Il Kālāmāsutta spiegato da Buddhadasa Bhikkhu

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«Etha tumhe, kālāmā, mā anussavena, mā paramparāya, mā itikirāya, mā piṭaka­sam­padā­nena, mā takkahetu, mā nayahetu, mā ākāra­pari­vitak­kena, mā diṭṭhi­nij­jhā­nak­khan­tiyā, mā bhabbarūpatāya, mā samaṇo no garūti.»

«Ecco, Kālāmā, non per via della tradizione, dei lignaggi, del sentito dire, dei riferimenti testuali, del ragionamento logico, delle inferenze, né considerando le apparenze, il piacere e la predilezione verso un punto di vista, né perché appare plausibile, o per rispetto verso un monaco».

«Yadā tumhe, kālāmā, attanāva jāneyyātha: ‘ime dhammā kusalā, ime dhammā anavajjā, ime dhammā viññuppasatthā, ime dhammā samattā samādinnā hitāya sukhāya saṃvattantī’ti, atha tumhe, kālāmā, upasampajja vihareyyātha».

«Ma quando o Kālāmā, da voi stessi realizzerete: ‘queste pratiche sono salutari, [eticamente] irreprensibili, lodate dai saggi; queste pratiche, allorché realizzate e intraprese, conducono al benessere, alla felicità’, allora, voi, o Kālāmā, dimorerete praticando ciò.»

Kesamuttisutta, AN 3.65

 

Kālāmāsutta, aiutaci!

Buddhadasa Bhikkhu

 

Al giorno d’oggi, tutto il mondo, incluso i Thailandesi, si trova nella stessa situazione in cui si trovavano i Kālāmā, un popolo della regione Kesaputtanigama, al tempo di Buddha. Il loro villaggio era stato visitato da molti maestri religiosi. Ogni maestro aveva insegnato loro che la sua dottrina era la sola verità, e che tutti gli altri i quali erano venuti prima o dopo di lui non insegnavano la verità.

I Kālāmā non riuscivano a decidersi su quale dottrina accettare e seguire. Una volta anche il Buddha passò dal loro villaggio ed essi gli posero il problema: a quale maestro credere?

Così, il Buddha espose quello che ora è noto come il Kālāmāsutta, che esamineremo qui.

Oggigiorno, è possibile studiare molti approcci diversi circa lo sviluppo economico, sociale e tecnologico. Le università insegnano praticamente tutte le discipline. E per quanto riguarda la spiritualità, soltanto qui in Thailandia abbiamo una varietà di insegnanti e di interpretazioni degli insegnamenti del Buddha e così tanti centri di meditazione che nessuno sa quale accettare o quale pratica seguire.

Potremmo dire che oggi ci troviamo nella stessa situazione in cui si trovavano i Kālāmā. Il Buddha insegnò a loro, e a noi, di non accettare o credere immediatamente a qualsiasi cosa. Egli espose i dieci punti, al fine di metterci in guardia ed evitare di diventare intellettualmente schiavi di chiunque, anche del Buddha stesso. Questi principi ci aiuteranno a riconoscere gli insegnamenti che veramente hanno la capacità di placare la sofferenza (dukkha).

I dieci punti esposti dal Buddha nel kālāmāsutta sono i seguenti:

Mā anussavena : non accettare e non credere solo perché qualcosa è stato detto e ripetuto negli anni. Tale credulità è una caratteristica delle persone senza cervello, delle “teste di segatura” come quelli che a Bangkok una volta credevano che ci sarebbero stati disastri per le persone nate nell’anno “ma” (negli anni in cui si usava il calendario tradizionale Thai di dodici mesi , quelli dal quinto all’ottavo iniziavano per “ma”, ovvero piccolo serpente, grande serpente, cavallo e capra).

Mā paramparāya : non accettare e non credere soltanto perché una pratica è trasmessa da un lignaggio. Le persone tendono ad imitare quello che gli altri fanno e così diventa abitudine, come nella storia del coniglio spaventato da un frutto che cadde dall’albero. Gli altri animali lo videro correre a tale velocità così impaurito che anche loro si misero a correre con la stessa foga. Molti inciampando caddero e si ruppero il collo o caddero giù dal dirupo e morirono. Qualsiasi pratica Vipassanā fondata sull’imitazione degli altri, porterebbe a simili risultati.

