«jātipaccayā jarāmaraṇaṃ sokaparidevadukkhadomanassupāyāsā sambhavanti»
«Nascita determina invecchiamento e morte, e per via di ciò, angoscia, pena, dolore, sofferenza ed afflizione vengono a manifestarsi»
-Bodhi sutta, Ud. 1.1
«Tassa mayhaṃ bhikkhave etadahosi: ”kimhi nu kho sati jarāmaraṇaṃ hoti? Kimpaccayā jarāmaraṇa”nti. Tassa mayhaṃ bhikkhave, yonisomanasikārā ahu paññāya abhisamayo: ”jātiyā kho sati jarāmaraṇaṃ hoti. Jātipaccayā jarāmaraṇanti».
«E così a me fu: ‘con la presenza di cosa si manifestano decadimento e morte? qual è la condizione per decadimento e morte?’ e così, o monaci, dirigendo l’attenzione all’origine [del condizionamento], Io realizzai con saggezza: ‘Essendoci nascita, decadimento e morte si manifestano; La nascita determina decadimento e morte’».
-Gotama Sutta.
«Katamā ca, bhikkhave, jāti? Yā tesaṃ tesaṃ sattānaṃ tamhi tamhi sattanikāye jāti sañjāti okkanti abhinibbatti khandhānaṃ pātubhāvo āyatanānaṃ paṭilābho. Ayaṃ vuccati, bhikkhave, jāti».
«E cos’è, o monaci, la nascita? Ciò che a questi o quegli esseri, di questa o quella specie è nascita, origine, discesa (dal ventre materno), manifestazione, il formarsi degli aggregati, l’ottenimento delle basi sensoriali. Ciò, o monaci, è chiamata nascita».
-Saṃyutta Nikāya 12 1. Buddhavagga.
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La nascita (jāti) è la conditio sine qua non per il manifestarsi di malattia, decadimento e morte, in quanto senza di essa non vi potrebbe logicamente essere alcuna malattia, tanto meno invecchiamento e morte;
Tuttavia, jāti da sola non è sufficiente per trasformare questi eventi della vita di ogni essere vivente in fonti di angoscia e sofferenza;
Per far sì che il dukkha (sofferenza) si manifesti, è necessario un altro fattore, di natura psicologica, noto come avijjā, l’ignoranza profonda della natura impermanente, insoddisfacente e non controllabile della vita stessa.
L’ignoranza distorce la percezione soggettiva di ognuno di noi, dandoci quell’illusione di staticità, solidità e concretezza alla base delle nostre scelte, pensieri, reazioni emotive e comportamenti; nel momento in cui la realtà si palesa per come realmente è, ecco che il dukkha si manifesta.
In termini biologici, nascere, invecchiare e morire sono eventi naturali, e tuttavia essi creano in noi tutti paura e sconcerto al solo pensiero. La pratica del Dhamma ci invita ad essere costantemente consapevoli del carattere non negoziabile di questi aspetti dell’esistenza, al fine di rendere significativa questa nostra esistenza fuggevole.
Invecchiamento e morte:
«Katamañca, bhikkhave, jarāmaraṇaṃ? Yā tesaṃ tesaṃ sattānaṃ tamhi tamhi sattanikāye jarā jīraṇatā khaṇḍiccaṃ pāliccaṃ valittacatā āyuno saṃhāni indriyānaṃ paripāko; ayaṃ vuccati jarā. Yā tesaṃ tesaṃ sattānaṃ tamhā tamhā sattanikāyā cuti cavanatā bhedo antaradhānaṃ maccu maraṇaṃ kālakiriyā khandhānaṃ bhedo kaḷevarassa nikkhepo (), idaṃ vuccati maraṇaṃ. Iti ayañca jarā, idañca maraṇaṃ. Idaṃ vuccati, bhikkhave, jarāmaraṇaṃ».
«Ma cosa sono, o monaci, decadimento e morte? Ciò che a questi o quegli esseri, di questa o quella specie di esseri è decadimento, invecchiamento, caduta dei denti, incanutirsi dei capelli, comparsa delle rughe, accorciarsi della vita e decadimento delle facoltà sensoriali, ciò è detto decadimento; Ciò che a questi o quegli esseri, di questa o quella specie di esseri è esaurimento, decadimento dell’esistenza, sfaldamento, scomparsa, morte, fine, compimento del proprio tempo, disgregazione degli aggregati, abbandono del corpo..Ciò è detta morte; Questo è il decadimento, e questa è la morte. Ciò o monaci, è detto decadimento e morte».
-Saṃyutta Nikāya 12 1. Buddhavagga
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Proprio in questo momento, migliaia di persone stanno nascendo e morendo senza che questo provochi in noi il minimo disagio, ma quando il problema della morte ci tocca personalmente, come ad esempio quando viene a mancare una persona cara o a noi vicina, o quando ci capita di riflettere sull’imminenza della nostra stessa morte, la paura, l’angoscia ed il dolore esistenziale di cui parlava il Buddha prendono il sopravvento.
Il proliferare dei pensieri angoscianti circa la morte è il fattore destabilizzante per eccellenza, che normalmente viene tenuto a bada – per quanto possibile- con i ben noti meccanismi psicologici del ‘flight o fight’, letteralmente ‘fuggi o combatti’;
Per dimenticarci dell’inevitabilità della morte ci impegnano in una miriade di attività distraenti, lavoro, carriera, famiglia etc, o cerchiamo rifugio nei piaceri dei sensi; Tuttavia, questi espedienti si rivelano solo dei palliativi, dei rifugi precari, e nessuna di queste strategie è capace di risolvere il problema fondamentale della morte, il quale risiede nell’afferrarsi illusorio all’idea di un Sé permanente e autosufficiente al centro di un universo di affetti e certezze altrettanto permanenti e certi.
