«Tassa mayhaṃ bhikkhave, etadahosi: ‘kimhi nu kho sati upādānaṃ hoti? Kimpaccayā upādāna”nti. Tassa mayhaṃ bhikkhave, yoniso manasikārā ahu paññāya abhisamayo: ”taṇhāya kho sati upādānaṃ hoti. Taṇhāpaccayā upādāna”nti».
«E così a me fu: ‘con la presenza di cosa si manifesta l’afferrarsi? qual è la condizione per il sorgere dell’afferrarsi?’ e così, o monaci, attraverso l’attenzione portata all’origine, realizzai con saggezza: ‘essendoci la sete, l’afferrarsi si manifesta, la sete determina l’afferrarsi’».
Gotama Sutta
«Katamā ca, bhikkhave, taṇhā? Chayime, bhikkhave, taṇhākāyā—rūpataṇhā, saddataṇhā, gandhataṇhā, rasataṇhā, phoṭṭhabbataṇhā, dhammataṇhā. Ayaṃ vuccati, bhikkhave, taṇhā».
«E cos’è, o monaci, la sete? I sei tipi della sete: sete di oggetti visivi, sete di suoni, sete di odori, sete di sapori, sete di oggetti tangibili, sete di pensieri. Ciò, o monaci, è detta Sete».
Vibhaṅgasutta.
Definizione di Taṇhā:
Il termine Taṇhā, sovente tradotto con Desiderio, deriva dal corrispondente Sanscrito tṛṣṇā, traducibile con Sete, parente dell’Inglese Thirst, e del Latino torrĕo, torres, torrui, tostum, torrēre: disseccare, asciugare, inaridire, arrostire, abbrustolire, tostare, cuocere, ardere, bruciare.
Taṇhā è un stato di intenso desiderio, di impellenza, di arsura emotiva, la cui soddisfazione assume un carattere prioritario e assoluto.
La Taṇhā, nasce come reazione emotiva alle sensazioni, e rappresenta il desiderio di appropriarsi delle esperienze piacevoli, di respingere quelle sgradevoli e di ignorare ciò che non interessa;
Vi sono tre tipi di Sete: kāma-Taṇhā, bhava-Taṇhā, vibhava-Taṇhā: Sete di gratificazione sensoriale, Sete di esistere e Sete di non esistere; queste tre modalità rappresentano le tre diverse strategie adottate dall’ego al fine di convalidare la propria esistenza, di gratificare se stesso, di riaffermare la propria esistenza nel tempo, e di sfuggire a tutte quelle situazioni esistenziali sentite come dolorose, sgradevoli e perciò insoddisfacenti.
Questi tre tipi di Sete possono essere così sintetizzate: Sete di piacere: «Io voglio questo o quell’oggetto gratificante»; Sete di esistere: «Io voglio esistere, voglio essere così e cosa’, in eterno»; Sete di non esistere: «Io non voglio questa vita, voglio un’altra vita, diversa, migliore.»
La Sete come radice della sofferenza esistenziale: le Quattro Nobili Verità:
«Idaṃ kho pana, bhikkhave, dukkhaṃ ariyasaccaṃ—jātipi dukkhā, jarāpi dukkhā, byādhipi dukkho, maraṇampi dukkhaṃ, appiyehi sampayogo dukkho, piyehi vippayogo dukkho, yampicchaṃ na labhati tampi dukkhaṃ—saṃkhittena pañcupādānakkhandhā dukkhā».
«Questa o monaci, è la nobile verità circa la sofferenza: La nascita è dolorosa l’invecchiamento è doloroso, la malattia è dolorosa, la morte è dolorosa, sottostare a ciò che non si ama è doloroso, separarsi da ciò che si ama è doloroso, non ottenere ciò che si desidera è doloroso, I cinque aggregati soggetti all’afferrarsi nel loro complesso sono dolorosi [1].»
«Idaṃ kho pana, bhikkhave, dukkhasamudayaṃ ariyasaccaṃ—yāyaṃ taṇhā ponobbhavikā nandirāgasahagatā tatratatrābhinandinī,seyyathidaṃ—kāmataṇhā, bhavataṇhā, vibhavataṇhā».
«Questa però o monaci è la verità sull’origine della sofferenza: È proprio quella sete conducente a nuova esistenza, che connessa al godimento ed alla passione, ricerca godimento qua e là, ovvero la sete di piacere sensuale, la sete di esistenza, la sete di non esistenza».
«Idaṃ kho pana, bhikkhave, dukkhanirodhaṃ ariyasaccaṃ—yo tassāyeva taṇhāya asesavirāganirodho cāgo paṭinissaggo mutti anālayo.