Mā itikirāya: non accettare e non credere soltanto perché qualcuno lo ha sentito dire e lo divulga, non importa se nel villaggio o a livello mondiale. Solo gli stolti sono suscettibili a delle dicerie, perché si rifiutano di usare la loro intelligenza.

Mā piṭaka­sam­padā­nena: non accettare, non credere solo perché è citato in un “pitaka”. Questa parola è usata nelle scritture Buddhiste e significa “scritture”. I testi possono essere creati, migliorati e subire delle variazioni per mano dell’uomo, ed è per questa ragione che non possiamo credere ad ogni lettera e parola contenuta in essi. Dobbiamo usare la nostra capacità di discernimento per capire come applicare quelle parole al fine di placare la sofferenza. Le varie scuole Buddhiste hanno ognuna i propri canoni le quali presentano delle discrepanze.

Mā takkahetu: non accettare o credere soltanto perché qualcosa rientra nel ragionamento logico (takka). La logica è solamente una branchia del sapere usata per comprendere la verità. La Takka, ciò che chiamiamo “logica”, può essere sbagliata, se i dati o i metodi impiegati sono incorretti.

Mā nayahetu: non accettare soltanto perché una cosa sembra corretta secondo i canoni del naya (ragionamento deduttivo e induttivo). Oggi con naya si intende la“filosofia”. In Thailandia traduciamo la parola “filosofia” con la parola “prajna”, ma la cosa non è accettata in India perché per gli indiani “naya” è soltanto un punto di vista. Gli Indiani identificano il naya o inferenza con una modalità di ragionamento basato sulle supposizione o ipotesi, cosa diversa dalla saggezza assoluta, che essi chiamano “prajna” . La Naya può rivelarsi incorretta, se basata su supposizioni erronee.

Mā ākāra­pari­vitak­kena: non credere o accettare qualcosa meramente considerando le apparenze; questo modo di fare non fa altro che sciorinare giudizi basati sulle proprie tendenze di pensiero. Ci piace così tanto usare questo approccio, che diventa un’abitudine. I filosofi  hanno fatto ampio uso di questo metodo, da loro considerato parecchio efficace.

Mā diṭṭhi­nij­jhā­nak­khan­tiyā: non credere solamente perché qualcosa è contro o a favore delle opinioni e teorie formate dal preconcetto. I punti di vista personali potrebbero essere errati, oppure i nostri metodi di sperimentazione e verifica potrebbero essere incorretti, incapaci perciò di condurre alla verità. Accettare quello che si accorda alle nostre idee preconcette potrebbe sembrare un approccio scientifico, ma in realtà non potrà mai esserlo, perché i test e gli esperimenti sono inadeguati.

Mā bhabbarūpatāya: non credere soltanto appare credibile. Vi è un enorme differenza fra le apparenze esteriori e la realtà. Spesso, gli oratori che sembrano apparentemente credibili dall’esterno dicono cose incorrette e insensate. Oggigiorno, dobbiamo guardarci dai computer perché i programmatori che vi introducono i dati e li manipolano possono immettere le informazioni sbagliate o usarli scorrettamente. Non idolatrate così tanto i computer, perché è contro il principio del Kalama Sutta.

Mā samaṇo no garūti: non credere solo perché il samana, il monaco, l’oratore, è il ‘nostro maestro’. L’esortazione del Buddha riguardo a questo punto importante è di non diventare schiavi intellettuali di nessuno, neanche del Buddha stesso. Il Buddha ha sottolineato spesso questo punto importante, e ci sono stati discepoli, come il venerabile Sariputta, che hanno confermato questa pratica. Questi discepoli non accettavano le parole del Buddha senza averle verificate, ma solo dopo un’adeguata riflessione, e solo dopo aver testato quanto appreso nella pratica.

Usate il vostro discernimento; non è mai esistito un altro maestro al mondo che ha dato ai suoi discepoli una così grande libertà. Nel Buddhismo non vi sono dogmi, né si fanno pressioni a credere senza il diritto di aver prima esaminato e deciso da se stessi.

Questa è la qualità più grande e speciale del Buddhismo, che fa si che chi lo pratica non diventi intellettualmente succube di nessuno, come spiegato precedentemente.

 

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Lo stupa di Kesaria, Bihar, dove il Buddha tenne il Discorso ai Kālāmā.

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