“Due cose devono essere coltivate. Quali due? La calma dimorante e la visione Profonda.”
-Sangiti Sutta, D.N. 33
In questo post, parleremo dei differenti aspetti della pratica meditativa; per quanto riguarda la meditazione buddhista, vi sono cinque concetti da tenere a mente; essi sono:1: Bhāvanā, 2: Sati, 3: Jhāna, 4: Samādhi, 5:Vipassanā.
1: Bhāvanā
Il termine Bhāvanā, tradotto spesso con ‘meditazione’, indica il percorso di SVILUPPO interiore, la coltivazione del Dharma, e non solo la pratica della meditazione.
2: Satipaṭṭhāna
I Quattro fondamenti della consapevolezza (in pali Satipaṭṭhāna) sono la TECNICA, l’insieme dei metodi e degli oggetti di meditazione impiegati per sviluppare (Bhāvanā) la consapevolezza;
3: Jhāna
Jhāna deriva dalla radice verbale Jhay, che letteralmente significa ‘soffermarsi’, ‘dimorare’ o ‘focalizzare’ ed è l’ ESPERIENZA stessa della meditazione, lo stato meditativo a carattere progressivo che si sviluppa focalizzando la consapevolezza su un oggetto (rūpa) meditativo fra quelli esposti ne i Quattro fondamenti della consapevolezza.
Lungi dall’essere uno stato di concentrazione privo di consapevolezza, Il Jhāna è uno stato di consapevolezza ed equanimità (upekkhāsati) oltre le esperienze di dolore o felicità (adukkhaṃ asukhaṃ)
4: Samādhi
Termine spesso tradotto come ‘concentrazione’, deriva dalla radice verbale sam-a-dha, il tenere (dha) assieme (sam), ed indica l’UNIFICAZIONE della consapevolezza con l’oggetto di meditazione, uno stato di contemplazione profonda dove le varie fasi dell’esperienza meditativa (Jhāna) sono pienamente sviluppate e padroneggiate dal meditante. E’ sinonimo di Samatha.
5:Vipassanā
Vipassanā non è una tecnica di meditazione ma la visione profonda della vera natura delle cose, il Dharma o realtà naturale; è la comprensione dei processi interdipendenti alla base della nostra sofferenza, la visione diretta dei meccanismi psicologico-esistenziali generanti il Dukkha.
La pratica della consapevolezza e i quattro fondamenti
“Katamā ca bhikkhave, sammāsati: idha bhikkhave, bhikkhu kāye kāyānupassī viharati ātāpī sampajāno satimā vineyya loke abhijjhādomanassaṃ, vedanāsu vedanānupassī viharati ātāpī sampajāno satimā vineyya loke abhijjhādomanassaṃ, citte cittānupassī viharati ātāpī sampajāno satimā vineyya loke abhijjhādomanassaṃ, dhammesu dhammānupassī viharati ātāpī sampajāno satimā vineyya loke abhijjhādomanassaṃ. Ayaṃ vuccati bhikkhave, sammāsati.”
“E cos’è, o monaci, la corretta consapevolezza? ora monaci, un monaco dimora contemplando il corpo entro il corpo*, energico, chiaramente comprendente e consapevole, avendo rimosso bramosia e scontento riguardo al mondo; Dimora contemplando le sensazioni entro le sensazioni, energico, chiaramente comprendente e consapevole, avendo rimosso bramosia e scontento riguardo al mondo; dimora contemplando la mente-cuore entro la mente cuore, energico, chiaramente comprendente e consapevole, avendo rimosso bramosia e scontento riguardo al mondo; dimora contemplando i fenomeni mentali entro i fenomeni mentali, energico, chiaramente comprendente e consapevole, avendo rimosso bramosia e scontento riguardo al mondo. Questa, o Monaci, è chiamata corretta consapevolezza.”
– Magga-vibhanga Sutta, SN 45.8
Il termine pali sati significa ‘ricordare’, vocabolo che nella nostra lingua vuol dire ‘riportare al cuore’; Nelle discipline antiche come il Buddhismo, il cuore era considerato il fulcro dell’esperienza intellettuale ed emotiva, la sede della mente, e per questa ragione, l’atto di riportare qualcosa all’attenzione della mente era detto ri-cor-dare.
Quando si tratta di riportare all’attenzione della mente eventi accaduti nel passato si parla di ricordo, mentre se si sta prestando attenzione a qualcosa che sta accadendo nel momento presente parliamo di osservazione consapevole o consapevolezza. Sati è così sinonimo di consapevolezza o attenzione al presente.
l’attenzione al presente di cui parla il Buddha è consapevolezza diretta, non mediata e priva di giudizio (mi piace, non piace etc) ma tuttavia è pur sempre consapevolezza di qualcosa a cui stiamo deliberatamente prestando attenzione.
La differenza fra coscienza e consapevolezza sta nel grado di valutazione dell’oggetto osservato: la coscienza si limita a registrare la presenza di un dato oggetto entro il campo dell’attenzione cosciente, mentre la sati produce una valutazione dell’oggetto esperito: Se, ad esempio, ci ritroviamo a sperimentare un momento di rabbia, la coscienza registrerà tale stato rabbioso come “che rabbia!”, mentre la consapevolezza riconoscerà che in questo momento: “In me c’è rabbia” o nelle fasi più profonde ” c’è rabbia”.
A scanso di equivoci, è utile rammentare che per una persona non ancora giunta alla piena maturazione spirituale, (lo stato risvegliato), entrambe queste due modalità di esperienza sono determinate dalla costruzione fondamentale dell’Io e del Mio: (Io) sono arrabbiato, nel caso della coscienza priva di consapevolezza, e (Io) sono consapevole della rabbia, nel caso di un esperienza consapevole di tale stato d’animo. Il senso dell’Io è presente anche durante gli stadi di meditazione più avanzati, incluso l’esercizio formale delle meditazione di consapevolezza o di qualsiasi altra forma di meditazione. Solo i Buddha e gli Arahant, essendosi liberati dall’illusione di un Sé o Io sostanzialmente esistente, sono in grado di esperire gli oggetti della realtà fenomenica in una modalità non egoica.
Il Buddha era solito accompagnare il termine sati con un altro termine: Sampajañña, che letteralmente vuol dire chiara comprensione. Se il compito della sati è di riconoscere quanto sta accadendo per quello che è (sono arrabbiato e riconosco di esserlo), quello di Sampajaññaè di comprendere chiaramente che quello stato di rabbia con i quale mi sono identificato, è di per se doloroso, oltreché mutevole e contingente. ( c’è rabbia in me, ma è uno stato emotivo doloroso che passerà e se ne andrà come tutte le altre volte, non è mio, non è il mio Sé..).
Il binomio sati-Sampajañña è quindi lo strumento per eccellenza nel sentiero verso l’emancipazione dalla sofferenza emotiva. in sintesi , Sati è osservazione, Sampajañña è chiara comprensione.
Il nostro modo cognitivo ordinario è uno stato di tipo riflessivo, ovvero uno stato in cui si pensa a cose avvenute nel passato, che stanno avvenendo nel presente (ma senza consapevolezza e chiara comprensione) o che avverranno in futuro senza la benché minima consapevolezza di quanto stia accadendo nella mente né di quale sia la reale natura di quel pensato;
Senza consapevolezza, l’esperienza immediata (l’atto della percezione mentale di una serie di oggetti) diventa un’ esperienza meramente riflessiva, potenziale causa di errata comprensione circa la natura dell’oggetto esperito e dell’esperienza stessa.
