Il linguaggio esoterico del primo buddhismo: La storia di Sāri­putta

sari
La grotta dove Sariputta praticava la meditazione a Rajagaha.

Sāri­puttat­thera­vatthu

(La storia del Venerabile Sāri­putta)

Assaddho akataññū ca
sandhicchedo ca yo naro;
Hatāvakāso vantāso,
sa ve uttamaporiso.

Chi è libero dalla fede cieca (Assaddho)[1], che conosce l’increato (akataññū) [2],
che ha sciolto i legami (sandhicchedo)[3], distrutto l’esistere, (Hatāvakāso)[4] 
e rigettato il desiderio (vantāso)[5],
Egli è invero una persona eccelsa.

Dhammapada, 97

La saggezza del Venerabile Sāriputta

Di fronte a trenta monaci della foresta venuti a rendere omaggio al Buddha, il Maestro chiese al Venerabile Sāriputta se egli credesse nel fatto che coltivare e sviluppare le cinque facoltà spirituali di fiducia, energia, consapevolezza, raccoglimento e saggezza – potesse culminare nella visione profonda e nell’immutabile (Nibbāna).  Sāriputta rispose che la sua non era una mera fede: avendo egli realizzato il Sentiero e i suoi frutti, non aveva bisogno di credere fideisticamente alle parole del Buddha. I monaci presenti, discutendo fra loro, giunsero alla conclusione che Sāriputta non avesse alcuna fede nel Buddha. Così, il Buddha spiegò loro che la risposta del venerabile Sāriputta era irreprensibile, poiché questi aveva realizzato l’insegnamento tramite la sua esperienza personale, senza bisogno di credere alle parola di un altro.

 

Note:

Se letto in maniera letterale, questo versetto potrebbe risultare scioccante, ma come spesso accade con le parole del Buddha, tutte le parole chiave del testo hanno un doppio significato, – letterale e metaforico-  spesse volte poco intellegibile ad una lettura superficiale.

 

1.Assaddho letteralmente significa “senza fiducia” (a-saddha), cioè un miscredente; in questo contesto, assume il significato di “uno che non è credulone”.

2.Akataññū significa “ingrato”, letteralmente, uno che non è conscio di ciò che è stato fatto per il suo bene; qui assume il senso di uno che conosce (aññū) ciò che non è creato (a-kata), il nibbāna.

3.Sandhicchedo significa “colui che taglia (cheda) le connessioni (sandhi), ovvero un ladro, ma qui sta ad indicare un Arahant che ha interrotto definitivamente il circolo vizioso dell’esistenza ciclica, avendo tagliato la connessione tra uno stato esistenziale ed un altro.

4. Hatāvakāso significa colui che ha distrutto (hata) la propria esistenza, ma qui si riferisce all’Arahant che ha distrutto tutti i risultati karmici futuri.

5. Vantāso: nella mitologia indiana, è il nome di una classe di spiriti famelici (peta) i quale si nutrono di vomito (vanta); in questo verso, con Vantāso si intende uno che ha completamente ‘vomitato’ o espulso la bramosia.

6. Uttamapuriso significa “il migliore fra gli individui (purisa)”, ma potrebbe anche significare “colui che pensa di essere superiore agli altri”, cioè una persona presuntuosa. Possiamo solo immaginare l’effetto scioccante che il verso ebbe sulle menti dei trenta monaci presenti, i quali nutrivano seri dubbi sul Venerabile Sāriputta, nel momento in cui questi intesero in senso letterale ciò che il Buddha stava dicendo:

“L’infedele, ingrato, furfante, ha rovinato la sua vita.
Mangia ciò che viene vomitato dagli altri, eppure pensa di essere superiore.”

 

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