Il Nobile ottuplice sentiero

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Il “trono di diamante” ai piedi dell’Albero del Risveglio, Bodhagaya.

 

Il Nobile Ottuplice Sentiero è la quarta delle nobili verità insegnate dal Buddha, ed è conosciuto in pāli con il nome di Ariya aṭṭhaṅgika magga. Esso è detto nobile o ariya in quanto la sua funzione è di condurre (yāti) fuori dalla portata del nemico (ari), dove con nemico si intendono i veleni interiori causa di sofferenza.

Il Nobile Ottuplice Sentiero è lo strumento ed al tempo stesso il percorso ideato dal Buddha per condurre il praticante all’estinzione della sofferenza del samsara, alla risoluzione cioè del doloroso dilemma esistenziale che si dispiega senza sosta fra i due momenti fondamentali dell’esistenza di nascita e morte.

Ai fini didattici, il sentiero per la liberazione è presentato nella forma di otto elementi concatenati fra loro, in cui ogni elemento dipende da quello che lo precede; tuttavia si tratta solo di una suddivisione teorica; nella pratica è un unico processo graduale di comprensione e liberazione.

Quando il sentiero è presentato assieme ai suoi frutti, allora gli elementi diventano dieci, includendo così anche la corretta conoscenza e la corretta liberazione, come nel discorso che introdurremo per primo in questo articolo.

Nell’esposizione classica, ogni elemento del sentiero è preceduto dall’aggettivo ‘giusto’ o ‘armonioso’traduzione del termine pāli samma, vocabolo derivante dalla radice saṃ, parente dell’inglese ‘same’ (uguale). Samma sta ad indicare qualcosa di ben fatto, bilanciato, armonioso, in accordo alla principio della via di mezzo fra gli opposti estremi di indulgenza e mortificazione.

1: La comprensione armoniosa (Sammādiṭṭhi)

Katamā ca bhikkhave, sammādiṭṭhi? Yaṃ kho bhikkhave, dukkhe ñāṇaṃ dukkhasamudaye ñāṇaṃ dukkhanirodhe ñāṇaṃ dukkhanirodhagāminiyā paṭipadāya ñāṇaṃ, ayaṃ vuccati bhikkhave, sammādiṭṭhi.

“Cos’è o monaci, la corretta comprensione? Ciò che è la conoscenza della sofferenza, conoscenza dell’origine della sofferenza, conoscenza della cessazione della sofferenza, conoscenza del cammino conducente alla cessazione della sofferenza, questa o monaci, è chiamata corretta comprensione.”

La corretta comprensione è la prima fondamentale realizzazione del fatto che in noi è presente la sofferenza esistenziale, che questa ha origine dalle afflizioni, che la sua cessazione dipende dall’abbandono di tali afflizioni e che per poter arrivare a tale cessazione bisogna sviluppare in maniera completa il sentiero per la liberazione.

La corretta comprensione dipende da due fattori importanti: 1) l’attenzione saggia, attenzione rivolta all’origine delle cose (yonisomanasikāra), e 2) L’esortazione da parte di un Buddha (o di un suo discepolo) circa la natura intrinsecamente insoddisfacente, incerta e dolorosa dell’esistenza, e sull’impossibilità di ottenere soddisfazione duratura tramite le consuete strategie dettate dal desiderio sensuale, dalla sete di esistenza e dalla sete di non essere:

“Dveme, bhikkhave, paccayā sammādiṭṭhiyā uppādāya. Katame dve? Parato ca ghoso, yoniso ca manasikāro. Ime kho, bhikkhave, dve paccayā sammādiṭṭhiyā uppādāyā”ti.

“Due sono, o Monaci, le condizioni per il sorgere della corretta comprensione. Quali due? l’esortazione di un altro, e l’attenzione rivolta all’origine. Queste due, o monaci, sono le condizioni per il sorgere della corretta comprensione.