Inoltre, senza l’attenzione vigile a fare da cuscinetto fra i nostri stati d’animo e le azioni o le parole che ne conseguono, il rischio di fare o dire cose sconsiderate e dannose per il nostro ed altrui benessere è molto più alto.
Tuttavia, bisogna ricordare che la consapevolezza è solo uno fra gli strumenti insegnati dal Buddha, che per altro necessita di essere contestualizzata nel più ampio contesto del sistema teorico pratico del Dharma Buddhista.
Grazie all’osservazione consapevole, la nostra esperienza immediata diventa osservazione diretta, e questo ci permette di poter comprendere quanto sta accadendo in presa diretta, minimizzando così le possibilità di una reazione disarmonica, sia dal punto di vista della reazione interna, (pensieri ed emozioni) che di quella esterna (parole, azioni e decisioni).
La consapevolezza si sviluppa all’interno di un sistema di valori etico-spirituali ed è a sua volta e propedeutica allo sviluppo di altri elementi, quali il raccoglimento profondo, l’equanimità e la comprensione. Tale sistema è proprio il Nobile ottuplice sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza, di cui la ‘Giusta Consapevolezza è il settimo elemento.
Il sistema insegnato dal Buddha al fine della coltivazione di una consapevolezza a tutto tondo è conosciuto con il nome di Satipaṭṭhāna o fondamenti della consapevolezza; il termine deriva dall’unione di upatṭhāna, traducibile come ‘stabilire (ṭhāna) all’interno (upa)‘, e Sati, che come abbiamo già detto significa ricordo o nello specifico, consapevolezza, attenzione..
Il testo più importante per la comprensione della pratica dei quattro fondamenti della consapevolezza è il Satipaṭṭhānasutta o discorso sui fondamenti della consapevolezza.
In questo importante discorso, l’addestramento graduale alla consapevolezza è suddiviso in quattro aspetti o aree di lavoro, dal più grossolano al più sottile; le quattro aree sono:
1: la consapevolezza relativa al corpo o kāyānupassanā,
2: la consapevolezza relativa alle sensazioni o vedanānupassanā,
3: la consapevolezza relativa alla mente -cuore, cittānupassanā,
4: la consapevolezza relativa alla reale natura degli oggetti mentali, dhammānupassanā.
Nella prima sezione, relativa all’esplorazione della corporeità, vengono proposti sei esercizi volti a favorire una comprensione intima della vera natura del nostro corpo, quali la consapevolezza del respiro, la consapevolezza delle parti del corpo, la consapevolezza posturale (inclusa la meditazione camminata), la consapevolezza circa le attività -come il muoversi, il parlare o il mangiare-, la consapevolezza degli elementi costituenti il corpo, ed infine la consapevolezza relativa alla natura impermanente del corpo umano.
Nella seconda sezione, l’attenzione viene posta sul dispiegarsi delle sensazioni – piacevoli, dolorose e neutre- nel momento presente, osservando il condizionamento prodotto sulla mente e sul comportamento da queste stesse sensazioni, grossolane (relative ai cinque sensi) e sottili (relative alla mente).
Nella terza sezione, quella dell’osservazione consapevole della mente -cuore, l’attenzione è posta sulla qualità affettiva del momento presente in maniera non giudicante, limitandosi cioè ad osservare quali stati mentali ed emotivi siano sorti sulla base dell’esperienze sensoriali, e come da essi dipenda l’esperienza di benessere o sofferenza, di pace o frustrazione in cui ci troviamo nel presente.
L’ultima sezione, quella relativa ai dhamma, propone una serie di contemplazioni il cui scopo è accertare la vera natura dell’esistenza condizionata: fra gli esercizi proposti vi sono la contemplazione relativa ai cinque impedimenti fondamentali, i cinque aggregati psicofisici base dell’esistenza stessa, le sei basi sensoriali, le quattro nobili verità e i sette fattori di risveglio; in questi esercizi, il praticante è invitato ad osservare la presenza o meno di questi dhamma o elementi nel proprio continuum mentale, e ad osservare come questi si formino, come persistano mutando e come infine svaniscano per via della loro stessa natura cangiante, allorché venute meno le cause della loro manifestazione.
Consapevolezza, Calma e Visione profonda:
Consapevolezza è l’osservare, Samatha è calma equanime, Vipassanā è vedere chiaramente la natura impermanente, dolorosa quando presa erroneamente come permanente e fuori dal nostro controllo delle cose. La consapevolezza è paragonabile all’albero, la calma equanime è il fiore, la chiara visione è il frutto.
La pratica di consapevolezza è lo strumento attraverso il quale possiamo sviluppare le due qualità della calma dimorante e della Visione profonda.
I Jhāna, gli stadi di meditazione profonda
Il termine Pali Jhāna deriva dalla radice verbale Jhayi, che letteralmente significa ‘soffermarsi’, ‘dimorare’ o ‘focalizzare’, ed è lo stato meditativo che si sviluppa focalizzando la consapevolezza su di un oggetto (rūpa) fra quelli esposti ne I Quattro fondamenti della consapevolezza, come il respiro, i punti corporei, la camminata etc. Con Jhāna si intende quindi lo stato di meditazione profonda, ed è con questo termine che ci riferiremo ad essi in questo articolo. È interessante notare che dal termine pali Jhāna derivano anche il Chinese Chan ed il giapponese Zen da cui prendono il nome le due famose scuole buddhiste. Prima di proseguire, è importante sottolinear che Jhāna è l’essere in meditazione, l’esperienza della meditazione, non una tecnica o sistema di meditazione. In realtà, neanche la più famosa meditazione Vipassanā o meditazione di visione profonda è una tecnica ma uno stato di profonda comprensione della realtà delle cose.
In genere, si distinguono due aspetti della meditazione profonda: Una prima fase nella quale l’attenzione è sostenuta per mezzo di un’oggetto meditativo o rūpa denominata Rūpajhāna, e una fase successiva, dove l’attenzione non necessita più dell’ausilio di un’oggetto di meditazione ma si autosostiene, chiamata stadio di raccoglimento senza oggetto o Arūpajhāna, o più correttamente Arūpasamādhi.
La funzione dei Jhāna è quella di predisporre la mente all’introspezione nella natura della propria esistenza, in particolare al manifestarsi della sofferenza esistenziale:
“‘Paṭhamampāhaṃ, bhikkhave, jhānaṃ nissāya āsavānaṃ khayaṃ vadāmī’ti, iti kho panetaṃ vuttaṃ. Kiñcetaṃ paṭicca vuttaṃ? Idha, bhikkhave, bhikkhu vivicceva kāmehi … pe … paṭhamaṃ jhānaṃ upasampajja viharati. So yadeva tattha hoti rūpagataṃ vedanāgataṃ saññāgataṃ saṅkhāragataṃ viññāṇagataṃ, te dhamme aniccato dukkhato rogato gaṇḍato sallato aghato ābādhato parato palokato suññato anattato samanupassati. So tehi dhammehi cittaṃ paṭivāpeti. So tehi dhammehi cittaṃ paṭivāpetvā amatāya dhātuyā cittaṃ upasaṃharati: ‘etaṃ santaṃ etaṃ paṇītaṃ yadidaṃ sabbasaṅkhārasamatho sabbūpadhipaṭinissaggo taṇhākkhayo virāgo nirodho nibbānan’ti. So tattha ṭhito āsavānaṃ khayaṃ pāpuṇāti.”
“Monaci, Questo fu da me asserito: la distruzione dei veleni interiori dipende dai Jhāna; E per quale ragione dissi ciò?
