello animale, l’antica cosmologia indiana prevedeva anche la possibilità di rinascere nel reame del niraya o reame infernale, nel reame dei preta o spiriti famelici, nel reame degli dei gelosi o semidei ed infine nel reame degli esseri luminosi o dei. Ognuno di questi sei reami è caratterizzato da un’afflizione peculiare. Per una trattazione in chiave moderna e metaforica dei sei reami del samsara vederequi.
Nel suo primo discorso, il Buddha definisce la sete come causa del ridivenire, a sua volta condicio sine qua non per il manifestarsi della sofferenza esistenziale o dukkha:
Idaṃ kho pana, bhikkhave, dukkhasamudayaṃ ariyasaccaṃ—yāyaṃ taṇhāponobbhavikā nandirāgasahagatā tatratatrābhinandinī, seyyathidaṃ – kāmataṇhā, bhavataṇhā, vibhavataṇhā.
“Questa è o monaci, la nobile verità sulla sofferenza: è proprio questa sete, conducente a nuova esistenza, connessa al godimento ed alla passione, cercando godimento qua e là, ovvero: la sete di piacere sensuale, la sete di esistenza e la sete di non esistenza.”
-Dhammacakkappavattanasutta, SN 56.11
Il principio del ridivenire è molto semplice: si diventa ciò che si desidera e ciò che si coltiva, nel bene e nel male.
Un particolare degno di nota è che degli oltre 18.000 discorsi attribuiti al Buddha e compresi nel canone in lingua pali, solo tre trattano specificamente della questione del come avviene il ridivenire, e questo, a nostro modo di vedere, la dice lunga su cosa ne pensasse il Buddha di questo tema. Il primo di questi due discorsi è chiamato Paṭhamabhavasutta o discorso sul divenire.
Di seguito, la traduzione integrale del Paṭhamabhavasutta in italiano:
“Quindi, Il Ven. Ānanda si avvicinò dal Beato, ed avendolo avvicinato, rese omaggio al Beato e si sedette accanto. Accanto seduto, il Venerabile Ānanda chiese al Beato:
“Signore, ‘divenire, divenire’ – In che modo avviene il divenire?
“Ānanda, se non ci fosse alcun Kamma maturante nella sfera della sensualità (Kama dathu), forse che il divenire nella sfera della sensualità potrebbe essere sperimentato?”
“No, signore.”
“Così, il kamma è il campo, la coscienza il seme e la bramosia il fertilizzante. La coscienza degli esseri viventi, ostacolata dall’ignoranza ed incatenata dalla bramosia, è così stabilita in una sfera d’esistenza inferiore. In questo modo si verifica il continuo manifestarsi del divenire ( punabhavabhinibatti).
“Ānanda, se non ci fosse alcun Kamma maturante nella sfera della forma (rupa Dathu), forse che il divenire nella sfera della forma potrebbe essere sperimentato?
“No, Signore.”
“Così, il kamma è il campo, la coscienza il seme e la bramosia il fertilizzante. La coscienza degli esseri viventi, ostacolata dall’ignoranza ed incatenata dalla bramosia, è così stabilita in una sfera d’esistenza mediana. In questo modo si verifica il continuo manifestarsi del divenire.
“Ānanda, se non ci fosse alcun Kamma maturante nel reame del Senza forma (ArupaDathu), forse che il divenire nella sfera della Senza forma potrebbe essere sperimentato?
“No, signore.”
“Così, il kamma è il campo, la coscienza il seme e la bramosia il fertilizzante. La coscienza degli esseri viventi, ostacolata dall’ignoranza ed incatenata dalla bramosia, è così stabilita in una sfera d’esistenza raffinata. In questo modo si verifica il continuo manifestarsi del divenire.”
-Paṭhamabhavasutta – Il discorso sul divenire, AN 3.76
Secondo questo discorso, vi sono tre modalità d’esistenza o bhava : l’esistenza sensuale (Kamabhava), l’esistenza formale (rupabhava) e l’esistenza informale (arupabhava); la prima è quella in cui tutti noi ci muoviamo ordinariamente, dove la ricerca di benessere tramite il godimento dei sensi (che per il Buddhismo include anche la mente) la fa da padrone; In questa situazione, ci barcameniamo fra il desiderio di sperimentare piacere tramite la ricerca di esperienze piacevoli ed il tentativo costante di sfuggire da tutto ciò che consideriamo indesiderabile.
Il secondo tipo di esistenza, detta esistenza formale, è quella in cui vivono gli esseri assorti negli stadi meditativi con oggetto, altrimenti noti con il nome di RupaJhana; in questo stato d’esistenza, la sfera sensuale viene temporaneamente trascesa ed il meditante prova gioia tramite il distacco dagli oggetti sensuali, piacevoli, dolorosi e neutri.
L’ultimo tipo di esistenza è chiamato esistenza informale, un termine tecnico che sta ad indicare la condizione dell’essere propria di quei rari individui la cui mente dimora per la maggior parte del tempo negli stadi di raccoglimento meditativo senza oggetto.
Il Buddha paragona il Karma ad un campo coltivabile (khetta), a sottolineare che le azioni da noi compiute determinano la qualità della nostra esistenza in divenire; In questo contesto, con karma si intendono le azioni intenzionali compiute sulla spinta di una motivazione (cetana), basata a sua volta su una delle tre radici non salutari di bramosia, avversione ed ignoranza o su una delle tre radici salutari di assenza di bramosia, amore e saggezza, al fine di ottenere gratificazione e soddisfazione.
Il Kamma è definito campo in quanto esso rappresenta il campo d’azione pressoché infinito per l’individuo spinto dalle intenzioni; coltivando azioni di un certo tipo, si sperimenterà una corrispondente esperienza esistenziale. Si raccoglie ciò che si è seminato.
Sulla base delle azioni compiute, si sperimenterà il frutto o risultato corrispondente alle azioni che lo hanno prodotto, nei termini di una delle tre sfere di esistenza: quella sensuale, quella formale e quella sottilissima della sfera esistenziale del senza forma. Per il Buddha quindi, la nostra esistenza, in questa vita e nelle successive, è costantemente plasmata e ridefinita dalle nostre attività mentali, fisiche e verbali.
Il Buddha poi prosegue affermando che la sete è il fertilizzante (sneho) o alimento ( ahara), ad indicare che le azioni determinanti la qualità della nostra vita in termini di felicità o sofferenza sono alimentate o nutrite dalla sete (Tanha), l’impulso radicato nella non conoscenza della realtà instabile delle cose a possedere o essere, dettato dall’aspettativa di protezione e dalla ricerca di gratificazione e felicità.