– Āsādup­paja­ha­vagga, AN 2, 126

Due tipi di comprensione armoniosa

Nel Mahā­cat­tārīsa­kasutta o Discorso esteso sulla quarantina, (MN117) viene spiegato che la corretta comprensione ha due livelli, uno funzionale, relativo alla comprensione della legge di causa ed effetto, ed uno ultramondano, relativo alla comprensione della realtà ultima dei fenomeni per mezzo della saggezza. La prima è definita come condizionata dagli inquinanti (sāsavā), legata all’acquisizione dei meriti (puññabhāgiyā), e avente come risultato l’acquisizione dei sostrati per una nuova rinascita nel doloroso ciclo del samsara (upadhivepakkā); la seconda è invece definita come propria di una mente nobile (ariyacittassa), la quale è libera dai veleni interiori (anāsa­va­cittassa), dotata del nobile sentiero (ariya­magga­sam­gino), intenta alla sviluppo del nobile sentiero (ariyamaggaṃ bhāvayato):

Katamā ca, bhikkhave, sammādiṭṭhi? Sammā­diṭṭhim­pahaṃ, bhikkhave, dvāyaṃ vadāmi—atthi, bhikkhave, sammādiṭṭhi sāsavā puññabhāgiyā upadhivepakkā; atthi, bhikkhave, sammādiṭṭhi ariyā anāsavā lokuttarā maggaṅgā.

“Cos’è, o monaci, la comprensione armoniosa? in realtà Io vi dico che ci sono due forme di comprensione armoniosa; C’è una comprensione contaminata, conducente all’acquisizione del merito, avente come risultato l’acquisizione dei sostrati a rinnovata esistenza e una comprensione armoniosa nobile, priva di contaminazioni, trascendente il mondo, fattore del sentiero.”

La comprensione armoniosa convenzionale

Katamā ca, bhikkhave, sammādiṭṭhi sāsavā puññabhāgiyā upadhivepakkā? ‘Atthi dinnaṃ, atthi yiṭṭhaṃ, atthi hutaṃ, atthi sukata­dukka­ṭā­naṃ kammānaṃ phalaṃ vipāko, atthi ayaṃ loko, atthi paro loko, atthi mātā, atthi pitā, atthi sattā opapātikā, atthi loke samaṇabrāhmaṇā sammaggatā sammāpaṭipannā ye imañca lokaṃ parañca lokaṃ sayaṃ abhiññā sacchikatvā pavedentī’ti—ayaṃ, bhikkhave, sammādiṭṭhi sāsavā puññabhāgiyā upadhivepakkā.

“Ma cos’è, o monaci, la comprensione armoniosa contaminata, conducente all’acquisizione del merito, avente come risultato l’acquisizione dei sostrati conducenti a rinnovata esistenza?  ‘esiste il dono, esiste l’offerta esiste il sacrificio, esistono felicità e sofferenza come frutto e risultato delle azioni, esiste questo mondo, esiste l’altro mondo, esiste la madre, esiste il padre, esistono esseri nati spontaneamente, esistono in questo mondo degli asceti e bramini buoni e virtuosi i quali avendo realizzato da se stessi tramite conoscenza diretta, dichiarano l’esistenza di questo mondo e del mondo aldilà’. Questa è, o monaci, la comprensione armoniosa contaminata, conducente all’acquisizione del merito, avente come risultato l’acquisizione dei sostrati conducenti a rinnovata esistenza.”

In breve, la comprensione armoniosa convenzionale è la comprensione delle legge di causa ed effetto, comprensione che ha la funzione di trascendere la concezione nichilista dell’esistenza secondo la quale non vi sarebbero risultati – buoni o cattivi delle azioni virtuose commesse, come ad esempio la generosità –  nel presente e/o nel futuro.

La comprensione armoniosa trascendente

Katamā ca, bhikkhave, sammādiṭṭhi ariyā anāsavā lokuttarā maggaṅgā? Yā kho, bhikkhave, ariyacittassa anāsa­va­cittassa ariya­magga­samaṅ­gino ariyamaggaṃ bhāvayato paññā paññindriyaṃ paññābalaṃ dhamma­vicaya­sam­boj­jhaṅgo sammādiṭṭhi maggaṅgaṃ—ayaṃ vuccati, bhikkhave, sammādiṭṭhi ariyā anāsavā lokuttarā maggaṅgā. 

