«Il Sentiero unidirezionale per la purificazione degli esseri, il superamento di tristezza e lamento, la pacificazione di dolore e sofferenza, il raggiungimento del giusto sentiero e la realizzazione della liberazione, è quello dei quattro fondamenti della consapevolezza.»
-Satipaṭṭhāna Sutta
COS’È LA CONSAPEVOLEZZA?
Il termine pali sati significa ‘ricordare’, vocabolo che nella nostra lingua vuol dire ‘riportare al cuore’; nel Buddhismo il cuore era considerato il fulcro dell’esperienza intellettuale ed emotiva, la sede della mente, e per questa ragione, l’atto di riportare qualcosa all’attenzione della mente era detto ri-cor-dare.
Tuttavia, quando si tratta di prestare attenzione a qualcosa che sta accadendo nel momento presente, parliamo di osservazione consapevole, attenzione o consapevolezza. Sati è così sinonimo di consapevolezza diretta, non mediata e priva di giudizi di ordine moralistico; ma tuttavia, è pur sempre consapevolezza di qualcosa a cui stiamo deliberatamente prestando attenzione.
COLTIVARE LA CONSAPEVOLEZZA
Il metodo per coltivare la consapevolezza è conosciuto con il nome di Satipaṭṭhāna, (Fondamenti della Consapevolezza); il termine deriva da upatṭhāna, traducibile come ‘stabilire (ṭhāna) all’interno (upa)‘, e sati, che come abbiamo già detto significa ricordo o nello specifico, consapevolezza, attenzione.
Il testo più importante per la pratica della consapevolezza è il Satipaṭṭhāna Sutta, il Discorso sui Fondamenti della Consapevolezza. In questo testo, l’addestramento graduale alla consapevolezza è suddiviso in quattro aspetti o aree, dal più grossolano al più sottile:
1. la consapevolezza relativa al corpo (kāyānupassanā),
2. la consapevolezza relativa alle sensazioni (vedanānupassanā),
3. la consapevolezza relativa alla mente (cittānupassanā),
4. la consapevolezza relativa ai fenomeni (dhammānupassanā).
Nella prima sezione, relativa all’esplorazione della corporeità, vengono proposti sei esercizi volti a favorire una comprensione intima della vera natura del nostro corpo, quali la consapevolezza del respiro, delle parti del corpo, la consapevolezza posturale (inclusa la meditazione camminata), la consapevolezza circa le attività, la consapevolezza degli elementi costituenti il corpo, e infine la consapevolezza relativa alla natura caduca del corpo umano.
Nella seconda sezione, l’attenzione viene posta sul dispiegarsi delle sensazioni – piacevoli, dolorose e indifferenti, nel momento presente, osservando il condizionamento prodotto sulla mente e sul comportamento da queste stesse sensazioni, grossolane (relative ai cinque sensi) e sottili (relative alla mente).
Nella terza sezione, quella dell’osservazione consapevole della mente, l’attenzione è posta sulla qualità affettiva del momento presente; in questa meditazione, impariamo a osservare gli stati mentali ed emotivi sorti sulla base dell’esperienze sensoriali, e come da essi dipenda l’esperienza di benessere o sofferenza, di pace o frustrazione che stiamo sperimentando nel qui ed ora.
L’ultima sezione, quella relativa ai dhamma, propone una serie di contemplazioni il cui scopo è accertare la vera natura dell’esistenza condizionata: fra gli esercizi proposti vi sono la contemplazione relativa ai cinque impedimenti fondamentali, i cinque aggregati psicofisici base dell’esistenza stessa, le sei basi sensoriali, le quattro nobili verità e i sette fattori di risveglio; in questi esercizi, il praticante è invitato ad osservare la presenza o meno di questi dhamma o elementi nel proprio continuum mentale, e a osservare come questi si formino, come persistano mutando e come infine svaniscano per via della loro stessa natura cangiante, allorché venute meno le cause della loro manifestazione.