In altre parole, noi tutti ricerchiamo la felicità e aborriamo il dolore, ma non conoscendo la realtà incerta ed insoddisfacente degli oggetti a cui ci afferriamo, proiettiamo inconsciamente su di esse una capacità di soddisfare stabilmente le nostre aspettative che esse non posseggono. Questa sete di felicità innesca il meccanismo delle azioni rivolte ad ottenere tale gratificazione; al fine di ottenere ciò che vogliamo compiamo un’infinita serie di azioni -mentali, verbali e fisiche – con l’obiettivo di raggiungere l’agognata felicità, e queste azioni a loro volta determinano il nostro vissuto esistenziale (Bhava).
Se quindi, continuando con l’analogia del sutta, il karma è il campo dove noi coltiviamo la nostra esistenza e i desideri ne sono il nutrimento, la coscienza è il seme, a significare che una data condizione esistenziale è tale solo in quanto vi è coscienza da parte dell’individuo della propria condizione particolare.
Nel Bhavanettisutta viene ulteriormente spiegato il processo che conduce alla formazione di Bhava:
Sāvatthinidānaṃ.
Ekamantaṃ nisinno kho āyasmā rādho bhagavantaṃ etadavoca: «bhavanettinirodho, bhavanettinirodho’ti, bhante, vuccati. Katamā nu kho, bhante, bhavanetti, katamo bhavanettinirodho”ti?»
A Sāvatthi:
Sedendo al suo fianco, il Monaco Rādha disse al Bhagavan:
«Signore, si parla spesso di cessazione dell’essere, di cessazione dell’esistere, ma cos’è, o Signore, che conduce all’essere, e cos’è la cessazione di quegli elementi che conducono ad essere?»
«Rūpe kho, rādha, yo chando yo rāgo yā nandī yā taṇhā ye upayupādānā cetaso adhiṭṭhānābhinivesānusayā— ayaṃ vuccati bhavanetti. Tesaṃ nirodhobhavanettinirodho.»
«Rādha, l’interesse, la passione, il diletto, la sete, e la tendenza subconscia della mente (anusayā)[1] al coinvolgimento, all’afferrare, al persistere nel rimanere invischiata nella forma (immagine) è ciò che conduce all’essere(Io sono), e la cessazione di tutto ciò è la cessazione degli elementi che conducono all’essere.»
«Vedanāya … saññāya … saṅkhāresu … viññāṇe yo chando … pe … adhiṭṭhānābhinivesānusayā—ayaṃ vuccati bhavanetti. Tesaṃ nirodho bhavanettinirodho”ti.»
«l’interesse, la passione, il diletto, la sete, e la tendenza subconscia della mente al coinvolgimento, all’afferrare, al persistere nel rimanere invischiata nella sensazione, nella percezione, nelle intenzioni[2] e nella cognizione è ciò che conduce all’essere, e la cessazione di tutto ciò è la cessazione degli elementi che conducono all’essere.»
Saṃyutta Nikāya 23, Paṭhamamāravagga
Note:
1: anusayā: lett. : “dormiente al di sotto di”, sottostante: le tendenze subconscie dalle quali si sviluppano gli stati afflittivi della mente. Gli anusayā rappresentano lo stadio intermedio fra lo stato di coscienza soggettiva detto viññāṇa e quello più recondito dell’incoscienza, oAvijjā, dalla radice verbale ‘Vid’, ‘sentire’, unita al privativo -a.
Avijjā è quindi l’nsensienza o incoscienza, la radice profonda dell’intera esperienza cognitiva che la mente afferra erroneamente nei termini di un’esistenza soggettiva statica, l’«Io sono» o essere (bhava).
2: «Katame ca, bhikkhave, saṅkhārā? Chayime, bhikkhave, cetanākāyā—rūpasañcetanā, saddasañcetanā, gandhasañcetanā, rasasañcetanā, phoṭṭhabbasañcetanā, dhammasañcetanā. Ime vuccanti, bhikkhave, saṅkhārā. Phassasamudayā saṅkhārasamudayo; phassanirodhā saṅkhāranirodho»
«Cosa sono, o monaci, le ‘costruzioni’? Questi sei gruppi di intenzioni: l’intenzione relativa all’immagine, l’intenzione relativa al suono, l’intenzione relativa all’odore, l’intenzione relativa al gusto, l’intenzione relativa al tatto, l’intenzione relativa ai pensieri.»
«Queste, o monaci, sono dette costruzioni; con il contatto, sorgono le intenzioni, con il cessare del contatto, cessano le intenzioni»
-Upādānaparipavattasutta, SN 22, 56
Il termine pali viññāṇa significa distinguere (vi) e avere conoscenza (ñāṇa), ed in questo contesto, con conoscenza si intende la coscienza o consapevolezza soggettiva della presenza di una dato oggetto o situazione. In altre parole, IO esisto, in quanto sono cosciente di esistere; IO sono qualcuno in quanto ho coscienza di essere quel qualcuno situato in un dato contesto spazio temporale, ove con spazio si intende un determinato luogo nell’universo e con temporale un determinato momento storico.
Il desiderio di possedere (kama tanha), di esistere (bhavatanha) e di non esistere ( vibhava tanha), nutrono tale senso di essere un individualità concreta sorto all’atto della presa di coscienza di noi stessi in quanto individui specifici dotati di personalità, opinioni, aspirazioni e di una vasta gamma di idee e valori di riferimento.
È abbastanza semplice comprendere come questo processo avvenga costantemente, in ogni momento della nostra vita; più arduo è invece pensare che secondo la concezione buddhista, tale processo non si arresti con la morte ma continui a perpetuarsi anche dopo di essa, nella forma di una nuova aggregazione di elementi psico-fisici afferrati da una mente percipiente come “questo sono Io” e “questo è il mio corpo, la mia mente etc.”
Nel Buddhismo infatti, elementi di natura prettamente psicologica quali il desiderio e l’avversione ed altri di natura cosmologica si mescolano in un unica concezione circa l’origine e la sorte della nostra esistenza in questo universo.