“E qual’è, o monaci, la comprensione armoniosa nobile, priva di contaminazioni, trascendente il mondo, fattore del sentiero? Quella saggezza, quella facoltà della saggezza, quel potere della saggezza, l’investigazione della realtà come fattore conducente al risveglio, quella corretta comprensione che è parte del sentiero, propria della mente nobile, libera dalle contaminazioni, dotata del nobile sentiero, intenta allo sviluppo del nobile sentiero; questa, o monaci, è la comprensione armoniosa nobile, priva di contaminazioni, trascendente il mondo.”

In altre parole, la comprensione armoniosa trascendente è lo sviluppo della mente nobile o mente di saggezza, la quale ha la facoltà e il potere di investigare la vera natura delle cose, e condurre così al risveglio alla piena comprensione della realtà dell’esistenza, nei termini della quattro nobili verità.

La comprensione armoniosa è la porta d’accesso allo sviluppo degli altri fattori del sentiero, la condizione sine qua non al fine della coltivazione dei restanti fattori culminanti nel corretto raccoglimento. Essa necessita tuttavia dell’ausilio degli altri elementi che compongono il Nobile Sentiero per la liberazione:

So micchādiṭṭhiyā pahānāya vāyamati, sammādiṭṭhiyā, upasampadāya, svāssa hoti sammāvāyāmo. So sato micchādiṭṭhiṃ pajahati, sato sammādiṭṭhiṃ upasampajja viharati, sāssa hoti sammāsati. Itiyime tayo dhammā sammādiṭṭhiṃ anupa­ri­dhāvanti anu­pari­vattanti, seyyathidaṃ—sammādiṭṭhi, sammāvāyāmo, sammāsati.

“Egli si impegna nell’abbandonare la comprensione erronea, nel prendere dimora nella comprensione armoniosa: Ciò è in lui sforzo armonioso; Consapevole egli abbandona la comprensione erronea, consapevole egli accede e dimora nella comprensione armoniosa: Ciò è in lui consapevolezza armoniosa. In questo modo, questi tre elementi si susseguono vorticando in circolo attorno alla comprensione armoniosa, ovvero: comprensione armoniosa, applicazione armoniosa e consapevolezza armoniosa .”

2: Aspirazione/intenzione armoniosa (sammāsaṅkappa)

Katamo ca, bhikkhave, sammāsaṅkappo? Yo kho, bhikkhave, nekkham­ma­saṅkappo, abyāpā­da­saṅkappo, avihiṃ­sā­saṅkappo—ayaṃ vuccati, bhikkhave, sammāsaṅkappo.

“E qual’è, o monaci, l’aspirazione armoniosa? L’intenzione/aspirazione alla rinuncia, l’intenzione alla non avversione, l’intenzione di non nuocere; questa o  monaci, è detta la aspirazione armoniosa.”

-Mahā­sati­paṭṭhā­na­sutta, DN, 22. 

Sammāsaṅkappa, l’aspirazione/risoluzione armoniosa, è il secondo elemento del nobile ottuplice sentiero, ed ha come propria base la corretta comprensione o sammādiṭṭhi; 

Il termine saṅkappa è composto dal prefisso ‘saṅ”, insieme, e dal causativo ‘kappeti’,letteralmente: modellare, dare forma, preparare; questo verbo deriva a sua volta dalla radice verbale ‘kappa’, forma, figura, configurazione; saṅkappeti indica quindi l’atto del plasmare, di dare forma o configurare la propria attitudine mentale in una maniera coerente con la corretta comprensione ovvero con la consapevolezza dell’esistenza della sofferenza, delle sue cause, della possibilità di porvi fine e del sentiero per arrivare a ciò.