Ecco o monaci, un monaco, Distaccato dai desideri sensoriali, distaccato dai pensieri nocivi, raggiunge e dimora nel primo assorbimento meditativo (Jhāna), fatto di gioia e benessere nate dal distacco e accompagnato dal pensiero applicato e dal pensiero sostenuto;
Ed in quello stato, qualunque esperienza relativa al corpo materiale, alle sensazioni, alle percezioni, alle formazioni mentali ed alla coscienza, Egli considera tali fenomeni come impermanenti, insoddisfacenti, una malattia, un cancro, una freccia conficcata, un’afflizione, un corpo estraneo, soggetti al disintegrarsi, vuoti di vera esistenza, altro da Sé; ed Egli quindi distoglie la propria mente da essi ed avendo distolto la propria mente da essi, la rivolge alla sfera del senza morte* “Questa è la pace, questo è lo stato sublime, ovvero la pacificazione di tutti i condizionanti, l’abbandono di tutti i fondamenti dell’esistenza ciclica, la fine della sete e della passione, la cessazione del dolore, il Nirvana.”
– Jhānasutta, AN 9:36.
Come coltivare gli stadi della meditazione profonda
Per accedere allo stato di meditazione profonda, si devono innanzitutto abbandonare i cinque ostacoli principali: Desiderio sensuale, avversione, torpore e pigrizia, agitazione e rimorso, dubbio. Per fare ciò, il praticante impiegherà gli antidoti specifici per ciascun ostacolo, che sono rispettivamente:
1:Desiderio sensuale: Contemplare gli svantaggi della sensualità e la sgradevolezza degli oggetti dei sensi;
2:Avversione: coltivare la meditazione di amorevole gentilezza;
3:Torpore e pigrizia: Il riflettere sulla morte e l’impermanenza, la meditazione camminata o stando in piedi;
4:Agitazione e rimorso: La contemplazione del respiro;
5:Dubbio: Approfondire gli aspetti su cui si nutrono dubbi con un istruttore o persona competente.
Il primo Jhāna:
“Vivicceva kamehi vivicca akusalehi dhammehi savitakkam savicaram vivekajam piti-sukham pathamam-jhanam upasampajja vihareyyanti”
“Distaccato dai desideri sensoriali, distaccato dai pensieri nocivi, raggiunge e dimora nel primo assorbimento meditativo (Jhāna), fatto di gioia e benessere nate dal distacco e accompagnato dal pensiero applicato e dal pensiero sostenuto.”
Abbandonati gli ostacoli, il praticante entra nel primo stadio della meditazione profonda, il primo Jhāna; In questa fase, è necessario portare e riportare più e più volte l’attenzione all’oggetto di meditazione, dato che la concentrazione non è ancora stabile; Il portare e riportare l’attenzione all’oggetto sono detti vitakka e vicara, letteralmente il ‘pensiero applicato’ ed il ‘pensiero costante’. Tuttavia, il praticante sperimenta gioia interiore e benessere fisico (piti e sukha) grazie al fatto di esseri affrancato, seppur temporaneamente, dai pensieri malsani quali la sete di piacere sensuale e dagli altri stati mentali nocivi.
Il secondo Jhāna
“vitakkavicārānaṃ vūpasamā ajjhattaṃ sampasādanaṃ cetaso ekodibhāvaṃ avitakkaṃ avicārā samādhijaṃ pītisukhaṃ dutiyaṃ jhānaṃ upasampajja viharati.”
“Con il dissolversi del pensiero applicato e del pensiero sostenuto, egli raggiunge e dimora nel secondo Jhāna che è tranquillità interiore, univocità mentale, e gioia e benessere nate dal samādhi privo di pensiero applicato e pensiero sostenuto”.
Proseguendo nella meditazione, l’attenzione diverrà più stabile e la mente rimarrà naturalmente concentrata sull’oggetto, e questo per via del fatto che grazie all’esperienza di gioia e benessere sperimentate in meditazione, la pratica stessa diverrà un’esperienza piacevole e quindi attraente per la mente; La mente umana persegue il piacere e rifugge il dolore; la strategia della meditazione, per lo meno in questa fase, consiste nel costruire uno stato piacevole alternativo a quello prodotto tramite la gratificazione sensoriale che diriga la mente verso il de-condizionamento, ovvero verso la libertà e l’emancipazione dal doloroso bisogno di cercare costantemente soddisfazione tramite gli oggetti dei sensi. In altre parole, ci emancipiamo dalla prigionia del bisogno costante di soddisfazione sensoriale per mezzo della soddisfazione spirituale.
Svaniranno così vitakka e vicara, essendo terminata la loro funzione, ed allo stesso tempo si svilupperà la fiducia interiore (ajjhattaṃ sampasādana), ovvero la convinzione esperienziale che la meditazione è effettivamente efficace ai fini dell’emancipazione dal condizionamento dei veleni interiori. La gioia ed il benessere sperimentate in questa seconda fase nascono dall’unificazione della mente con le qualità neutre dell’oggetto di meditazione. La mente assume le sembianze di ciò che osserva: identificandosi con un pensiero negativo come ad esempio la rabbia, essa diventerà una mente rabbiosa, se invece si identifica con un oggetto virtuoso o neutro assumerà le stesse caratteristiche virtuose o neutre.
Il terzo Jhāna
“Pītiyā ca virāgā upekkhako ca viharati sato ca sampajāno sukhaṃ ca kāyena paṭisaṃ vedeti yantaṃ ariyā ācikkhanti upekkhako satimā sukhavihārīti taṃ tatiyaṃ jhānaṃ upasampajja viharati.”
“Con il distacco dalla gioia egli dimora in equanimità, consapevole, e con una chiara comprensione, godendo di benessere nel corpo, Egli raggiunge e dimora nel terzo Jhāna, il quale è definito dai nobili (ariyas) come ‘Il dimorare in equanimità, consapevolezza e beatitudine. “
In questa terza fase della meditazione profonda, il meditante riconosce la natura condizionante della stessa gioia sperimentata precedentemente ed assume verso di essa un’atteggiamento di equanimità consapevole (upekkha-sati); In precedenza, avendo riconosciuto la natura condizionante dei veleni interiori, il praticante aveva rivolto la sua attenzione all’oggetto di meditazione -un oggetto virtuoso o per lo meno neutro- e questo suo voltare le spalle agli oggetti negativi aveva prodotto uno stato positivo di gioia e benessere; Ora egli riconosce che anche gli stati positivi hanno una natura impermanente, condizionante, determinata e contingente, sulla quale non può fare affidamento. Il benessere sperimentato in questa fase e puramente fisico, legato cioè all’esperienza di agio fisico indotto dalla meditazione, in particolar modo , dalla meditazione sul respiro; Nel discorso sulla consapevolezza del respiro, il Buddha chiarisce ulteriormente la traiettoria assunta dall’esperienza meditativa in questa fase:
“Pītipaṭisaṃvedī assasissāmī’ti sikkhati, ‘pītipaṭisaṃvedī passasissāmī’ti sikkhati; ‘sukhapaṭisaṃvedī assasissāmī’ti sikkhati, ‘sukhapaṭisaṃvedī passasissāmī’ti sikkhati; ‘cittasaṅkhārapaṭisaṃvedī assasissāmī’ti sikkhati, ‘cittasaṅkhārapaṭisaṃvedī passasissāmī’ti sikkhati; ‘passambhayaṃ cittasaṅkhāraṃ assasissāmī’ti sikkhati, ‘passambhayaṃ cittasaṅkhāraṃ passasissāmī’ti sikkhati.”