Nel Kammanirodhasutta, il Buddha definisce questa nostra esistenza nei termini del manifestarsi delle sedi dei sensi sulla base del karma compiuto in precedenza, detto in gergo vecchio karma o purāṇakamma, spiegando allo stesso tempo che con nuovo karma sono da intendersi quelle azioni compiute in risposta agli stimoli sensuali percepiti tramite quegli stessi organi sensoriali, determinanti a loro volta la nostra situazione esistenziale presente e futura. Nel primo caso, con il termine vecchio karma si intende più che altro il risultato del karma precedentemente compiuto, mentre con nuovo karma sono da intendersi la attività generanti risultati nel futuro, oltreché nel presente.
In questo modo, viene a configurarsi un circolo vizioso in cui le nostre azioni vanno a determinare il manifestarsi di una nuova unità psicofisica provvista delle sei sedi dei sensi, attraverso le quali si sperimentano quegli stimoli sensoriali in risposta ai quali vengono compiute nuove azioni determinanti a loro volta una nuova configurazione esistenziale in cui non è possibile sperimentare alcuna pace duratura…
Katamañca, bhikkhave, purāṇakammaṃ? Cakkhu, bhikkhave, purāṇakammaṃ abhisaṅkhataṃ abhisañcetayitaṃ vedaniyaṃ daṭṭhabbaṃ … pe … jivhā purāṇakammā abhisaṅkhatā abhisañcetayitā vedaniyā daṭṭhabbā … pe … mano purāṇakammo abhisaṅkhato abhisañcetayito vedaniyo daṭṭhabbo. Idaṃ vuccati, bhikkhave, purāṇakammaṃ.
“Cos’è, o monaci, il vecchio karma? L’occhio, o monaci, è il vecchio karma, da vedere come costruito sulla base delle intenzioni, di cui è possibile fare esperienza; la lingua è il vecchio karma, costruito sulla base delle intenzioni, di cui possibile fare esperienza […] l’intelletto è il vecchio karma, costruito sulla base delle intenzioni, di cui possibile fare esperienza.”
Katamañca, bhikkhave, navakammaṃ? Yaṃ kho, bhikkhave, etarahi kammaṃ karoti kāyena vācāya manasā, idaṃ vuccati, bhikkhave, navakammaṃ.
“E cos’è, o monaci, il Karma nuovo? Quelle azione che, o monaci, vengono compiute nel presente attraverso il corpo,la parola e la mente, questo, o monaci, è detto essere il Karma nuovo.”
-Navapurāṇavagga, SN 35.146.
Così, per il Buddha, la nascita che è la base di ogni esperienza di sofferenza, è da intendersi come il manifestarsi degli aggregati psicofisici, il formarsi delle sei sedi dei sensi, che una coscienza afflitta da ignoranza concepisce erroneamente come “questo sono Io”, “questo è il mio corpo-mente”:
Katamā ca, bhikkhave, jāti? Yā tesaṃ tesaṃ sattānaṃ tamhi tamhi sattanikāye jāti sañjāti okkanti abhinibbatti khandhānaṃ pātubhāvo āyatanānaṃ paṭilābho. Ayaṃ vuccati, bhikkhave, jāti.
“Cos’è o monaci, la nascita? Ciò che a questo o quell’essere, in questa o quella specie di esseri è nascita, venire a nascere, discesa dal ventre materno, manifestazione, sorgere degli aggregati, ottenimento delle basi sensoriali. Questo, o monaci è chiamato nascita.”
-Paṭiccasamuppādasutta, SN 12.1
Bisogna quindi ribadire che la nascita di per sé non rappresenta un problema: La sofferenza esistenziale si manifesta per via del fraintendimento circa l’esistenza stessa determinata dalla mente afflitta dalla non conoscenza, il bhava. La nascita base della sofferenza di cui parla il Buddha non è quindi meramente la nascita dal ventre materno, ma l’dea della nascita concepita da una mente afflitta dai veleni mentali. I Buddha e gli Arahat sono ovviamente soggetti a nascita e quindi ad invecchiamento, malattia e morte, ma sono tuttavia liberi dalla sofferenza. Questo dimostra che il problema è la nascita in quanto condizionata dall’ignoranza e dagli altri veleni interiori.
‘Bhavapaccayā jātī’ti iti kho panetaṃ vuttaṃ, tadānanda, imināpetaṃ pariyāyena veditabbaṃ, yathā bhavapaccayā jāti. Bhavo ca hi, ānanda, nābhavissa sabbena sabbaṃ sabbathā sabbaṃ kassaci kimhici, seyyathidaṃ—kāmabhavo vā rūpabhavo vā arūpabhavo vā, sabbaso bhave asati bhavanirodhā api nu kho jāti paññāyethā”ti? “No hetaṃ, bhante”. “Tasmātihānanda, eseva hetu etaṃ nidānaṃ esa samudayo esa paccayo jātiyā, yadidaṃ bhavo.
“La nascita è determinata dal Bhava, ma se ciò fu detto, o Ānanda, è nel seguente modo che questa affermazione deve essere compresa: Se, o Ānanda, non vi fosse alcuna esistenza, di nessun tipo – esistenza sensuale, esistenza formale ed esistenza informale – con l’assenza di qualunque tipo di esistenza, con la cessazione di Bhava, forse che si potrebbe sperimentare ancora la nascita? “No di certo, Signore.” . “Perciò Ānanda, questa e la ragione, questo è il fondamento, questa è l’origine e la causa della nascita, ovvero, l’esistenza.”
-Mahānidānasutta, DN, 15.
Tuttavia bisogna tenere presente che in accordo agli insegnamenti del buddhismo antico, l’idea che la coscienza si trasferisca da un esistenza all’altra è considerata una visione distorta particolarmente grave, come si evince da questo dialogo fra il Buddha ed un monaco di nome Sati, convinto che fosse proprio la coscienza a muoversi immutabile da un’esistenza all’altra:
Evaṃ me sutaṃ— ekaṃ samayaṃ bhagavā sāvatthiyaṃ viharati jetavane anāthapiṇḍikassa ārāme. Tena kho pana samayena sātissa nāma bhikkhuno kevaṭṭaputtassa evarūpaṃ pāpakaṃ diṭṭhigataṃ uppannaṃ hoti: “tathāhaṃ bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati anaññan”ti.
“Così ho udito: Una volta soggiornava il Sublime presso Savatthi, nella selva del Vincitore, nel parco di Anathapindika. Ora in quel tempo, in un monaco di nome Sati Kevattaputta era sorta questa dannosa visione erronea: “Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).”