«Questa è però, o monaci, la nobile verità sulla cessazione della sofferenza: La completa scomparsa e cessazione di quella Sete, la sua fine, il suo abbandono e rigetto, la liberazione e l’indipendenza da essa».
«Idaṃ kho pana, bhikkhave, dukkhanirodhagāminī paṭipadā ariyasaccaṃ— ayameva ariyo aṭṭhaṅgiko maggo, seyyathidaṃ—sammādiṭṭhi … pe … sammāsamādhi.»
«E questa è, o monaci, la nobile verità circa il sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza, ovvero il Nobile ottuplice sentiero: Giusta comprensione, giusta intenzione, giusta parola, giusto agire, giusti stili di vita, giusto sforzo, piena consapevolezza e pieno raccoglimento.»
Dhammacakkappavattanasutta, SN 56.11
***
Secondo la psicologia buddhista, Taṇhā è lo strumento attraverso il quale l’individuo pienamente identificato con il proprio Io o Sé – afflitto dalla fatica del vivere e dalla sofferenza fisica e psicologica – cerca di scalzare tale sofferenza sperando di ottenere benessere e soddisfazione; Non conoscendo altro modo per poterci liberare dalla sofferenza, quando veniamo colpiti da una o l’altra forma di sofferenza, ci rifugiamo nel piacere sensuale, nel desiderio di essere qualcosa di meglio rispetto a quello che siamo o di non esistere affatto, di annichilirci per non sentire più niente; Questo processo è spiegato magistralmente nel Sallasutta, il Discorso Sulle Due Frecce:
«Tassāyeva kho pana dukkhāya vedanāya phuṭṭho samāno paṭighavā hoti. Tamenaṃ dukkhāya vedanāya paṭighavantaṃ, yo dukkhāya vedanāya paṭighānusayo, so anuseti. So dukkhāya vedanāya phuṭṭho samāno kāmasukhaṃ abhinandati. Taṃ kissa hetu? Na hi so, bhikkhave, pajānāti assutavā puthujjano aññatra kāmasukhā dukkhāya vedanāya nissaraṇaṃ».
«Allorquando egli viene toccato da una sensazione dolorosa, in lui sorge l’avversione verso tale esperienza; Provando avversione verso quella sensazione dolorosa, in lui si sviluppa la tendenza subconscia all’avversione verso le sensazioni dolorose; Essendo colpito da una sensazione dolorosa, egli cerca godimento nei piaceri sensuali. E per quale ragione? Perché l’inesperto uomo comune non conosce altra via d’uscita dalle sensazioni dolorose che il piacere dei sensi».
«tassa kāmasukhañca abhinandato, yo sukhāya vedanāya rāgānusayo, so anuseti. So tāsaṃ vedanānaṃ samudayañca atthaṅgamañca assādañca ādīnavañca nissaraṇañca yathābhūtaṃ nappajānāti».
«E nel godere del piacere dei sensi, in lui si sviluppa la tendenza subconscia alla passione per le sensazioni piacevoli, essendo egli incapace di comprendere per come realmente sono il sorgere, lo svanire, i benefici, gli svantaggi e l’emancipazione da tali sensazioni».
«Tassa tāsaṃ vedanānaṃ samudayañca atthaṅgamañca assādañca ādīnavañca nissaraṇañca yathābhūtaṃ appajānato, yo adukkhamasukhāya vedanāya avijjānusayo, so anuseti».
«Ed in lui che è incapace di comprendere per come realmente sono il sorgere, lo svanire, i benefici, gli svantaggi e l’emancipazione da tali sensazioni, si sviluppa la tendenza subconscia all’ignoranza in riguardo alle sensazioni neutre».
«So sukhañce vedanaṃ vedayati, saññutto naṃ vedayati. Dukkhañce vedanaṃ vedayati, saññutto naṃ vedayati. Adukkhamasukhañce vedanaṃ vedayati, saññutto naṃ vedayati. Ayaṃ vuccati, bhikkhave, ‘assutavā puthujjano saññutto jātiyā jarāya maraṇena sokehi paridevehi dukkhehi domanassehi upāyāsehi, saññutto dukkhasmā’ti vadāmi».
«Sperimentando una sensazione piacevole, egli la sperimenta con attaccamento; Sperimentando una sensazione dolorosa, egli la sperimenta con attaccamento; Sperimentando una sensazione né dolorosa né piacevole, egli la sperimenta con attaccamento; Questo o monaci, è detto ‘l’inesperto uomo comune attaccato alla nascita, ad invecchiamento, morte, alla pena, al lamento, alla sofferenza, al dolore ed alla disperazione’; Attaccato al Dukkha, Io vi dico».