“‘Inspirerò sperimentando la gioia’, così egli si esercita, ‘espirerò sperimentando la gioia’, così egli si esercita; ‘Inspirerò sperimentando benessere’, così egli si esercita, ‘espirerò sperimentando benessere’, così egli si esercita; ‘inspirerò sperimentando il condizionante mentale’, così egli si esercita, ‘espirerò sperimentando il condizionante mentale’, così egli si esercita; Inspirerò pacificando il condizionante mentale’, così egli si esercita, ‘espirerò pacificando il condizionante mentale’, così egli si esercita.”
-Ānāpānassatisutta, MN, 118
In questo contesto, l’equanimità è la capacità di rimanere equilibrati, focalizzati al centro dell’esperienza meditativa, permettendo così alle esperienze positive e negative di fluire senza afferrale o respingerle. L’equanimità è così un potente mezzo per neutralizzare la natura condizionante delle esperienze sensoriali e delle reazioni emotive che da esse derivano.
Il quarto Jhāna
“Sukhassa ca pahāṇā dukkhassa ca pahāṇā pubbeva somanassadomanassānaṃ atthaṃgamā adukkhaṃ asukhaṃ upekkhāsatipārisuddhiṃ catutthaṃ jhānaṃ upasampajja viharati.”
“Con l’abbandono di felicità e sofferenza, e la precedente scomparsa di gioia e tristezza, egli raggiunge e dimora nel quarto Jhāna, libero dal dolore e dalla felicità, la purezza di equanimità e consapevolezza.”
La quarta fase della meditazione profonda è fondamentalmente uno stato di equanimità dove le esperienze di felicità e dolore, di benessere e malessere, sono state rese innocue, incapaci cioè di trascinarci nel vortice del condizionamento doloroso, perlomeno finché il meditante permane in questo stato. Lungi quindi dall’essere uno stato di concentrazione privo di consapevolezza, la meditazione sui Jhāna è esperienza consapevolezza ed equanimità totalmente raffinate (upekkhāsatipārisuddhi), un’esperienza che va oltre il dolore e la felicità (adukkhaṃasukhaṃ);
In questo contesto, per consapevolezza equanime si intende l’osservazione diretta di quanto sta accadendo nel momento presente, la focalizzazione dell’attenzione all’oggetto di meditazione. La capacità di rimanere focalizzati stabilmente in questo stato ci permette di rimanere bilanciati di fronte a quanto sta accadendo, impedendo all’esperienza del momento presente di trascinarci nel consueto circolo vizioso fatto di alternanza fra attrazione e repulsione, desiderio e avversione.
I quattro Arūpajhānā o Arūpasamādhi.
Il termine Pali rūpa ha varie sfumature di significato: Materia, sostanza, corpo, oggetto, forma, immagine etc.; La sua caratteristica tipica è l’essere soggetto allo disfacimento:
“Katamañca, bhikkhave, rūpaṃ? Cattāro ca mahābhūtā, catunnañca mahābhūtānaṃ upādāyarūpaṃ. Idaṃ vuccati rūpaṃ.”
“E cos’è, o Monaci, un oggetto? I quattro grandi elementi e ciò che sorge sulla base dei quattro grandi elementi. Ciò è chiamato oggetto.”
-Upādānaparipavattasutta, SN 22.56
“Kiñca, bhikkhave, rūpaṃ vadetha? Ruppatīti kho, bhikkhave, tasmā ‘rūpan’ti vuccati”
“Perché o Monaci, si chiama ‘forma’? Si deforma o monaci, perciò è detta forma.”
-Khajjanīasutta, SN 22.79
Secondo l’antica concezione indiana, ogni oggetto possiede quattro caratteristiche:
1:Pathavī: L’elemento terra, la qualità dell’inerzia o resistenza (Pathiga); 2: āpo: l’elemento acqua, la qualità della fluidità e della coesione; 3:tejo: l’elemento fuoco, la qualità del calore; 4:vāyo: l’elemento vento, la qualità della motilità o movimento.
In questo contesto, con rūpa si intende un oggetto di meditazione caratterizzato da queste quattro qualità, o per essere precisi, l’immagine mentale di tale oggetto –il rūpasaññāna- sorta sulla base delle quattro qualità. A questo proposito, vi sono vari oggetti di meditazione: Il respiro, le parti del corpo, la camminata, gli elementi del corpo, le sensazioni, la mente e i fenomeni mentali (dharma); Nell’ambito della terminologia Buddhista, tutte queste forme di meditazione sono definite oggetti.
Prendiamo ad esempio la meditazione sul respiro: Il respiro avrà la qualità della resistenza, osservabile durante la contrazione ed estensione della cassa toracica ad ogni inspirazione ed espirazione; La qualità della fluidità, osservabile portando l’attenzione al fluire e al defluire del respiro dal nostro corpo, dal petto verso l’addome e viceversa; Avrà altresì la qualità del calore (caldo e freddo), particolarmente evidente quando si porta l’attenzione alla frizione prodotta nelle narici dall’entrata e dall’uscita dell’aria; Inoltre avrà la qualità della motilità o movimento, osservabile portando l’attenzione all’aspetto dinamico della respirazione stessa, il ritmico e regolare alternarsi dell’inspirazione ed espirazione. È possibile osservare ognuna di queste qualità insite nel respiro focalizzando l’attenzione su ciascun singolo aspetto del respiro come descritto qui sopra.
Il praticante ha bisogno di focalizzare l’attenzione su di un’oggetto di meditazione al fine di sviluppare il raccoglimento meditativo; Una volta che questo raccoglimento sara diventato forte e stabile ed il praticante sarà in grado di entrare ed uscire da quello stato di meditazione profonda a proprio piacimento, l’oggetto di meditazione prescelto diverrà superfluo, e questo per due ragioni principali: 1: la concentrazione sarà così forte e stabile da non aver più bisogno di un oggetto esterno che la sostenga; 2: La consapevolezza stessa sarà il sostegno della meditazione profonda; In altre parole, l’esperienza consapevole di ciò che sta accadendo nella sua mente diverrà la meditazione. Meditazione ed esperienza consapevole saranno una cosa sola.
A questo punto, il meditante entra nella prima fase della meditazione senza oggetto detta ‘sfera dello spazio infinito’ o Ākāsānañcāyatanaṃ:
“idha bhikkhu sabbaso rūpasaññānaṃ samatikkamā paṭighasaññānaṃ atthaṅgamā nānattasaññānaṃ amanasikārā ananto ākāsoti ākāsānañcāyatanaṃ upasampajja viharati.”
“Ora monaci, con il completo superamento di ogni percezione dell’oggetto, con l’abbandono della percezione di resistenza, distogliendo l’attenzione dalla varietà delle percezioni, sperimentando lo spazio infinito, egli accede e dimora nella sfera dello spazio infinito.”
Non essendovi più alcun oggetto, non vi saranno neanche le quattro qualità che lo caratterizzano: resistenza, fluidità, calore e motilità; Non essendo la mente né limitata né ostruita da alcun oggetto, il meditante entrerà in uno stato mentale di spaziosità non delimitata o ākāsānañcāyatana; ākāsā infatti vuol dire spazio, e rappresenta il quinto elemento o qualità che diventa manifesta nel momento in cui le altre quattro si sono dissolte. È un’esperienza di totale apertura e libertà, di spaziosità interiore detta ananta,letteralmente senza (an) limiti (anta).