LA GIUSTA CONSAPEVOLEZZA
La ‘Giusta Consapevolezza’ (Sammāsati) è attenzione rivolta a un contenuto fondata sulla ‘Giusta Comprensione’, (Sammādiṭṭhi), il primo elemento del Nobile Ottuplice Sentiero; in assenza di tale comprensione, si tratta meramente di attenzione. La consapevolezza è sempre consapevolezza di qualcosa, e come tale non esiste alcuna pura consapevolezza, non rivolta cioè, ad un contenuto.
Il Buddha definisce la giusta comprensione in questo modo:
«La conoscenza della sofferenza, dell’origine della sofferenza, della cessazione della sofferenza, del sentiero conducente alla cessazione della sofferenza: questa, o monaci, è chiamata giusta comprensione.»
La giusta comprensione dipende da due fattori importanti, uno interno e l’alto esterno:
«Vi sono due condizioni per il sorgere della giusta comprensione: un’esortazione altrui, e la corretta attenzione. Queste sono le condizioni per il sorgere della giusta comprensione.»
– Āsāduppajahavagga, AN 2, 126
La pratica della consapevolezza consiste perciò nel dirigere volontariamente l’attenzione verso qualcosa: il respiro, il movimento, le parti del corpo, le sensazioni, gli stati della mente e suoi i contenuti.
Nella psicologia buddhista, la consapevolezza è un fattore mentale concomitante che accompagna l’esperienza di un oggetto (coscienza); essa non può quindi esistere senza un oggetto di riferimento: sono consapevole di qualcosa, e quella consapevolezza dipende proprio dalla presenza di quel qualcosa. La consapevolezza è uno stato mentale condizionato e contingente, soggetto alla legge naturale del sorgere, persistere e svanire in accordo a cause e condizioni:
«In che modo uno è consapevole delle mente nelle mente? quando nella mente vi è passione, egli è consapevole che nella mente c’è passione. Quando nella mente non vi è passione, è consapevole che nella mente non c’è passione. Quando nella mente vi è avversione, è consapevole che nella mente c’è avversione. Quando nella mente non vi è avversione, è consapevole che nella mente non c’è avversione. Quando nella mente vi è ignoranza, è consapevole che nella mente c’è delusione. Quando nella mente non vi è ignoranza, è consapevole che nella mente non c’è delusione. Quando la mente è limitata, è consapevole che la mente è limitata. Quando la mente è agitata, è consapevole che la mente è agitata. Quando la mente è esaltata, è consapevole che la mente è esaltata. Quando la mente non è esaltata, è consapevole che la mente non è esaltata. Quando la mente è trascesa, è consapevole che la mente è trascesa. Quando la mente non è trascesa, è consapevole che la mente non è trascesa. Quando la mente è concentrata, è consapevole che la mente è concentrata. Quando la mente non è concentrata, è consapevole che la mente non è concentrata. Quando la mente è libera, è consapevole che la mente è libera. Quando la mente non è libera, è consapevole che la mente non è libera.
In questo modo, uno dimora contemplando la [natura della] mente nella mente in riguardo a se stesso, o dimora contemplando [la natura]della mente nella mente in riguardo alla mente altrui, oppure dimora contemplando [la natura] della mente nella mente, in riguardo alla propria e altrui mente; oppure, uno dimora contemplando il sorgere di uno stato mentale e il suo svanire, il sorgere e lo svanire della mente; così, la sua consapevolezza che «esiste la mente» viene mantenuta fino allo stato di più alta conoscenza e piena attenzione.»
-Mahāsatipaṭṭhānasutta, DN 22
RESILIENZA E RESISTENZA
Come possiamo notare dal testo sopracitato, le emozioni fanno parte della vita. Il punto della pratica è riconoscere cosa stiamo provando, e «mollare la presa», che in sostanza significa smettere di alimentare il circolo vizioso che ci porta a soffrire. Il lasciare andare avviene grazie alla comprensione della natura transitoria e dolorosa dell’attaccamento, e ciò è possibile tramite la coltivazione della consapevolezza.
