La funzione dell’etica nel sentiero Buddhista
Nell’ambito del sentiero buddhista, la funzione primaria dell’etica è quella di creare le condizioni idonee alla comprensione della realtà dell’esistenza. I fattori etici del Nobile Ottuplice Sentiero si sviluppano sulla base della corretta comprensione e della corretta intenzione, i primi due fattori del sentiero.
La risoluzione deliberata di astenersi da certe attività deve essere inquadrata nell’ambito della prospettiva di una graduale eliminazione delle cause della sofferenza, a livello personale, relazionale e sociale; perciò, l’etica buddhista non è fine a se stessa, ma puramente teleologica, avendo uno scopo (la liberazione) ben definito. Il carattere pedagogico dell’etica è mirabilmente espresso nel Kimatthiya sutta:
«Qual è lo scopo, o Signore, e qual è il beneficio dell’etica?».
«L’assenza di rimorso».
«Ma Signore, qual è lo scopo, e qual è il beneficio dell’assenza di rimorso?».
«La contentezza».
«Ma Signore, qual è lo scopo, e qual è il beneficio della contentezza?».
«La gioia».
«Ma Signore, qual è lo scopo, e qual è il beneficio della gioia?».
«La quiete».
«Ma Signore, qual è lo scopo, e qual è il beneficio della quiete?»
«Il benessere».
«Ma Signore, qual è lo scopo, e qual è il beneficio del benessere?».
«Il raccoglimento».
«Ma Signore, qual è lo scopo, e qual è il beneficio del raccoglimento?».
«Conoscenza e visione delle cose per come sono realmente sono».
«Ma Signore, qual è lo scopo e il beneficio di conoscenza e visione delle cose per come sono realmente?»
«Disincanto e assenza di attaccamento».
«Ma Signore, qual è lo scopo, qual è il beneficio di disincanto e assenza di attaccamento?»
«Conoscenza e visione della liberazione».
Sesso e Dharma: la concezione etica della sessualità nel buddhismo delle origini
Come già accennato, la funzione dell’etica (sīla) è di abbandonare tutte quei comportamenti potenziali causa di sofferenza, per se stessi e per gli altri; Il termine Pali sīla infatti vuol dire ‘argine’; il sīla costituisce una barriera protettiva costruita al fine di impedire il prodursi di effetti deleteri, risultato di attività e comportamenti malsani.
Per quanto riguarda la sfera della sessualità, tutte quelle pratiche causa di sofferenza per chi le compie e per le altre persone coinvolte sono da considerate dall’etica Dharmica come inappropriate (akusala).
In riguardo ai precetti etici buddhistici, bisogna sempre tenere a mente che non si tratta di comandamenti divini ma di addestramenti graduali (sikkhapada) e come tali, da praticare intelligentemente, senza dogmatismi antistorici e fuori contesto, privilegiando una comprensione psicologica a un’interpretazione meramente legalistica.
Le principali forme di attività sessuale scorretta sono: tradimento, pedofilia, incesto, stupro e il sesso con minori sotto la tutela legale di un maggiorenne; anche il sesso con persone poste sotto la tutela legale della legge (e quindi prive di libertà decisionale) come i carcerati, o con persone che hanno ricevuto l’ordinazione monastica sono considerati comportamenti non appropriati.
Degno di nota è il fatto che nella lista della pratiche sessuali improprie non vi sia alcun riferimento all’omosessualità:
«In questo modo uno si comporta scorrettamente in riguardo ai piaceri sensuali: intrattenendo rapporti sessuali con chi si trova:
1) sotto la tutela di madre,
2) sotto la tutela del padre,
3)sotto la tutela di padre e madre,
4)sotto la tutela di un fratello maggiore,
5) sotto la tutela di una sorella maggiore,
6)la tutela di altri familiari,
7) sotto la tutela del clan di appartenenza,
8) sotto la tutela del Dhamma (monaci, monache),
9) sotto la tutela del coniuge,
10) con chi [per tale rapporto sarebbe soggetto] a punizione da parte della legge,
11) con chi ha già ricevuto la ghirlanda di fiori [simbolo del fidanzamento n.d.t].»