Sallasutta, Sn 36.6
Ma per quale ragione Il Buddha ha indicato la sete come causa della sofferenza?
La sete di piacere sensuale, così come la sete di esistere o di non esistere sono associate alla ricerca della felicità e del benessere: il desiderio di beni materiali, di un esistenza migliore o di annullare se stessi nell’oblio dei sensi sono la triplice strategia adottata dall’ego al fine di ottenere gratificazione e quindi felicità al posto della sofferenza e del dolore; desideriamo tutto ciò per essere felici.
Tuttavia, la sete ha come fondamento l’avijja, l’ignoranza della natura instabile, incerta, mutevole e strutturalmente incapace di produrre quella felicità duratura che noi proiettiamo sui fenomeni desiderati.
Nel momento in cui la vera natura delle cose si palesa, quando cioè il fenomeno perde quelle caratteristiche che lo rendevano ai nostri occhi un oggetto attraente, o quando la nostra stessa percezione delle cose cambia, allora sperimentiamo la disillusione e la conseguente frustrazione prodotta dal tradimento delle nostre aspettative di felicità; Questo stato di cose è detto sofferenza del cambiamento o Vipariṇāma Dukkha. In questo modo, la sofferenza del cambiamento si va a sovrapporre alla sofferenza fisiologica che proviamo allorché toccati da situazioni o eventi di per se dolorosi come la malattia o la separazione da ciò che amiamo, il Dukkha-dukkha.
In altre parole, la sofferenza di cui parla il Buddha nella prima nobile verità nasce dal conflitto fra le nostre aspettative di felicità duratura e gratificazione e la realtà mutevole, contingente, per natura caduca ed insoddisfacente delle cose. Tale frizione fra ciò che noi vorremmo e la realtà delle cose è ciò che viene definito Dukkha, sofferenza esistenziale.
Desideriamo vivere, bramiamo la salute e aborriamo l’idea della malattia, dell’invecchiamento e della morte, nostre o dei nostri cari; Desideriamo stare con le persone che amiamo e detestiamo dover stare con persone o in situazioni a noi sgradite; Vogliamo possedere cose o fare delle esperienze speciali, ma non sempre le cose vanno come noi vorremmo, e ci attacchiamo al nostro essere, al corpo, alla mente o ai sentimenti in cerca di sicurezza e soddisfazione, e nel fare ciò siamo totalmente inconsapevoli della natura instabile delle cose a cui ci attacchiamo in cerca di soddisfazione e stabilità.
L’ignoranza o cecità su cui si fonda la sete ci impedisce di vedere la natura incerta che caratterizza tutti i fenomeni e cristallizza ciò che è per natura dinamico in una serie di eventi erroneamente percepiti come statici e perciò affidabili nella nostra disperata ricerca della felicità.
Sulla base di questo fraintendimento della realtà, prendiamo le cose in maniera personale, afferrandoci al nostro corpo e/o alla mente ed identificandoci con essi in termini di Io e mio (Bhava), e ciò determina l’angoscia esistenziale e la paura dell’invecchiamento e della morte, che in ultima istanza determinano il manifestarsi della sofferenza relativa a ciò che esiste come prodotto precario di cause e condizioni, il Sankhara-dukkha.
Riassumendo, il problema della sofferenza esistenziale è determinato da un fraintendimento radicale della reale natura dei fenomeni percepiti, e non dai fenomeni in sé; Non sono, in altre parole, l’invecchiamento, la malattia o la morte il problema ma il nostro modo di relazionarci ad esse.
Per questa ragione la possibilità di emanciparsi dal doloroso condizionamento della sete è legata alla coltivazione del sentiero di liberazione che ha come suo primo fondamentale elemento la corretta visione delle cose, Il samma ditthi.
Desiderio naturale e Sete
Tuttavia, è necessario operare un’importante distinzione fra il desiderio in quanto impulso naturale e fisiologico alla sopravvivenza e la sete o bramosia che è causa di sofferenza: Il desiderio per il cibo e per il sesso sono infatti fattori del tutto normali e congeniti alla condizione di essere umano; Tutti gli esseri viventi sperimentano tali desideri come un fatto inalienabile del loro stesso esistere;
La sete di cui parla il Buddhismo è una sorta di sovrastruttura psicologica che trova il suo fondamento nell’idea erronea che possedendo qualcosa o divenendo qualcuno si possa raggiungere finalmente la tanto agognata soddisfazione duratura e con essa una felicità affidabile e duratura. In altre parole, la sete è il correre spasmodicamente dietro i desideri in cerca di soddisfazione.