Il praticante, essendo in un stato di alta consapevolezza, riconosce quanto sta accadendo nella propria mente, e sviluppa così la seconda fase della meditazione profonda senza oggetto detta ‘sfera della coscienza infinita’ o Viññāṇañcāyatana:
“‘idha bhikkhu sabbaso ākāsānañcāyatanaṃ samatikkamma anantaṃ viññāṇanti viññāṇañcāyatanaṃ upasampajja viharati. Idaṃ vuccati viññāṇañcāyatanan’ti”.
“Quindi, o monaci, con il completo superamento della sfera dello spazio infinito, percependo la coscienza come infinita, entra e dimora nella sfera della coscienza infinita.”
Viññāṇañcāyatana, la sfera della coscienza infinita, è lo stato in cui il praticante riconosce che il suo stato mentale è libero dalle ostruzioni e simile allo spazio. Viññāṇa è il processo del conoscere o cognizione, Il distinguere chiaramente (Vi) e riconoscere (ñāyati); In questo stato, il praticante riconosce che la sua esperienza interiore di quel momento è priva di ostruzioni, libera, spaziosa.
In altre parole, egli sa che non vi è alcun oggetto nella sua mente, ma tuttavia vi è consapevolezza dell’assenza di qualunque oggetto. Realizzando ciò, trascende questo stato di cose ed entra di fatto nella terza fase della meditazione profonda senza oggetto, lo stato del ‘Non vi è alcunché’ (nella mente), Ākiñcaññāyatana, detto anche animitto samādhi, il raccoglimento senza oggetto:
“‘Idha bhikkhu sabbaso viññāṇañcāyatanaṃ samatikkamma natthi kiñcīti ākiñcaññāyatanaṃ upasampajja viharati.”
“Quindi monaci, con il completo superamento della sfera della coscienza infinita, non essendoci alcunché, entra e dimora nella sfera dove non v’è alcunché.”
Ākiñcaññāyatana è quindi il riconoscimento che la mente è sgombra di oggetti, la consapevolezza dell’assenza o vacuità di oggetti nel campo dell’attenzione; È un’esperienza di vuoto, uno stato di libertà e non condizionamento. È vuoto e consapevolezza del vuoto allo stesso tempo.
Riconoscendo questo stato di cose, Il praticante entra in uno stato dove sebbene non vi sia percezione di alcun oggetto , vi è tuttavia la percezione dell’esperienza del vuoto o mancanza di oggetto. Questa è la quarta fase, uno stadio chiamato la ‘sfera della né percezione né assenza di percezione’,nevasaññānāsaññāyatana, altrimenti detto Suññato samādhi, il raccoglimento vuoto:
“‘idha bhikkhu sabbaso ākiñcaññāyatanaṃ samatikkamma nevasaññānāsaññāyatanaṃ upasampajja viharati.”
“Quindi monaci, con il completo superamento della sfera del non v’è alcunché, egli entra e dimora nella sfera della né percezione né assenza di percezione.”
Nevasaññānāsaññāyatana è un stato d’esistenza dove sebbene non vi sia percezione di alcun oggetto, (nevasaññā) non vi neppure una totale assenza di percezione (asaññā), in quanto la consapevolezza o percezione è rivolta proprio all’esperienza di vuoto di contenuti o immagini mentali. Questo stato di cose è altrimenti detto appaṇihito samādhi, il raccoglimento privo di supporto o spontaneo, letteralmente ‘senza scopo’.
A questo punto, Il praticante riconosce che questo stato di cose -per quanto sottile e piacevole possa essere- è comunque uno stato condizionato e condizionante, e lasciandosi alle spalle anche la mera percezione della vacuità della mente, entra in una fase meditativa dove non vi è più neanche la percezione della vacuità né la corrispondente sensazione ad essa associata, detta sfera della cessazione di percezione e sensazione, saññāvedayitanirodha:
“sabbaso nevasaññānāsaññāyatanaṃ samatikkamma saññāvedayitanirodhaṃ upasampajja viharati, paññāya cassa disvā āsavā parikkhīṇā honti. So attamano soṇḍaṃ saṃharatī”ti.”
“Con il completo superamento della sfera della né percezione né assenza di percezione, egli entra e dimora nella cessazione di percezione e sensazione, ed avendo visto la realtà con saggezza, i veleni sono eliminati completamente.”
Questo stato d’essere è detto l’apice del Samsara, il punto più alto e sottile raggiungibile entro la sfera dell’esistenza ciclica condizionata. In molte correnti di pensiero non buddhiste, questo stato dell’essere è considerato come il raggiungimento della liberazione, ma in realtà, anche questo è uno stato condizionato e condizionante, e quindi soggetto al mutamento.
Lo scopo del produrre uno stato di coscienza così terso e puro è che una volta terminato, il praticante è in grado di osservare direttamente il processo della manifestazione del condizionamento esistenziale, il prodursi del fenomeno dell’Io-Mio che, identificandosi con gli aggregati psicofisici, proietta un immagine illusoria di se stesso nel mondo fenomenico in una specifica configurazione: Io sono..questo e quello, questo è il mio corpo, il mio sé, il mio mondo…etc. Questo processo è conosciuto come Sorgere Dipendente o Paṭiccasamuppāda e rappresenta, in estrema sintesi, il processo causale attraverso il quale la sofferenza esistenziale viene a manifestarsi.
Per usare una similitudine, è come se una persona decidesse di salire su di una collina servendosi di una scalinata, ed una volta arrivato in cima cominciasse ad osservare le attività della città sottostante; Da quella posizione privilegiata, tutto diverrebbe più chiaro e comprensibile per lui. Questo è lo scopo della coltivazione degli stadi di meditazione, sia di quelli ottenuti con l’ausilio di un oggetto che di quelli senza oggetto.
Il Samādhi, raccoglimento profondo
“Samādhiṃ, bhikkhave, bhāvetha. Samāhito, bhikkhave, bhikkhu yathābhūtaṃ pajānāti. Kiñca yathābhūtaṃ pajānāti? ‘Idaṃ dukkhan’ti yathābhūtaṃ pajānāti, ‘ayaṃ dukkhasamudayo’ti yathābhūtaṃ pajānāti, ‘ayaṃ dukkhanirodho’ti yathābhūtaṃ pajānāti, ‘ayaṃ dukkhanirodhagāminī paṭipadā’ti yathābhūtaṃ pajānāti. Samādhiṃ, bhikkhave, bhāvetha. Samāhito, bhikkhave, bhikkhu yathābhūtaṃ pajānāti.
“Monaci, coltivate il Samādhi; Il Monaco la cui mente è raccolta, conosce le cose per come sono realmente. E quali cose egli conosce per come sono realmente? ‘Così è la sofferenza’-questo egli conosce per come realmente è, ‘questa è l’origine della sofferenza’-questo egli conosce per come realmente è, ‘questa è la cessazione della sofferenza’-questo egli conosce per come realmente è, ‘questa è la via che conduce alla cessazione della sofferenza’-questo egli conosce per come realmente è. Perciò, o monaci, coltivate il Samādhi; Il monaco raccolto, o monaci, conosce le cose per come realmente sono.”
-Samādhisutta, SN56.1
La coltivazione dei Jhāna conduce all’esperienza del Samādhi; Questo termine, spesso tradotto come ‘concentrazione’, Il termine samādhi deriva da saṃ + ā + dhā, dove ‘saṃa‘ sta per ‘bilanciato’ (simile all’inglese ‘same’- uguale) e ‘dhā’ ‘tenere’; samādhi significa quindi ‘mantenere l’equilibrio’ ‘bilanciamento’ indi ‘centratura’. Non a caso, esso è il fattore risvegliante che precede l’equanimità. Samādhi è sinonimo di Samatha.