-AN10.211
Come abbiamo visto, nel vasto repertorio delle scritture attribuite al Buddha non vi è alcuna censura dell’omosessualità; vi è un solo passaggio criptico, il cui significato è oggetto di controversie, contenuto nel Cakkavatti-sihanada Sutta:
«Monaci, fra coloro i quali la lunghezza della vita sarà di 500 anni, tre cose incrementeranno: 1)passione contro natura (incesto), libido disarmonico e pratiche erronee.»
Questo Sutta è un testo a carattere mitologico in cui è presente una sorta di profezia dal sapore vagamente apocalittico sulla degenerazione della società umana, degenerazione che continuerà fino all’arrivo del Buddha del futuro Maitreya, (la versione tardo buddhista del Dio indo-persiano Mitra), il quale discenderà sulla terra per esporre nuovamente il Dharma.
Secondo il commentatore Buddhaghosa, con ‘micchādhammo’ si intenderebbe l’omosessualità, ma in realtà non vi è alcuna prova che questa sua interpretazione sia corretta. I testi canonici buddhisti ci informano che l’omosessualità era certamente diffusa ai tempi del Buddha, che però non la considerava in contrasto con la pratica del Dharma.
Il fatto che alcuni esponenti di certe scuole buddhiste sorte successivamente considerino l’omosessualità come contraria al Dharma, è dovuto a sviluppi dottrinali successivi, determinati probabilmente dall’incontro-scontro con culture straniere come quella greca, diffusasi nel nord est dell’India a seguito della spedizione guidata da Alessandro Magno, e viste da certi esponenti del tardo buddhismo indiano come i Mulasarvastivadin (responsabili della diffusione del lignaggio dell’ordinazione monastica in Tibet), come pratiche «di popoli stranieri».
Sull’identità di genere: chi erano i Paṇḍaka ?
All’epoca del Buddha esisteva una categoria di individui noti per i loro comportamenti eclettici, spesso sopra le righe, chiamati ‘paṇḍaka’, termine intraducibile con il quale venivano indicate quel tipo di persone dai connotati e comportamenti sessuali ambigui, non conformi alle norme morali comunemente accettate in India in quell’epoca; Il termine stesso è ambiguo: secondo il monaco australiano S. Dhammika, il termine deriverebbe da ‘apa’ + ‘aṇḍa’, dove ‘apa’ sta per ‘soppresso’, ‘abrogato’, e ‘aṇḍa’, (uova) per ‘testicoli’; quest’ultimo termine è probabilmente imparentato con il greco andros, ‘uomo’, ‘maschio’.
Un paṇḍaka sarebbe un individuo ‘senza testicoli’ o ‘a cui sono stati rimossi i testicoli’, definizione che ovviamente lascia ampio spazio per una varietà di interpretazioni differenti, a seconda che questo termine venga inteso in senso letterale o astratto.
Alcuni studiosi asseriscono che i paṇḍaka non fossero altro che eunuchi; altri studiosi ipotizzano che si trattasse di travestitismo, di transessualità o ermafroditismo, di persone dall’aspetto androgino o semplicemente di omosessuali con una forte caratterizzazione femminile dediti al libertinaggio.
Probabilmente, i paṇḍaka rientravano in più di una di queste categorie moderne. Tentare di incasellare concetti e termini di un’antica cultura molto diversa dalla nostra in schemi di pensiero moderni è sempre un azzardo, e non di rado ciò comporta fraintendimenti dolorosi e confusione senza fine. Per questa ragione, sarebbe preferibile cercare di comprendere il senso di tali termini e concetti partendo dal contesto originario. Il Vinaya Atthakathā, un commentario ai testi sulla disciplina descrive cinque tipologie di paṇḍaka:
1) āsitta-paṇḍaka: «spruzzato» : un uomo che trae piacere sessuale nel praticare sesso orale ad un altro uomo portando quest’ultimo all’orgasmo.