Da una prospettiva dhammica, il dukkha connesso ad invecchiamento e morte è una ‘sovrastruttura psicologica’ che trova il suo fondamento nell’afferrarsi agli aggregati psicofisici nei termini di un Io e Mio statici, non soggetti cioè alla naturale legge del cambiamento; in altre parole, ciò che trasforma eventi quali il decadimento e la morte in fonti di sofferenza ed angoscia è l’ignoranza della natura impermanente della nostra esistenza, la non accettazione, il rifiuto, a livello subconscio, della fine di tutto ciò che è sorto, nato e prodotto:
«Jarādhammānaṃ…Maraṇadhammānaṃ, bhikkhave, sattānaṃ evaṃ icchā uppajjati ‘aho vata mayaṃ na jarādhammā ….maraṇadhammā assāma, na ca vata no jarā…no maraṇaṃ āgaccheyyā’ti. Na kho panetaṃ icchāya pattabbaṃ, idampi yampicchaṃ na labhati tampi dukkhaṃ.»
«Monaci, a quegli esseri soggetti a decadimento e morte, sorge un tale desiderio : ‘Che noi si possa non essere soggetti al decadimento e la morte, che decadimento e morte non sopraggiungano per noi!’ Ma tale desiderio non può essere realizzato. Perciò, non ottenere ciò che si desidera è dukkha. »
-Mahāsatipaṭṭhānasutta
A tal proposito, Ñāṇavīra Thera scrisse:
«Il Puthujjhana, prendendo come proprio Io ciò che meramente appare come tale, è incapace di comprendere di essere vittima dell’afferrarsi all’Io; Egli è incapace di comprendere che il suo esistere dipende dall’afferrarsi all’idea del Sé (upādāna paccayā bhavo), non riuscendo a comprendere che nascita e morte* dipendono da questo suo pensare di ‘essere un Io’.
D’altro canto, l’Arahant è completamente libero del concetto di ‘essere un Sé’ o ‘Io’ separato e non pensa in termini di ‘Io sono’. questo è bhavanirodha, la cessazione dell’essere/divenire.
Non pensando nei termini di ”Io sono’ egli non pensa nemmeno nei termini di ‘Io nacqui’ né di ‘Io morirò’. In altre parole, egli non concepisce alcun ‘Sé’ o ‘Io’ ai quali associare i concetti di nascita e morte. questo è jāti·nirodhā jarāmaraṇaṃnirodha, la cessazione concettuale di nascita, invecchiamento e morte.»
*Dal punto di vista concettuale, soggettivo.
-Ñāṇavīra Thera, Clearing The Path, Pg.18
La strategia insegnata dal Buddha per trascendere il doloroso conflitto fra la nostra visione statica delle cose e la loro natura dinamica consiste nel prendere consapevolezza della natura impermanente, instabile, incerta dell’esistenza:
“Appamādo amatapadaṃ,
pamādo maccuno padaṃ;
Appamattā na mīyanti,
ye pamattā yathā matā.”
“L’attenzione è il sentiero della non morte,
La disattenzione è il sentiero della morte;
Colui il quale è attento non muore mai
Il disattento è di fatto già morto.”[1]
-Dhammapada
Note:
1: Questi versi hanno chiaramente un valore metaforico, dato che anche i Buddha e gli Arahant -persone sempre consapevoli per definizione- sono comunque soggetti alla morte, nel senso letterale del termine. Il sostantivo Pali amataṃ, il ‘senza morte’ è di solito impiegato per definire lo stato di Nibbana, l’emancipazione dalla sofferenza esistenziale:
“Tasmātihāvuso, evaṃ sikkhitabbaṃ: ‘dhammayogā samānā jhāyīnaṃ bhikkhūnaṃ vaṇṇaṃ bhāsissāmā’ti. Evañhi vo, āvuso, sikkhitabbaṃ. Taṃ kissa hetu? Acchariyā hete, āvuso, puggalā dullabhā lokasmiṃ, ye amataṃ dhātuṃ kāyena phusitvā viharanti.”
“Così, amici, dovreste esercitarvi: ‘Essendo monaci specialisti nello studio del Dhamma, noi parleremo in encomio dei monaci contemplativi.’ Così dovreste esercitarvi. Perché? Perché costoro sono persone stupende, difficili da trovare nel mondo, in quanto dimorano avendo toccano la sfera del ‘senza morte’ con il loro stesso corpo.”
-Cunda Suttam, AN 6,46.
Amataṃ dhātuṃ è la sfera del senza morte, ovvero il Nibbana, lo stato dove le categorie mentali di nascita e morte riferite ad un Sé o Io erroneamente immaginato sulla base degli aggregati psicofisici sono stati trascesi.
Kāyena phusitvā indica uno stato toccato o raggiunto (phusitvā) tramite questo corpo (kāyena), ovvero in questo momento presente, in questa vita, con un ovvio riferimento alla pratica di consapevolezza sui punti del corpo o Kāyagatāsati, una delle pratiche meditative per eccellenza dei contemplativi buddhisti:
“Sati kāyagatā upaṭṭhitā,
Chasu phassāyatanesu saṃvuto;
Satataṃ bhikkhu samāhito,
Jaññā nibbānamattano”ti.
“Ben radicato nella consapevolezza del corpo,
Praticando autocontrollo sui sei reami del contatto,
Quel monaco sempre raccolto,
Intento a realizzare la sua stessa emancipazione”
-Mahāmoggallānasutta, Ud. 3.5
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