La funzione del Samādhi è quella di rendere la mente bilanciata e composta, al fine di riconoscere la natura dolorosa dell’esistenza condizionata; In particolare, la coltivazione del Samādhi ha a che vedere con la comprensione diretta delle Quattro Nobili verità:
“So evaṃ samāhite citte parisuddhe pariyodāte anaṅgaṇe vigatūpakkilese mudubhūte kammaniye ṭhite āneñjappatte āsavānaṃ khayañāṇāya cittaṃ abhinīharati abhininnāmeti. So idaṃ dukkhanti yathābhūtaṃ pajānāti, ayaṃ dukkhasamudayoti yathābhūtaṃ pajānāti, ayaṃ dukkhanirodhoti yathābhūtaṃ pajānāti, ayaṃ dukkhanirodhagāminī paṭipadāti yathābhūtaṃ pajānāti.”
“Con la mente così concentrata, purificata e chiara, senza macchia, libera da impurità, agile, malleabile, salda e imperturbabile, egli la dirige e l’orienta verso la conoscenza della distruzione dei veleni interiori; Egli comprende: ‘Questo è il dolore, Questa è l’origine del dolore, Questa è la cessazione del dolore, Questo è il sentiero che conduce alla cessazione del dolore.”
-Samaññaphala Sutta, D.N. 2
A questo punto, dovrebbe essere chiaro che consapevolezza, Jhāna e visione profonda sono tre elementi di un unico processo contemplativo; La consapevolezza è lo strumento impiegato per coltivare i Jhāna e quindi il Samādhi, ed il Samādhi è la condizione eccellente per lo sviluppo della visione profonda.
In accordo ai sutta, vi sono tre forme di samādhi:
«Rāgassa, bhikkhave, abhiññāya..pariññāya … pe … parikkhayāya … pahānāya … khayāya … vayāya … virāgāya … nirodhāya … cāgāya … tayo dhammā bhāvetabbā. Katame tayo? Suññato samādhi, animitto samādhi, appaṇihito samādhi—rāgassa, bhikkhave, abhiññāya ime tayo dhammā bhāvetabbā.»
«Monaci, per la comprensione della passione, per la piena conoscenza…la completa distruzione, abbandono, eliminazione e dissoluzione, per il distacco da essa, per la sua cessazione e abbandono, tre elementi devono essere coltivati. Quali tre?
Il samādhi vuoto [di oggetti mentali] (Suññata),
il samādhi privo di ‘immagine’ [oggetto di meditazione](animitta)[1],
il samādhi privo di ambizione (appaṇihita)
Monaci, per la comprensione della passione questi tre elementi devono essere coltivati.»
-AN 3.183 et passim.
[1]: «Yā kho, āvuso visākha, cittassa ekaggatā ayaṃ samādhi; cattāro satipaṭṭhānā samādhinimittā; cattāro sammappadhānā samādhiparikkhārā. Yā tesaṃyeva dhammānaṃ āsevanā bhāvanā bahulīkammaṃ, ayaṃ ettha samādhibhāvanā”ti.»
«Amico Visākha, l’unificazione della mente, ciò costituisce il samādhi; I quattro fondamenti della consapevolezza sono il l’immagine [oggetto di meditazione per la coltivazione]del samādhi; i quattro sforzi armoniosi sono i prerequisiti necessari al samādhi; la pratica costante (āsevanā) di questi elementi di pratica, la loro coltivazione, il loro sviluppo costante, ciò costituisce la coltivazione del samādhi.»
Inoltre, un beneficio collaterale del samādhi è quello di produrre benessere in qualsiasi situazione ci si trovi:
Yato kho te, bhikkhu, ayaṃ samādhi evaṃ bhāvito hoti subhāvito, tato tvaṃ, bhikkhu, yena yeneva gagghasi phāsuṃyeva gagghasi, yattha yattha ṭhassasi phāsuṃyeva ṭhassasi, yattha yattha nisīdissasi phāsuṃyeva nisīdissasi, yattha yattha seyyaṃ kappessasi phāsuṃyeva seyyaṃ kappessasī”ti.
“Quando, o monaco, un tale samādhi è in tal modo coltivato e ben sviluppato, allora, o monaco, ovunque tu andrai,lì andrai in uno stato di benessere, ovunque tu starai, lì starai in uno stato di benessere, ovunque rimarrai, lì rimarrai in uno stato di benessere, ovunque dormirai, lì dormirai confortevolmente.”
-Saṅkhittasutta, AN 8.3
Vipassanā,la chiara visione
«Asaṅkhatañca vo, bhikkhave, desessāmi asaṅkhatagāmiñca maggaṃ. Taṃ suṇātha. Katamañca, bhikkhave, asaṅkhataṃ? Yo, bhikkhave, rāgakkhayo dosakkhayo mohakkhayo—idaṃ vuccati, bhikkhave, asaṅkhataṃ. Katamo ca, bhikkhave, asaṅkhatagāmimaggo? Samatho ca vipassanā ca. Ayaṃ vuccati, bhikkhave, asaṅkhatagāmimaggo»
«Monaci, ascoltate attentamente: vi spiegherò l’incondizionato ed il sentiero verso l’incondizionato. Cos’è, o monaci, l’incondizionato? la distruzione della bramosia, dell’avversione e dell’ignoranza: ciò, o monaci, è chiamato ‘incondizionato’; E qual è il sentiero per l’incondizionato? il calmo dimorare e la visione profonda: questo, o monaci, è detto il sentiero verso l’incondizionato.»
.Samathavipassanāsutta, SN 43.2
il termine Vipassanā deriva dalla combinazione dei vocaboli vividha, ‘discernere vividamente’ e passati, vedere, nel senso di vedere o riconoscere in maniera vivida la vera natura mutevole, insoddisfacente e impersonale dell’esistenza.
Secondo Bhikkhu Anālayo, “Il termine vipassanā significa “Visione profonda”. Penso che il punto importante da tenere presente sia che questa non è una tecnica. In realtà è una qualità. Questo è abbastanza diverso dalla comprensione che molti hanno oggigiorno. Quando diciamo “vipassanā”, spesso sentiamo dire che questa è una tecnica particolare, una particolare forma di meditazione da praticare. Ma in realtà, vipassanā è una qualità – la qualità della visione profonda.
Quando osservo in profondità, ciò mi porta ad un crescente apprezzamento della vera natura della realtà: yathābhūta: vedere e conoscere le cose come realmente sono. Più vedo e conosco le cose per come sono realmente, più mi rendo conto che sono davvero impermanenti, incapaci di dare una soddisfazione duratura, e che non c’è un sé permanente – che tutto è condizionato, e che le Quattro Nobili Verità sono davvero un framework significativo per progredire verso la liberazione.
La cosa fondamentale è la comprensione dell’impermanenza: sperimentare tutto come un processo, non come un’entità stabile.
Più questo modo di sperimentare le cose nei termini di processi si radica in noi, più siamo in grado di lasciar andare la nostra infatuazione verso le cose, e di vedere cos’è dukkha (insoddisfacente), ciò che non è in grado di darci una soddisfazione duratura.
È attraverso la visione di dukkha che la sete diminuisce, che l’attaccamento si affievolisce – e quando ciò accade, allora diminuisce anche il senso di identificazione con le cose – l’intero costrutto che costruisce le fondamenta del nostro senso dell’ego. Questo è un aspetto importante dell’insegnamento del non-sé.”