Assosuṃ kho sambahulā bhikkhū: “sātissa kira nāma bhikkhuno kevaṭṭaputtassa evarūpaṃ pāpakaṃ diṭṭhigataṃ uppannaṃ: ‘tathāhaṃ bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati, anaññan’”ti. Atha kho te bhikkhū yena sāti bhikkhu kevaṭṭaputto tenupasaṅkamiṃsu; upasaṅkamitvā sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ etadavocuṃ: “saccaṃ kira te, āvuso sāti, evarūpaṃ pāpakaṃ diṭṭhigataṃ uppannaṃ: ‘tathāhaṃ bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati, anaññan’”ti?
Venne ora alle orecchie di molti monaci che nel monaco Sati Kevattaputta, era sorta questa dannosa visione erronea, “Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).” Quei monaci si recarono presso di lui e dissero: È vero, o amico Sati, che in te è sorta tale erronea visione: “Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).”?
“Evaṃ byā kho ahaṃ, āvuso, bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati, anaññan”ti. Atha kho te bhikkhū sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ etasmā pāpakā diṭṭhigatā vivecetukāmā samanuyuñjanti samanugāhanti samanubhāsanti: “mā evaṃ, āvuso sāti, avaca, mā bhagavantaṃ abbhācikkhi, na hi sādhu bhagavato abbhakkhānaṃ, na hi bhagavā evaṃ vadeyya. Anekapariyāyenāvuso sāti, paṭiccasamuppannaṃ viññāṇaṃ vuttaṃ bhagavatā, aññatra paccayā natthi viññāṇassa sambhavo”ti.
“proprio così, o amici, Io comprendo il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).” Quindi, quei monaci desiderosi di correggere il monaco Sati Kevattaputta da quella dannosa visione erronea, interrogarono, domandarono ed esaminarono così:” Non dire così, amico sati, non parlare così, Non distorcere ciò che ha detto il Sublime, non è bene distorcere ciò che ha detto il Sublime, il Sublime non può aver detto ciò. In molti modi, amico Sati, è stato detto e spiegato dal Sublime che la coscienza è sorta in maniera interdipendente, che senza cause non può sorgere alcuna coscienza.”
Evampi kho sāti bhikkhu kevaṭṭaputto tehi bhikkhūhi samanuyuñjiyamāno samanugāhiyamāno samanubhāsiyamāno tadeva pāpakaṃ diṭṭhigataṃ thāmasā parāmāsā abhinivissa voharati: “evaṃ byā kho ahaṃ, āvuso, bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati anaññan”ti.
“Ma nonostante che il monaco Sati Kevattaputta fosse stato interrogato, contro-interrogato ed esaminato da quei monaci, egli continuava ostinatamente a mantenere tale dannosa visione erronea: “così, o amici, Io comprendo il Dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).”
Yato kho te bhikkhū nāsakkhiṃsu sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ etasmā pāpakā diṭṭhigatā vivecetuṃ, atha kho te bhikkhū yena bhagavā tenupasaṅkamiṃsu; upasaṅkamitvā bhagavantaṃ abhivādetvā ekamantaṃ nisīdiṃsu. Ekamantaṃ nisinnā kho te bhikkhū bhagavantaṃ etadavocuṃ:
“Allora quei monaci, incapaci di correggere il Monaco sati Kevattaputta da tale dannosa visione erronea, si recarono la dove si trovava il Sublime, ed avvicinandosi al Sublime, gli resero omaggio e si sedettero di fianco a lui. E sedendogli accanto, quei monaci dissero al Sublime: (I monaci ripetono al Buddha l’intera conversazione avuta con Sati)
Yato kho mayaṃ, bhante, nāsakkhimha sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ etasmā pāpakā diṭṭhigatā vivecetuṃ, atha mayaṃ etamatthaṃ bhagavato ārocemā”ti.
“Quindi, signore, non essendo riusciti a correggere il monaco Sati Kevattaputta da quella dannosa visione erronea, noi siamo qui venuti a vedere il Sublime.”
Atha kho bhagavā aññataraṃ bhikkhuṃ āmantesi: “ehi tvaṃ bhikkhu, mama vacanena sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ āmantehi: ‘satthā taṃ, āvuso sāti, āmantetī’”ti. “Evaṃ, bhante”ti kho so bhikkhu bhagavato paṭissutvā yena sāti bhikkhu kevaṭṭaputto tenupasaṅkami; upasaṅkamitvā sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ etadavoca: “satthā taṃ, āvuso sāti, āmantetī”ti. “Evamāvuso”ti kho sāti bhikkhu kevaṭṭaputto tassa bhikkhuno paṭissutvā yena bhagavā tenupasaṅkami
“Quindi, Il Sublime si rivolse ad un certo monaco e gli disse: “vieni monaco, vai dal monaco Sati Kevattaputta e digli a nome mio: Amico, il maestro ti vuole parlare. ” Certo Signore”, rispose quel monaco al Sublime ed obbedendo al Sublime, si recò la dove risiedeva il monaco Sati Kevattaputto, ed essendo arrivato la, disse al monaco Sati Kevattaputta: “Amico Sati, il maestro ti vuole parlare”. “Certo, amico”, ed avendo assentito a quel monaco, si recò la dove si trovava il Sublime.”
upasaṅkamitvā bhagavantaṃ abhivādetvā ekamantaṃ nisīdi. Ekamantaṃ nisinnaṃ kho sātiṃ bhikkhuṃ kevaṭṭaputtaṃ bhagavā etadavoca: “saccaṃ kira te, sāti, evarūpaṃ pāpakaṃ diṭṭhigataṃ uppannaṃ: ‘tathāhaṃ bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati, anaññan’”ti? “Evaṃ byā kho ahaṃ, bhante, bhagavatā dhammaṃ desitaṃ ājānāmi yathā tadevidaṃ viññāṇaṃ sandhāvati saṃsarati, anaññan”ti.
“e recatosi la dove si trovava il sublime, rese omaggio al Sublime, e si sedette accanto a lui. E al monaco Sati Kevattaputta che gli sedeva accanto il Sublime disse: È vero, come si dice, che in te, Sati è sorta una tale dannosa visione distorta: “Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa)”?
“Proprio così, signore, Io comprendo il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).”
“Katamaṃ taṃ, sāti, viññāṇan”ti? “Yvāyaṃ, bhante, vado vedeyyo tatra tatra kalyāṇapāpakānaṃ kammānaṃ vipākaṃ paṭisaṃvedetī”ti.