2) usūya-paṇḍaka: un voyeur, un uomo che trae godimento nel guardare altre persone fare sesso.
3) opakkamika-paṇḍaka: Un eunuco, un uomo castrato.
4) pakkha-paṇḍaka: un «part time», uno che adotta certi comportamenti solo in determinate occasioni.
5) napuṃsaka-paṇḍaka: un uomo privo dei connotati e degli organi sessuali maschili; da na-puṃsa «senza pudenda».
Di questi cinque, solo i primi due possono essere ammessi nell’ordine monastico, mentre è precluso ai tipi 3, 4, e 5. Da questa fondamentale distinzione, possiamo dedurre che l’accesso all’ordinazione monastica non è affatto precluso agli omosessuali, ma solo a certi tipi di individui il cui comportamento, così improntato all’edonismo, poco si accorda con lo stile di vita dei monaci celibi.
In merito, ancora S. Dhammika scrive:
«Evidentemente, un Paṇḍaka è un omosessuale o un omosessuale dai comportamenti eclettici. È probabile che gli antichi indiani non avessero ben chiaro le differenze tra ermafroditi, travestiti, transgender e intersessuali, fra eunuchi e omosessuali, e li considerassero tutti come una sola categoria di persone.
È anche probabile che essi non fossero consapevoli del fatto che molti, forse la maggior parte degli omosessuali, non differisce minimamente, in termini di comportamento, linguaggio e manierismo dagli eterosessuali, e di conseguenza considerassero gli omosessuali principalmente come uomini effeminati o donne mascoline, un equivoco ancora molto diffuso.
È probabile quindi che Paṇḍaka non significhi omosessuale, ma omosessuale effeminato, promiscuo, esibizionista. Se così fosse, la regola che vieta ai Paṇḍaka di diventare monaci non sarebbe dovuta alla loro attrazione verso persone dello stesso sesso, ma al fatto che la loro presenza potrebbe avere un’impatto deleterio all’interno di una comunità di soli uomini.
Gli omosessuali sono in grado di mantenere il celibato allo sesso modo e degli eterosessuali e quindi non esiste una valida ragione per cui dovrebbero essere esclusi dall’ordine monastico.»
In un’intervista radiofonica, Il venerabile Samanthabhadra Thera ha risposto così a due domande sulla questione LGBT e l’omosessualità fattegli da un’attivista per i diritti LGBT:
«La disforia di genere non è una malattia mentale. Come può una preferenza essere una malattia mentale? È un modo si sentire; nel momento in cui una persona inizia a pensare in maniera diversa, verrà attaccato dalla società; posso bere del Tè mentre mangio un panino (comportamento ritenuto bizzarro), perché non mi importa di cosa dice la società; allo stesso modo, chiunque nella società può scegliere di vivere liberamente; Il problema è che la sua indipendenza non è accettata dalla società. Ci sono alcune persone che la pensano diversamente da noi. È il loro gusto personale. Non possiamo giudicare.
«Il Buddhismo non condanna né approva l’omosessualità. Ad esempio, in alcuni paesi occidentali essa è accettata; di conseguenza, la riposta varia in accordo alla cultura di ciascun paese. E’ un problema culturale: In passato era ritenuta una malattia, oggi è semplicemente considerata una modalità di comportamento; penso che fra vent’anni vi sarà una maggiore apertura a livello mondiale. Comunque sia, visto che l’omosessualità è accettata in alcuni paesi, non si può dire che sia una cosa assolutamente negativa; dal punto di vista del Dharma, opporvisi sarebbe problematico.»
Nota conclusiva: il diniego di accesso all’ordine monastico per alcune categorie di individui non preclude in alcun modo l’ottenimento della liberazione dal dukkha, la sofferenza esistenziale, unico scopo della pratica del Dharma.
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