Il maestro americano Ajhan Sumedho enfatizza così la stretta correlazione fra pratica di consapevolezza e Vipassanā:
«Praticate la consapevolezza del respiro per dieci o quindici minuti, invece di pensare di meditare tutta la notte; L’ānāpānassati è qualcosa di immediato, e conduce alla chiara visione -Vipassanā. La natura impermanente del respiro non è vostra, vero? Voi non controllate nulla, il respiro appartiene alla natura, non vi appartiene, è non-sé. Quando fate ciò, state praticando Vipassanā, la chiara visione; è qualcosa di naturale.»
Samatha e vipassanā
“Dve me, bhikkhave, dhammā vijjābhāgiyā. Katame dve? Samatho ca vipassanā ca. Samatho, bhikkhave, bhāvito kamatthamanubhoti? Cittaṃ bhāvīyati. Cittaṃ bhāvitaṃ kamatthamanubhoti? Yo rāgo so pahīyati. Vipassanā, bhikkhave, bhāvitā kamatthamanubhoti? Paññā bhāvīyati. Paññā bhāvitā kamatthamanubhoti? Yā avijjā sā pahīyati. Rāgupakkiliṭṭhaṃ vā, bhikkhave, cittaṃ na vimuccati, avijjupakkiliṭṭhā vā paññā na bhāvīyati. Iti kho, bhikkhave, rāgavirāgā cetovimutti, avijjāvirāgā paññāvimuttī”ti.
“Monaci, queste due qualità conducono alla conoscenza. Quali due? La calma (samatha) e la Visione profonda (vipassanā). Monaci, qual è il beneficio del coltivare la calma? La mente-cuore viene a maturare; E qual è il beneficio di un cuore maturo? La bramosia viene abbandonata. E qual è o monaci il beneficio del coltivare la Visione profonda? Si sviluppa la saggezza. E qual è il benefico del coltivare la saggezza? L’ignoranza è abbandonata. Contaminata dalla bramosia, la mente è priva di libertà. Contaminata dall’ignoranza, la saggezza non si sviluppa. Così, o monaci, con lo svanire della bramosia la mente è liberata, dissolvendosi l’ignoranza vi è liberazione per via della saggezza.”
– AN 2.31
Nella pratica del Dharma buddhista, la coltivazione di stati mentali salutari quali la letizia, la gioia, e la felicità giocano un ruolo fondamentale nel processo di trasformazione interiore.
D’altro canto, nel sentiero del Dharma non v’è spazio per la penitenza, la mortificazione o l’indugiare volontariamente nel dolore fisico e mentale, pratiche definite dallo stesso Buddha come rozze, basse, tipiche di chi non ha compreso la via di mezzo del Dharma.
Lungi dall’essere una filosofia pessimista, il sentiero del Dharma è un realismo pragmatico il cui solo fine è l’emancipazione dalla sofferenza emotiva ed esistenziale prodotta del nostro modo conflittuale di interagire con le cose del mondo.
La strategia buddhista per l’emancipazione dalla sofferenza consiste nel creare uno stato dell’essere calmo, gioioso e sereno, capace di depurare temporaneamente la mente dai veleni interiori; tale stato è noto come samadhi o samatha, la quiete raccolta.
La confusione viene abbandonata per mezzo della gioia e della felicità, che a loro volta lasceranno il passo all’equanimità e alla comprensione-saggezza.
Sulla base di tale stato di quiete, è possibile attualizzare un processo introspettivo capace di riconoscere i nodi emotivi alla base della sofferenza, nonché di metterne a nudo le radici profonde. Tale stato interiore è detto Visione profonda o vipassanā.
Dobbiamo tenere ben a mente che Samatha e vipassanā non sono due tecniche di meditazione contrapposte, ma due aspetti dello stesso percorso spirituale.
L’idea che Samatha e vipassanā siano due tecniche distinte fra loro è frutto di una successiva opera di sistematizzazione prodotta da monaci dotti diversi secoli dopo la morte del Buddha.
A tal proposito, Thanissaro Bhikkhu scrive:
“Quasi tutti i libri sulla meditazione buddhista vi diranno che il Buddha ha insegnato due tipi di meditazione: samatha e vipassanā.
Per samatha, che significa tranquillità, diranno che è un metodo per sviluppare forti stati di assorbimento mentale, chiamati jhana. Per vipassanā – letteralmente “vedere chiaro”, ma più spesso tradotto come meditazione di visione profonda – diranno che è un metodo che utilizza un minimo di tranquillità per favorire, momento per momento, la consapevolezza dell’impermanenza degli eventi come si sperimentano direttamente nel presente. Questa consapevolezza crea un senso di distacco nei confronti di tutti gli eventi, portando così a liberare la mente dalla sofferenza. Ci viene anche detto che questi due metodi sono del tutto separati e dei due, vipassanā è il particolare contributo buddhista alla scienza meditativa. Inoltre leggeremo che altri sistemi di pratica precedenti alla dottrina del Buddha insegnavano samatha, ma il Buddha fu il primo a scoprire e insegnare vipassanā. Infine anche se alcuni meditanti buddhisti possono praticare la meditazione samatha prima di dedicarsi alla vipassanā, la pratica di samatha non è davvero necessaria per il perseguimento del Risveglio. Come strumento meditativo, il metodo vipassanā è sufficiente per raggiungere l’obiettivo. O almeno tutto questo ci verrà detto
Ma se si guardiamo direttamente ai discorsi pali – le più antiche fonti esistenti per la conoscenza degli insegnamenti del Buddha – ci accorgiamo che anche se usano la parola samatha per indicare la tranquillità, e vipassanā con il significato di chiara visione, nessuno conferma simili opinioni comuni su questi termini. Solo raramente si avvalgono della parola vipassanā – in netto contrasto con l’uso frequente della parola jhana. Quando descrivono il Buddha che invita i suoi discepoli ad andare a meditare, non lo citano mai dicendo “andate a praticare vipassanā”, ma sempre “andate a praticare jhana”. E non associano mai la parola vipassanā con alcuna tecnica di consapevolezza (mindfulness). In pochi casi in cui si fa menzione di vipassanā, quasi sempre viene accoppiata con samatha – non come due metodi alternativi, ma come due qualità della mente che una persona può “guadagnare” o di cui può “essere dotata”, e che dovrebbero essere sviluppate insieme. Una similitudine, per esempio (SN 35. 204), paragona samatha e vipassanā a una coppia di veloci messaggeri che entrano nella cittadella del corpo attraverso il nobile ottuplice sentiero e presentano il loro accurato rapporto di Liberazione, o nibbana, alla coscienza, in funzione di comandante della cittadella. Un altro passo (AN 10. 71) raccomanda che chiunque voglia porre fine alla contaminazione mentale dovrebbe – oltre a perfezionare i principi di comportamento morale e coltivare la solitudine – impegnarsi in samatha e possedere vipassanā. Questa ultima affermazione è di per sé insignificante, se non che tale discorso dà anche lo stesso consiglio a tutti coloro che vogliono imparare a fondo i jhana: impegnarsi in samatha e possedere vipassanā. Questo suggerisce che, agli occhi di coloro che hanno raccolto i discorsi pali, samatha, jhana, e vipassanā facevano tutti parte di un unico sentiero. Samatha e vipassanā erano utilizzati insieme per imparare a fondo i jhana e poi – sulla base dei jhana – erano sviluppati ulteriormente per dare luogo alla fine della contaminazione mentale e portare alla liberazione dalla sofferenza. Questa è una chiave di lettura che trova sostegno anche in altri discorsi.”