“E cosa, o Sati, sarebbe questa coscienza?”
“Signore, proprio quella che parla, prova sentimenti e sperimenta qua e là i risultati delle azioni benefiche e nocive.”
“Kassa nu kho nāma tvaṃ, moghapurisa, mayā evaṃ dhammaṃ desitaṃ ājānāsi? Nanu mayā, moghapurisa, anekapariyāyena paṭiccasamuppannaṃ viññāṇaṃ vuttaṃ, aññatra paccayā natthi viññāṇassa sambhavoti? Atha ca pana tvaṃ, moghapurisa, attanā duggahitena amhe ceva abbhācikkhasi, attānañca khaṇasi, bahuñca apuññaṃ pasavasi. Tañhi te, moghapurisa, bhavissati dīgharattaṃ ahitāya dukkhāyā”ti.
“Da chi hai tu dunque sentito, essere stolto, che io abbia esposto un simile dharma? Non ho forse io, essere stolto, spiegato in molti modi la natura condizionata della coscienza: senza cause non può sorgere alcuna coscienza? Ma tu, essere stolto, distorci quello che ho insegnato e scavi a te stesso la fossa, causando a te stesso un grave danno. Ciò ti sarà, essere stolto, di grande danno, e sofferenza.”
Atha kho bhagavā bhikkhū āmantesi: “taṃ kiṃ maññatha, bhikkhave, api nāyaṃ sāti bhikkhu kevaṭṭaputto usmīkatopi imasmiṃ dhammavinaye”ti? “Kiñhi siyā, bhante? No hetaṃ, bhante”ti
Quindi il Sublime si rivolse a quei monaci: “Cosa pensate, o monaci, forse che in questo monaco Sati Kevattaputta si sia acceso un qualche barlume di conoscenza circa questo Dharma e disciplina?”
“Come potrebbe essere ciò? No di certo, Signore.”
Quindi il Buddha, dopo aver sgridato il monaco Sati, ormai ammutolito e paonazzo in volto, continua la spiegazione sulla natura contingente della coscienza:
“Yaṃ yadeva, bhikkhave, paccayaṃ paṭicca uppajjati viññāṇaṃ, tena teneva viññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati Cakkhuñca paṭicca rūpe ca uppajjati viññāṇaṃ, cakkhuviññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati; sotañca paṭicca sadde ca uppajjati viññāṇaṃ, sotaviññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati; ghānañca paṭicca gandhe ca uppajjati viññāṇaṃ, ghānaviññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati; jivhañca paṭicca rase ca uppajjati viññāṇaṃ, jivhāviññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati; kāyañca paṭicca phoṭṭhabbe ca uppajjati viññāṇaṃ, kāyaviññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati; manañca paṭicca dhamme ca uppajjati viññāṇaṃ, manoviññāṇantveva saṅkhyaṃ gacchati.
“per qualsiasi ragione, voi monaci, abbia origine coscienza, proprio per quella, e solo per quella, essa viene a determinarsi. Mediante la vista e le forme viene a determinarsi coscienza visiva. Mediante l’udito e i suoni viene a determinarsi la coscienza uditiva. Mediante l’olfatto e gli odori viene a determinarsi la coscienza olfattiva. Mediante il gusto e i sapori viene determinarsi la coscienza gustativa. Mediante il tatto e i contatti, viene a determinarsi la coscienza tattile. Mediante il pensiero e le cose ha origine la coscienza mentale.”
-Mahātaṇhāsaṅkhayasutta, MN 38
Un affermazione dello stesso tenore è contenuta nel Bijja Sutta del Samyutta Nikaya:
“Se qualcuno dicesse, ‘descriverò un venire, un andare, uno svanire, un sorgere, una crescita, un incremento, o un proliferare della coscienza a prescindere dal corpo, dalle sensazioni, dall’appercezione e dalle formazioni,’ ciò sarebbe impossibile.
– Bijja Sutta. S.N.
la mancanza di spiegazioni sul processo di rinascita deve essere stata la causa del proliferare di teorie e dottrine su questo processo nei due secoli successivi la morte del Buddha tese a riempire tale vuoto dottrinario. Fra le elaborazioni dottrinali più antiche dal punto di vista filologico vi è quella del Patisandhi Vinnana o ‘coscienza di riconnessione’ esposta nel patisambhidamagga, un testo composto da un autore ignoto ed attribuito a Sariputta incluso nella raccolta dei discorsi brevi o kuddhaka Nikaya.
Secondo questa dottrina, sarebbe proprio la coscienza di ri-connessione (pati-sandhi) a garantire la continuità fra le esistenze passate, presenti e future; e tuttavia, tale dottrina è difficilmente riconciliabile con quanto asserito nel sutta esposto qui sopra. Inoltre, non vi è alcun riferimento a tale particolare tipo di coscienza in nessuno dei discorsi attribuiti al Buddha.
Altre dottrine, come quella del citavithi e del citta bhavanga sono esposte nei testi dell’abhidharma, ma anche in questo caso, non vi sono riscontri a tali dottrine.
In conclusione, possiamo affermare che, in accordo alle informazioni forniteci dai discorsi inclusi nel canone pali, il Buddhismo antico intendeva la rinascita, o meglio, il ridivenire, come un processo che avviene di momento in momento e di vita in vita a causa della sete d’esistenza e delle volizioni (karma) volte a soddisfare tale sete; Inoltre, tale divenire si configura come il manifestarsi di un’entità psicofisica, dotata di basi sensoriali, in una determinata area geografica ed in una certa epoca, in uno dei sei reami d’esistenza.
La domanda fondamentale è: se la coscienza dipende dal corpo e viceversa, come potrebbe questa, al momento della morte, separarsi dal corpo dalla quale dipende, viaggiare nello spazio ed introdursi nell’embrione appena formato? Una simile idea stride nettamente con quanto affermato dal Buddha nei discorsi sopracitati.
Sulla base di simili riferimenti scritturali, diversi pensatori critici e non tradizionali, sostengono che in senso ultimo, quando il Buddha parlava di “nuova esistenza” non si stesse riferendo alla rinascita in senso letterale, ma al continuo manifestarsi dell’Io in ogni istante della nostra esistenza, sulla base del prendere gli aggregati psicofisici come Sé o come appartenenti al Sé.