Questi due fenomeni, il Desiderio naturale congenito e la Sete sovrastrutturale sono certamente correlati, ma tuttavia non sono la stessa cosa e devono essere accuratamente distinti l’uno dall’altra; Il Buddhismo non ha nulla a che vedere con il puritanesimo e l’ascetismo che nega le naturali esigenze del corpo.
Come spiegato nel Sallasutta, anche i Buddha e gli Arahant sperimentano sensazioni piacevoli e spiacevoli, ma la differenza fra coloro i quali si sono emancipati dal condizionamento e le persone comuni non ancora emancipate sta nel modo in cui i primi si relazionano alle sensazioni; i Buddha e gli Arahant provano sensazioni piacevoli e dolorose come tutti, ma senza farsi travolgere da esse, senza cioè permettere che in loro si inneschino le reazioni emotive di bramosia, avversione ed indifferenza:
«Il saggio non sperimenta alcuna felicità o sofferenza ,
essendo egli ben istruito;
Questa è la grande differenza fra il Saggio
e l’inesperto uomo comune».
-Sallasutta
Di fatto, lo stato mentale che ispira la vita del genuino praticante è quello di chi da un lato ha compreso il ruolo fondamentale del desiderio naturale nella vita di ciascun essere, e dall’altro ha realizzato che il rincorrere la gratificazione è un esercizio sterile e frustrante, ed anche qualora questo desiderio venisse soddisfatto, la gratificazione e la felicità ottenute sarebbero di breve durata ed in ultima analisi insoddisfacenti.
Cercare di ottenere gratificazione e benessere rincorrendo i desideri è come cercare di dissetarsi dall’arsura bevendo acqua salata: una tentativo maldestro, frutto dell’ignoranza della realtà delle cose, che in ultima analisi avrà come risultato ancora più sete ed ancora più frustrazione.
Note:
1: “la nascita è dolorosa…il non avere ciò che si desidera è doloroso…” In questo contesto, il termine dukkha è usato in qualità di aggettivo anziché di sostantivo: la traduzione: “la nascita è sofferenza/dolore” (sostantivo) è quindi errata. Nella grammatica Pali e sanscrita, l’aggettivo si accorda sempre con il numero (singolare o plurale), il genere (maschile, neutro o femminile), ed il caso (accusativo, ablativo, nominativo etc.) del sostantivo a cui si accompagna.
In questo caso specifico, il fatto che si tratti di un aggettivo è facilmente riscontrabile da una semplice osservazione delle declinazioni dei nomi e dalle desinenze, qui evidenziate con diversi colori ed in grassetto:
«Idaṃ kho pana, bhikkhave, dukkhaṃ ariyasaccaṃ—/jātipi dukkhā/, /jarāpi dukkhā/, /byādhipi dukkho/, /maraṇampi dukkhaṃ/, /appiyehi sampayogo dukkho/, /piyehi vippayogo dukkho/, /yampicchaṃ na labhati tampi dukkhaṃ/—/saṃkhittena pañcupādānakkhandhā dukkhā/.»
A questo proposito, Thanissaro Bhikkhhu scrive:
Pain: dukkha. The basic everyday meaning of the word dukkha as a noun is “pain” as opposed to “pleasure” (sukha). These, with neither-dukkha-nor-sukha, are the three kinds of feeling (vedanā) (e.g., S iv 232). S v 209-10 explains dukkha vedanā as pain (dukkha) and unhappiness (domanassa), i.e., bodily and mental dukkha. This shows that the primary sense of dukkha, when used as a noun, is physical “pain,” but then its meaning is extended to include mental pain, unhappiness. The same spread of meaning is seen in the English word “pain,” for example in the phrase, “the pleasures and pains of life.” That said, the way dukkha is explained in this discourse shows that it is here “pain” in the sense of “the painful”, that which is painful, i.e. which brings pain, whether in an obvious or subtle sense.
Painful:dukkha as an adjective refers to things which are not (in most cases) themselves forms of mental or physical pain, but which are experienced in ways which bring mental or physical pain. When it is said “birth is painful” etc, the word dukkha agrees in number and gender with what it is applied to, so is an adjective. The most usual translation “is suffering” does not convey this. Birth is not a form of “suffering,” nor is it carrying out the action of “suffering,” as in the use of the word in “he is suffering.”
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