Il lavoro sulle emozioni e il nostro agire nel quotidiano in un mondo fatto di eventi e relazioni, operano su due piani distinti ma collegati: dal punto di vista spirituale, coltiviamo l’arte della resilienza, lasciando andare ciò che è nocivo; dal punto di vista delle relazioni interpersonali e dell’impegno sociale, qualora ve ne fosse la necessità, andremo a lavorare su quegli aspetti del nostro stile di vita, delle relazioni eccetera, modificando nel concreto ciò che ci procura inutili stress e sofferenze. Per operare questo genere di cambiamento, una mente chiara e serena è certamente molto più adatta ed efficace di una mente dominata dalla paura e della rabbia.
LASCIARE ANDARE
Lasciare andare non significa indifferenza o apatia. Il lasciare andare è basato sulla comprensione della realtà, mentre l’indifferenza si fonda sulla rassegnazione; inoltre, meditare non significa arrestare i pensieri ma esattamente il contrario: lasciarli fluire, rimanendo tuttavia attenti e consapevoli.
Nella pratica della consapevolezza, l’attenzione rimane centrata, mentre i pensieri vanno e vengono. In meditazione, ci limitiamo a osservare il sorgere e lo svanire delle cose, cercando ci comprenderne altresì a natura fondamentale.
CHI ESERCITA LA CONSAPEVOLEZZA?
Essere consapevoli significa, essenzialmente, essere testimoni di quanto accade nel momento presente. Per fare ciò, abbiamo bisogno di imparare a focalizzare l’attenzione, anche attraverso tecniche di base quali la consapevolezza del respiro; una volta divenuti capaci di sostenere l’attenzione, potremo passare all’introspezione della mente, esplorandone la natura essenziale.
Spesso ci viene chiesto: se, in accordo al Buddhismo il sé sostanziale è un’illusione, chi esattamente sta praticando la consapevolezza?
La risposta a questa domanda è che dipende dal soggetto in questione: a questo proposito vi sono tre tipologie di individui:
1. la persona ordinaria (puthujjhana),
2. colui che entrato nella corrente del risveglio (sotāpanna, sekha),
3. Buddha e arahant.
1. Per una persona non ancora giunta alla piena maturazione spirituale, tutte le modalità di esperienza, consapevoli o meno, sono determinate dalla nozione fondamentale del sé; Il senso dell’sé è presente anche durante gli stadi di meditazione più avanzati, anche se non sempre evidente. Per lui, è il sé ( se stesso) che osserva, che é consapevole.
2. Anche coloro i quali sono entrati nella corrente del risveglio (sekha, sotapanna), percepiscono l’esperienza della consapevolezza da punto di vista di un sé sostanziale, ma tuttavia, posseggono un certo grado di comprensione della natura ingannevole di tale sé.
3.I Buddha e gli arahant, essendosi liberati dall’illusione di un sé sostanziale, sono in grado di esperire gli oggetti della realtà fenomenica in una modalità non determinata dal sé; per loro si tratta di pura attenzione.
In conclusione, vorrei citare le parole del venerabile Buddhadhasa in merito alla necessità di integrare la pratica del Dharma nella vita quotidiana:
«Non possiamo scappare dal Mondo; il Dhamma (pratica) è il rifugio per le persone che vivono nel Mondo. Non voglio che le persone abbandonino il mondo, voglio che vivano nel Mondo fruttuosamente, il più possibile senza sofferenza. Non occorre separare il Dhamma dalla vita quotidiana. Abbiate però consapevolezza e chiara comprensione (sati-Sampajañña) dell’azione senza agente. Ciò diverrà occasione per far crescere e sviluppare il Dharma. Questo è vivere normalmente e naturalmente nel ‘non-attaccamento’ e nel ‘non-essere’».
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