Il Ven.Buddhadasa spiega: “se l’ignoranza, causa radice della nostra sofferenza si trovasse nella vita precedente a questa, allora la liberazione dalla sofferenza in questa stessa vita sarebbe impossibile, visto che non si potrebbe lavorare all’eliminazione di tale causa radice;Se la c’è la sofferenza, allora le sue cause radice o cause proiettanti devono essere ancora qui, in questo continuum mentale, di questa vita.”
In base a questo modo di interpretare l’insegnamento del Buddha, il paticcasamuppada non si svilupperebbe nel corso di tre vite, ma semplicemente nel momento presente, continuamente. Si noti, che questa esposizione del Paticcasamuppada si basa su quanto scritto nei discorsi più antichi, mentre la spiegazione tradizionale sulle tre vite è basata sui commentari e sui manuali più recenti e non attribuili al Buddha storico, come il Patisambhidamagga, L’Abhidharma o il Visuddhimagga di Buddhagosa.
Il divenire come metafora esistenziale
Ne Il cuore dell’albero della Bodhi, Buddhadasa scrive:
“Ogni singolo affioramento del senso dell’io-mio è considerato una nascita (jati) e questo è appunto il senso della parola nascita in accordo al Dhamma. Non pensate alla nascita da ventre materno. l’uomo nasce dal ventre una volta sola e viene chiuso nella bara una volta sola. Il Buddha non si riferiva alla nascita fisica: intendeva la nascita spirituale, la nascita dell’attaccamento all’io-mio”.
Le fonti scritturali e la loro attendibilità
E’ noto a tutti gli studiosi che in molti discorsi canonici si fa esplicito riferimento alla rinascita in senso letterale, ma è difficile, se non impossibile stabilire l’autenticità e la veridicità in termini dottrinali di questi discorsi così ricchi di riferimenti mitologici e religiosi, di miracoli e magie, di storie su individui capaci di volare, di dei e semi dei in perenne lotta fra di loro, di demoni e spiriti…
Ad esempio, in un certo discorso si narra la storia di una donna che grazie ai meriti accumulati nelle vite precedenti avrebbe avuto ben cinquecento figli; In un altro discorso, si narra di un uomo che in un solo giorno avrebbe fatto un giro completo intorno alla terra;
Altrove nel corpus dei discorsi è scritto che le donne in quanto tali non possono raggiungere il pieno risveglio; In un sutta della raccolta dei discorsi lunghi (Digha Nikaya) si afferma che il Buddha avesse quaranta denti, la pelle color oro ed era alto due metri, che la terra è piatta e formata da quattro continenti posti ai quattro punti cardinali, che la pioggia è opera degli Dei, che gli uomini discenderebbero dagli Dei, che gli animali parlano tra di loro e con gli uomini e che gli inferni sono localizzati diecimila kilometri sotto terra nel sottosuolo della città di Bodhgaya, in India..
La rinascita secondo i sutta
Se è vero che i riferimenti alla rinascita sono abbondanti nei discorsi attribuiti al Buddha, in che modo questa viene spiegata negli stessi sutta ? Sorprendentemente, nella vasta mole di discorsi che compongono la raccolta dei discorsi (Sutta pitaka), ci sono pochissime spiegazioni su come avvenga la rinascita; Le uniche istruzioni contenute nei sutta spiegano che se è presente la sete – sete di piacere sensuale, sete di esistenza e sete di non esistere- vi sarà la rinascita o più propriamente “il sorgere di una nuova esistenza” ( Puna-bhava-abhinibatti) ; Viene inoltre spiegato che la qualità della futura esistenza sarà determinata dal Karma, dalle azioni-volizioni. I discorsi non danno nessun’altra spiegazione tecnica. Molto poco per un tema considerato da molti come centrale nel buddhismo.
Linguaggio ordinario e linguaggio del Dharma: I mezzi abili
Queste idee erano senz’altro diffuse al tempo del Buddha nella sua terra d’origine,l’india.
Il Buddha non le negò nettamente, ma utilizzò una tecnica comunicativa ancora oggi utilizzata dai maestri buddhisti: Impiegare concetti e idee già presenti nell’immaginario degli uditori, dandogli un nuovo significato in accordo al Dharma; Molti maestri moderni quali Suzuki, Chogyam Trungpa e Buddhadasa Bhikkhu hanno utilizzato la stessa tecnica comunicativa in riguardo al concetto di Dio creatore, un elemento portante della cultura religiosa dell’occidente.
Nel Tevijja sutta è narrata la storia di una coppia di giovani Bramini il quali chiesero al Buddha di indicare loro la via per arrivare al Brahman, il Dio Creatore nell’Induismo; a questa richiesta la risposta del Buddha fu: “Se volete arrivare all’unione con Brahma dovete coltivare quattro cose: amorevole gentilezza, compassione, gioia simpatetica ed equanimità.”
Sulla base di tale discorso, sarebbe corretto affermare che il Buddha credeva nel Dio creatore? La risposta è NO: Egli semplicemente impiegò un mezzo abile per indurre l’interlocutore alla pratica della benevolenza e della compassione.
In un altro discorso, il Buddha promise al suo fratellastro Nanda cinquecento fanciulle celesti nel momento in cui questi avesse raggiunto l’emancipazione, voleva veramente offrirgli cinquecento fanciulle divine o era solo un espediente per riportare il titubante Nanda sulla retta via del Dharma?
A Kisa Gotami che chiedeva un rimedio per resuscitare il figlio morto, il Buddha disse: “Ti darò la medicina che cerchi, a patto che tu riesca a trovare per me un chicco di sesamo preso in una casa nella quale non è mai morto nessuno. Forse Il Buddha possedeva veramente l’elisir dell’immortalità? Anche in questo caso, si trattava solo di un mezzo abile per indurre in Gotami la comprensione dell’ineluttabilità della morte.
In merito alla credenza secondo la quale esiterebbero degli inferni localizzati negli abissi, il Buddha disse:
“Quando la persona ignorante della realtà asserisce l’esistenza di un inferno negli abissi dell’oceano, egli sta affermando qualcosa di falso e privo di fondamento. Il termine ‘Abissi infernali’ è un modo di designare le sensazioni fisiche dolorose”. – S.N.36.4
Come per altre tradizioni filosofiche o religiose, i testi buddhisti non andrebbero presi alla lettera ma letti fra le righe, contestualizzati, studiati criticamente ed interpretati correttamente, in accordo cioè, al loro significato originario. Nel Buddhismo non c’è spazio per la fede cieca.
