Vibhavataṇhā, la sete di non esistenza.
«Idaṃ kho pana, bhikkhave, dukkhasamudayaṃ ariyasaccaṃ—yāyaṃ taṇhā ponobbhavikā nandirāgasahagatā tatratatrābhinandinī,seyyathidaṃ—kāmataṇhā, bhavataṇhā, vibhavataṇhā».
«Questa però o monaci è la verità sull’origine della sofferenza: È proprio quella sete conducente a nuova esistenza, che connessa al godimento ed alla passione, ricerca godimento qua e là, ovvero la sete di piacere sensuale, la sete di esistenza, la sete di non esistenza».
Dhammacakkappavattanasutta, SN 56.11
Secondo gli insegnamenti buddhisti, vi sono tre forme o tipi di desiderio o sete; sete di gratificazione sensoriale, sete di esistere e sete di non esistere (vibhavataṇhā);
In questo post tratteremo specificamente del terzo tipo di sete, quella di non esistere; Il termine pāli vibhava, è spesso tradotto in maniera letterale come ‘non essere’,‘non esistere’ o più liberamente come ‘annichilimento di sé’ .
In accordo alla psicologia del Dharma, l’individuo afferra come il proprio Io o Sé ciò che in realtà è nella natura del non-sé.
In questo contesto, il concetto di non-sé sta ad indicare l’assenza di dominio o padronanza sugli elementi che costituiscono la nostra realtà esistenziale, ovvero i cinque aggregati: materia, sensazioni, riconoscimento, costruzioni (intenzioni) e cognizione soggettiva (Io sono); Questi cinque aggregati, detti anche i cinque aggregati base dell’afferrarsi, sono ciò che costituisce l’esperienza in divenire che la mente ottenebrata dall’ignoranza percepisce erroneamente come la propria esistenza oggettiva (bhava).
Nell’afferrare i cinque aggregati -la cui vera natura è il non-sé– come il proprio Io, l’individuo sperimenta frustrazione ed insoddisfazione (dukkha), e ciò è dovuto proprio al fraintendimento della realtà determinato dall’ignoranza o Avijja.
Provando insoddisfazione verso la sua presunta esistenza (Io sono), egli è tentato dall’idea del non essere (Vibhava), concetto opposto e speculare all’essere (bhava). In altre parole, egli è attratto dall’idea di non essere ciò che in realtà egli già non è.
Si tratta quindi di un non essere, qualcuno o qualcosa, fittizio ed illusorio, che non risolve il problema fondamentale dell’esistenza (bhava)[1] alla base del dukkha, in quanto ne rappresenta meramente una negazione egoica: l’Io che afferma: ‘Io non voglio questa esistenza, né voglio un’altra, migliore’.
Il problema sta proprio nell’afferrare ciò che uno già non è come il proprio Io, per poi ripudiarlo, in vista di un Io sono migliore, più soddisfacente ed allettante.
In questo modo, ogni tentativo di non essere, si trasforma in un’ennesima affermazione del proprio Io o Sé illusorio, in altre parole, un nuovo essere (Io sono colui/colei che non vuole essere).
Tale tentativo di liberarsi dell’essere attraverso il non essere non si fa altro che rinforzare ancor di più le catene dell’essere (bhava), dell’esistenza condizionata, conditio sine qua non per il manifestarsi della sofferenza esistenziale, nella sua triplice dimensione di tristezza e lamento (sokaparideva), sofferenza psicofisica (dukkhadomanassa) ed angoscia (upāyāsā) :
Nel contesto dell’Origine Dipendente, con soka-parideva-dukkha-domanassa-upāyāsā si intendono la pena, l’angoscia, il dolore somatico, la sofferenza psicologica e l’afflizione interiore in riguardo alla propria esistenza, ovvero, quella sofferenza che inevitabilmente si presenterà con l’approssimarsi dell’invecchiamento e della morte, sofferenza legata alla consapevolezza di non poter governarne questi eventi fondamentali:
«Jarādhammānaṃ…Maraṇadhammānaṃ, bhikkhave, sattānaṃ evaṃ icchā uppajjati ‘aho vata mayaṃ na jarādhammā ….maraṇadhammā assāma, na ca vata no jarā…no maraṇaṃ āgaccheyyā’ti. Na kho panetaṃ icchāya pattabbaṃ, idampi yampicchaṃ na labhati tampi dukkhaṃ.»
«Monaci, a quegli esseri soggetti al decadimento e alla morte, sorge un tale desiderio : ‘Che noi si possa non essere soggetti al decadimento e la morte, che decadimento e morte non sopraggiungano per noi!’ Ma tale desiderio non può essere realizzato. Perciò, non ottenere ciò che si desidera è dukkha. »
-Mahāsatipaṭṭhānasutta
I seguenti versi tratti da I Discorsi Brevi del canone Pali rendono plasticamente la natura circolare e viziosa del desiderio di non essere:
«Ye hi keci samaṇā vā brāhmaṇā vā bhavena bhavassa vippamokkhamāhaṃsu, sabbe te avippamuttā bhavasmā’ti vadāmi»;
«Ye vā pana keci samaṇā vā brāhmaṇā vā vibhavena bhavassa nissaraṇamāhaṃsu, sabbe te anissaṭā bhavasmā’ti vadām.»
«Tutti quegli asceti e bramini i quali affermano la liberazione dall’essere per mezzo dell’essere, in realtà non sono affatto liberi dall’essere»;
«Ed anche tutti quegli asceti e bramini i quali propongono l’emancipazione dall’essere attraverso il non essere, nessuno di loro è emancipato dall’essere.»
Lokasutta, Ud.3.10
La soluzione proposta dal Buddha a questo apparente dilemma consiste nell’abbandono dell’essere (bhavanirodho) –il che vuol dire smetter di alimentare il processo creativo alla base del Sé[2]- cosa che può avvenire solo comprendendo che ciò che viene afferrato come il proprio Sé o Io è in realtà nella natura del non-sé.
Note:
1:Bhava o esistenza indica il senso di ‘Io sono X’ e come tale deve essere inteso nella sua valenza astratta, concettuale, soggettiva (la mia esistenza), non nel senso letterale di esistere, vivere. In senso letterale, ordinario, Il Buddha, perlomeno fino alla morte (sic!), era certamente un essere senziente e quindi ‘esistente’, ma tuttavia libero dai vincoli esistenziali dell”Io sono’.
2: l’afferrarsi al Sé o Upādāna, definito dai commentari come Kammabhava, il processo costituente l’esistenza condizionata. Significativamente, il termine Upādāna ha la doppia valenza di ‘attaccamento’ ed ‘ alimento’.
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