Alcune precisazioni sulla pratica della consapevolezza
La ‘Consapevolezza armoniosa’ (sammāsati) è attenzione rivolta ad un contenuto fondata sulla ‘Comprensione armoniosa’, (Sammādiṭṭhi) il primo elemento del Nobile Ottuplice Sentiero; In assenza di tale comprensione, si tratta meramente di attenzione.
Consapevolezza è sempre consapevolezza di qualcosa, e come tale non esiste alcuna pura consapevolezza, non rivolta cioè, ad un contenuto.
Il Buddha definisce la Comprensione armoniosa in questo modo:
Katamā ca bhikkhave, sammādiṭṭhi? Yaṃ kho bhikkhave, dukkhe ñāṇaṃ dukkhasamudaye ñāṇaṃ dukkhanirodhe ñāṇaṃ dukkhanirodhagāminiyā paṭipadāya ñāṇaṃ, ayaṃ vuccati bhikkhave, sammādiṭṭhi.
“Cos’è o monaci, la comprensione armoniosa? la conoscenza della sofferenza, dell’origine della sofferenza, della cessazione della sofferenza, del sentiero conducente alla cessazione della sofferenza, questa o monaci, è chiamata comprensione armoniosa.”
La comprensione armoniosa dipende da due fattori importanti, uno interno e l’alto esterno: 1)l’attenzione saggia, rivolta alla comprensione dei meccanismi psicologici all’origine della sofferenza (yonisomanasikāra), e 2) il ricevere istruzioni (da parte di un Buddha o di un suo discepolo) su come comprendere tali meccanismi:
“Dveme, bhikkhave, paccayā sammādiṭṭhiyā uppādāya. Katame dve? Parato ca ghoso, yoniso ca manasikāro. Ime kho, bhikkhave, dve paccayā sammādiṭṭhiyā uppādāyā”ti.
“Due sono, o Monaci, le condizioni per il sorgere della comprensione armoniosa. Quali due? l’esortazione esterna, e l’attenzione rivolta all’origine. Queste due, o monaci, sono le condizioni per il sorgere della corretta comprensione.
– Āsāduppajahavagga, AN 2, 126
La pratica di Sati consiste nel dirigere volontariamente l’attenzione verso qualcosa: il respiro, il movimento, le parti del corpo, le sensazioni piacevoli o sgradevoli, gli stati mentali positivi o negativi, o la natura dei fenomeni stessa.
Tale consapevolezza è attiva persino negli stadi di meditazione senza oggetto (arūpasamādhi), focalizzata sull’assenza di oggetti mentali (emozioni, pensieri, o altri oggetti di meditazione come il respiro eccetera).
Nella psicologia buddhista, Sati è un fattore mentale concomitante (secondario) che accompagna l’esperienza di un oggetto (coscienza); Sati non può quindi esistere senza un oggetto di riferimento: Sono consapevole di qualcosa, e quella consapevolezza dipende proprio dalla presenza di quel qualcosa.
Sati è quindi un mero fattore mentale, condizionato e contingente, soggetto alla legge naturale del sorgere, persistere e svanire in accordo a cause e condizioni.
Dal Discorso esteso sui fondamenti della consapevolezza:
“E come, un monaco è consapevole delle mente nelle mente?
“Un monaco, quando nella mente vi è passione, è consapevole che nella mente c’è passione. Quando nella mente non vi è passione, è consapevole che nella mente non c’è passione. Quando nella mente vi è avversione, è consapevole che nella mente c’è avversione. Quando nella mente non vi è avversione, è consapevole che nella mente non c’è avversione. Quando nella mente vi è ignoranza, è consapevole che nella mente c’è delusione. Quando nella mente non vi è ignoranza, è consapevole che nella mente non c’è delusione.
‘Quando la mente è limitata, è consapevole che la mente è limitata. Quando la mente è agitata, è consapevole che la mente è agitata. Quando la mente è esaltata, è consapevole che la mente è esaltata. Quando la mente non è esaltata, è consapevole che la mente non è esaltata. Quando la mente è trascesa, è consapevole che la mente è trascesa. Quando la mente non è trascesa, è consapevole che la mente non è trascesa. Quando la mente è concentrata, è consapevole che la mente è concentrata. Quando la mente non è concentrata, è consapevole che la mente non è concentrata. Quando la mente è libera, è consapevole che la mente è libera. Quando la mente non è libera, è consapevole che la mente non è libera.
In questo modo dimora contemplando la [natura della] mente-cuore nella mente cuore in riguardo a Sé stesso, o dimora contemplando [la natura]della mente nella mente in riguardo alla mente-cuore altrui, o dimora contemplando [la natura] della mente nella mente, in riguardo alla propria ed altrui mente,
Oppure dimora contemplando il sorgere di uno stato della mente, ed il suo svanire, il sorgere e lo svanire della mente; La sua consapevolezza che “esiste la mente” viene mantenuta fino allo stato di più alta conoscenza e di piena attenzione. Egli rimane libero e nulla brama al mondo. Così un monaco rimane concentrato sulla mente in essa e su essa.”
-Mahāsatipaṭṭhānasutta, DN 22
Come possiamo notare dal testo sopracitato, Il praticante prova ogni sorta di emozione, come qualunque altra persona; le emozioni fanno parte della vita. Il punto della pratica è riconoscere cosa si sta provando, e “mollare la presa”, che in sostanza significa smettere di alimentare il circolo vizioso emotivo che ci porta a soffrire.
L’abbandono avviene naturalmente, grazie alla comprensione della natura incostante e dolorosa dell’attaccamento alle emozioni, e ciò è possibile tramite la coltivazione della presenza mentale o consapevolezza, uno stato di centratura nel presente.
Il lavoro sulle emozioni ed il nostro agire nel quotidiano, in un mondo fatto di eventi e relazioni, operano su due piani distinti ma collegati: Interiormente, coltiviamo l’arte dell’accettazione, lasciando andare ciò che è nocivo; esteriormente, qualora ve ne fosse la necessità, andremo a lavorare con quegli aspetti del nostro stile di vita, relazioni, lavoro, stili di vita, modificando nel concreto ciò che ci procura inutili stress e sofferenze non necessarie.
D’altro canto, una mente chiara e serena è certamente molto più adatta ed efficace a lavorare sull’interpersonale di una dominata dall’egoismo, dalla paura e della rabbia.
Lasciare andare non significa indifferenza o apatia. Il lasciare andare è basato sulla comprensione della realtà, l’indifferenza sulla rassegnazione o sull’individualismo.
Meditare non significa arrestare i pensieri ma esattamente il contrario: lasciarli fluire, rimanendo tuttavia attenti, consci o consapevoli che dir si voglia.
L’attenzione rimane centrata, mentre i pensieri, quelli belli e quelli meno belli, vanno e vengono. In meditazione, ci limitiamo a osservare il sorgere e lo svanire delle cose, delle sensazioni, dei pensieri e delle emozioni, dei ricordi etc.
La chiave della pratica è l’osservazione: l’essere testimoni. Per fare ciò, abbiamo bisogno di imparare a focalizzare l’attenzione, e per questa ragione, all’inizio lavoriamo con tecniche di base quali la consapevolezza del respiro;
Una volta divenuti capaci di essere consapevoli, possiamo passare all’introspezione della mente-cuore, esplorandone la natura essenziale: sorgere, svanire, sorgere e svanire…
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