E’ altresì vero che Il Buddha non negò mai la teoria della rinascita, e ciò è probabilmente dovuto al fatto che tale dottrina forniva un fondamento etico-metafisico ideale alla pratica della retta condotta morale, in società arcaiche come quella indiana.
E se non ci fosse alcuna rinascita?
Nel discorso ai Kalama, il Buddha spiega che anche nel caso in cui non vi fosse alcuna rinascita, la pratica del Dharma preserverebbe comunque tutto il suo potenziale liberatorio:
“Quando, Kalama, il nobile discepolo ha in tal modo reso la sua mente libera dall’inimicizia, dall’avversione, non corrotta e pura, ha conquistato quattro assicurazioni proprio in questa vita:
1:‘Se esiste un aldilà, e se le buone e cattive azioni portano frutti e producono risultati, è possibile che con la disgregazione del corpo, dopo la morte, andrò in una buona destinazione, in un paradiso’.
2: ‘Ma se non esiste un aldilà, e se le buone e cattive azioni non portano frutti e non producono risultati, lo stesso proprio qui, in questa vita, vivrò felice, libero dall’inimicizia e dall’avversione’.
3:‘Supponiamo che il male ricada in chi lo compie. Allora, poiché io non voglio il male di nessuno, come può la sofferenza affliggermi, dato che non compio azioni malvagie?
4: ‘Supponiamo che il male non ricada in chi lo compie. Allora, proprio qui, mi sento purificato in entrambi i casi.’
Il pragmatismo Buddhista
Spesso viene chiesto: è possibile praticare il Buddhismo se non si crede nella rinascita? A tale domanda bisogna rispondere con un vigoroso sì. Un approccio pragmatico alla questione è offerto da Lama Yeshe:
“In termini psicologici, non c’è bisogno di credere necessariamente che il paradiso o l’inferno siano lì fuori ad aspettarvi, ma si può facilmente comprendere come le proiezioni inquinate dell’ordinario pensiero mondano vi rendano miserabili e come liberandosi di tali concettualizzazioni sia possibile sviluppare una mente sana ed una perfetta percezione della retta visione. E’ così logico; Sto parlando di questo dal punto di visto logico, non dal punto di vista di un qualche elevato sistema metafisico.”
Chogyam Trumpa offre una lettura in chiave psicologica dei sei reami del samsara:
1. Nella sfera infernale si è sopraffatti da un senso di terrore..di claustrofobia. Il calore proviene da tutte le direzioni; La terra interna si è trasformata in metallo bollente, fiumi interi sono diventati di ferro fuso..L’ODIO è così.Siamo divenuti l’ira stessa. Perseguitiamo noi stessi costantemente,questo è lo svilupparsi dell’inferno; L‘esperienza del freddo intenso e della neve,un mondo di ghiaccio in cui tutto è completamente gelato..è un altro tipo di aggressività, l’aggressività che rifiuta di comunicare con gli altri..”
2. Nella sfera dei preta o spiriti famelici c’è un enorme senso di ricchezza..qualunque cosa si desideri, ci si ritrova a possederla. Ciò rende ancora più famelici, c’è un senso di privazione, perché dal momento che abbiamo già tutto, non possiamo andare in giro a cercare qualcosa e possederlo. E’ estremamente frustrante, è una fame fondamentalmente insaziabile..( INSODDISFAZIONE)
3. La sfera animale è caratterizzata dall’assenza di senso dell’umorismo. C’è un senso di paranoia, di PAURA,come se si fosse minacciati…tutto ciò che è imprevedibile costituisce fondamentalmente una minaccia..
4.La sfera umana è fondata sulla PASSIONE, sulla tendenza a esplorare e godere..costruiamo il nostro mondo con enorme successo e grandi e grandi risultati, ma questa scalata a costruire strumenti e contro strumenti avanza costantemente per generare nuove fonti di passioni e d’intrigo..
5. La sfera degli Asura, o Titani è una situazione estremamente intelligente…c’è una tendenza a guardarsi dietro le spalle, a sospettare della propria ombra. E’ nota come sfera della GELOSIA e dell’invidia. Scopo di questa sfera è agire esclusivamente nell’intrigo…
6. Nella sfera degli dèi si diviene consapevoli della propria individualità, e l’individualità conduce ad un senso di autoconservazione. E’ la sfera dell’ORGOGLIO..è l’intossicazione da ego, un totale assorbimento in se stessi.
Da Chogyam Trumpa, Commentario al Libro Tibetano dei Morti
La nascita che è veramente importante
In merito alla questione della nascita, Buddhadasa scrive:
Ci sono diversi tipi di nascita,ma in questo momento il nostro interesse particolare è per la ‘nascita’ della mente umana in una modalità auspicabile e sempre più elevata, in grado di estinguere la sofferenza.
La nascita che è indesiderata è quella rozza, quella dolorosa. Quindi, se la domanda riguarda quale tipo di nascita sia un problema, la risposta è la nascita della sofferenza, del tormento mentale.
Il dolore fisico, se non contamina la mente, non è molto importante. C’è un dolore fisico che non fa male mentalmente, e uno dolore fisico che lo fa.
Se la mente è debole e stupida, anche la puntura di una spina può provocare dolore mentale e paura di morire.
La mente proverà sofferenza ogni qual volta che si manifesta il pensiero ‘Me’ perché ci sarà un ‘me’ a sperimentare la vita e la paura della morte ‘.
L’approccio esistenziale al Dharma
Da una prospettiva buddhista esistenziale, la questione della rinascita, o meglio, la questione del ‘sorgere di un nuova esistenza’ (punabbhava-abhinibbatti), ha poco a che vedere con il problema della sofferenza del presente, il quale può essere risolto solo nel momento presente.
A differenza di quanto sostenuto negli ambienti tradizionalisti, il Discorso a Susima ci conferma che l’ottenimento della liberazione dal dukkha e l’acquisizione dei poteri psichici, fra i quali vi è la capacità di ricordare le vite precedenti, sono due cose nettamente separate.
In altre parole, per raggiungere la liberazione, non è assolutamente necessario la conoscenza delle vite precedenti. Ancora una volta, vi è da registrare una netta discrepanza tra ciò che viene propagandato come ‘Buddhismo’ e ciò che il Buddha disse realmente.
Inoltre, Secondo l’interpretazione tradizionale, la sofferenza futura è determinata dalle cause presenti in questa stessa vita. Se davvero vi fosse una vita futura oltre la morte, la sofferenza che potremmo sperimentare in un’eventuale nuova esistenza sarà determinata, (e quindi identica) dal punto di vista della legge di causa ed effetto, dalle cause presenti in questa vita. In termini di causa ed effetto, eliminando le cause radice della sofferenza in questa vita, ci assicuriamo la libertà dalle sofferenze delle eventuali vite future.
Probabilmente, un giorno non lontano i sinceri praticanti del Dharma dovranno fare i conti con il fatto che l’insegnamento sulla rinascita sia diventato uno strumento desueto, un’arcaica credenza non dimostrabile, strettamente connessa all’antica cultura in cui nacque il Buddhismo più di 2600 anni fa, non più praticabile né tanto meno utile al progresso spirituale in quest’epoca moderna.
La forza storica del Buddhismo è stata da sempre la sua grande capacità di adattarsi a nuove culture, la sua duttilità, la capacità di reinventare se stesso, pur rimanendo fedele ai principi originali. Dalla prima predicazione di Gautama sul suolo indiano oltre 2600 anni fa, sono nate innumerevoli scuole e forme di buddhismo quali quello Sri lankese, Thaiandese, Cinese, Giapponese, Tibetano, Coreano, Mongolo eccetera. La sfida che i Buddhisti in Occidente hanno di fronte è quella di creare una via occidentale al Buddhismo ben integrata con la nostra cultura contemporanea, ma pur sempre coerente con il progetto originario di liberazione dal condizionamento e dalla sofferenza legata all’esistere.
“Il Buddhismo afferma che questo processo dell’esistere continui dopo la morte, come effetto di tale Kamma e desideri, anche se non in nessuno dei discorsi attribuiti al Buddha viene spiegato come ciò avvenga.”
Per quello che ne capisco credo che la spiegazione sia l’Origine Dipendente. Quando ci sono le cause e le condizioni per l’emergere di una coscienza essa emerge, quando finiscono la coscienza finisce. Nel Phagguna Sutta , Samyutta Nikaya 12.12, un monaco chiede al Buddha “Chi prova una sensazione?” e il Buddha risponde:
“Not a valid question,” the Blessed One replied. “I do not say, ‘One feels.’ If I should say, ‘One feels,’ in that case this would be a valid question: ‘Venerable sir, who feels?’ But I do not speak thus. Since I do not speak thus, if one should ask me, ‘Venerable sir, with what as condition does feeling come to be?’ this would be a valid question. To this the valid answer is: ‘With contact as condition, feeling comes to be; with feeling as condition, craving.’”
Vale anche per la domanda “chi muore?”, secondo me sì ma, c’è un ma, il Buddha parla della rinascita in prima persona riferendosi alla propria esperienza, inoltre riguardo ai vari livelli del sentiero, colui che entra nella corrente rinascerà per altre sette vite, colui che ritorna solo una volta rinascerà ancora un’altra volta e colui che non ritorna non ritornerà più (adesso vado a memoria ma credo che siano più o meno questi i passaggi). Allora sorge la domanda: se non c’è un sé, chi fruisce dei meriti delle vite precedenti?
Ho fatto una domanda simile a Bhante Sujato e lui mi ha risposto che è solo un modo di dire, un uso del linguaggio: quando dico: “vado a prendere un caffè” uso un linguaggio convenzionale e non sto necessariamente affermando che esiste un’essenza eterna che va a prendersi un caffè. Allo stesso modo il Buddha usa un linguaggio convenzionale per farsi capire, e questo lo comprendo, ma perché essere così specifico riguardo alla sua esperienza e a quella dei vari stadi del sentiero o ai vari livelli dei cieli e degli inferi se è solo un modo di dire? Perché non è solo un modo di dire, secondo Sujato il Buddha sta esponendo una teoria, quella della rinascita, in base alle sue esperienze personali.
La mia idea sull’argomento è questa: basta guardare al mondo che ci circonda senza aggiungere nulla di metafisico. Prendiamo un campo di frumento, il contadino pianta i semi, nasce il frumento, il frumento viene raccolto, il campo è vuoto, il contadino pianta i semi e così il ciclo riparte. Possiamo dire che il frumento rinasce? Si, in un certo senso. Non è lo stesso frumento ogni anno ma non è neanche qualcosa di completamente diverso. Possiamo dire che c’è un essenza del frumento che continua in eterno? no, perché se analizziamo il frumento non troviamo alcuna essenza, nulla di eterno. Possiamo dire che le azioni del frumento passato influiscono nel frumento presente? Si, se il frumento passato ha esaurito i nutrimenti del terreno, il frumento presente crescerà con più difficoltà. E penso che sia tutto qui, ovvio che le mie azioni influiscono su un futuro anche molto lontano che probabilmente non vedrò, ma non influiranno su di un “me” futuro ma su un altro “fenomeno umano” che si troverà nella stessa condizione di essere umano come me, e da dove viene l’essere umano del futuro? dallo stesso posto dal quale vengo io: da cause e condizioni favorevoli. Non c’è un’anima, non c’è un’essenza ma “semplici” configurazioni di molecole che cambiano in base alla legge dell’Origine Dipendente.
Scusate la lunghezza.
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Grazie per il contributo prezioso, tradurremo anche quell’importante discorso, al fine di far chiarezza su questo argomento troppo spesso frainteso. nel Dhamma.
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Anche questo breve Sutta è interessante:
https://discorsidelbuddha.wordpress.com/2017/10/05/il-concetto-di-tempo-non-e-altro-che-un-concetto-addha-sutta-il-discorso-sul-tempo/
I tre tempi (passato, presente, futuro) sono solo concetti, parole che hanno senso solo se immaginiamo un sé. Quando presuponiamo un sé allora parliamo di passato, presente e futuro ma se togliamo il sé togliamo anche il concetto di tempo nella narrazione. Il Buddha stesso descrive il Dhamma come akaliko ovvero senza tempo. A maggior ragione non ha senso parlare di qualcuno che vive una vita futura e questo è diverso dall’affermare che non esiste una vita futura. In effetti è la via di mezzo tra l’esistenza e la non esistenza: non esiste un sé che continua nel tempo e non esiste la fine totale, globale di un qualcosa ma quando ci sono le cause e le condizioni le cose emergono e quando non ci sono finiscono.
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Grazie per il prezioso contributo e per ile traduzioni !
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