Avendo compreso la natura insoddisfacente dell’esistenza ciclica condizionata, ed avendo intuito che tale insoddisfazione è il prodotto degli stati mentali afflitti quali l’avversione e l’ignoranza, il ricercatore spirituale adotterà spontaneamente la risoluzione o intenzione di abbandonare quei comportamenti e quegli stati d’animo alla base di ciò;

Per questa ragione il Buddha ha spiegato la corretta intenzione nei termini di abbandono o rinuncia (nekkham­ma) a tutti quei comportamenti e dinamiche interiori ed esteriori aventi come risultato un incremento della sofferenza.

In questo contesto, con rinuncia non si intende un sentimento negativo e vagamente moralista nei confronti della vita sociale e affettiva, ma un’astensione volontaria e consapevole da ciò che è causa diretta di insoddisfazione, come l’indugiare in stati emotivi colmi d’avversione verso se stessi e gli altri; la rinuncia di cui parla il Buddha è un astenersi (ne) dal mettere passione (kāmain ciò che causa sofferenza

Nekkham­ma è libertà di non agire, è disimpegno, libertà dalla coercizione imposta dall’ignoranza di perseguire la felicità e la soddisfazione in modi che in un ultima analisi non faranno altro che rafforzare la frustrazione e l’insoddisfazione profonda.

abyāpā­da vuol dire non (a) avversione, (byāpā­da), uno degli ostacoli principali alla meditazione profonda ed alla liberazione.

avihiṃ­sā­ vuol dire non (a) violenza, o crudeltà (vihiṃ­sā), la pulsione a nuocere a se e/o agli altri. La risoluzione o intenzione di abbandonare tali stati d’animo, è de facto, la risoluzione di muoversi da uno stato di offuscamento e confusione verso la chiarezza e la libertà.

L’aspirazione armoniosa è, assieme alla comprensione armoniosa, il fondamento per la coltivazione dell’etica, il cui significato è il non creare ulteriore sofferenza. La risoluzione di astenersi da certi tipi di comportamenti deve essere inquadrata nell’ambito della prospettiva di una graduale eliminazione delle cause del perpetuarsi della sofferenza.

In quanto tale l’etica buddhista non è fine a se stessa, ma puramente teleologica, avendo uno scopo -la liberazione dal samsara- ben precisa. Il carattere puramente pedagogico dell’etica è mirabilmente espresso nel Kimatthiya sutta, il ‘discorso circa la funzione’:

“Kimatthiyāni, bhante, kusalāni sīlāni kimānisaṃsānī”ti? “Avippa­ṭisārat­thāni kho, ānanda, kusalāni sīlāni avippa­ṭisārā­nisaṃ­sānī”ti.

“Qual’è lo scopo, o Signore, e qual’è il beneficio del comportamento virtuoso?” “il non rimorso, o Ānanda è lo scopo del comportamento virtuoso, il non rimorso è il beneficio.”

“Avippaṭisāro pana, bhante, kimatthiyo kimānisaṃso”ti? “Avippaṭisāro kho, ānanda,pāmojjattho pāmojjānisaṃso”ti.

“Ma Signore, qual’è lo scopo, e qual’è il beneficio del non rimorso?” “Ānanda, lo scopo ed il beneficio del non rimorso è la contentezza.”

“Pāmojjaṃ pana, bhante, kimatthiyaṃ kimānisaṃsan”ti? “Pāmojjaṃ kho, ānanda, pītatthaṃ pītānisaṃsan”ti.

“Ma Signore, qual’è lo scopo, qual’è il beneficio della contentezza?” “Ānanda, lo scopo ed il beneficio della contentezza è la gioia.”

“Pīti pana, bhante, kimatthiyā kimānisaṃsā”ti? “Pīti kho, ānanda, passaddhatthā passad­dhā­nisaṃsā”ti.

“Ma Signore, qual’è lo scopo e qual’è il beneficio della gioia?” “Ānanda, lo scopo ed il beneficio della gioia è la quiete interiore.”

“Passaddhi pana, bhante, kimatthiyā kimānisaṃsā”ti? “Passaddhi kho, ānanda, sukhatthā sukhānisaṃsā”ti.

“Ma Signore, qual’è lo scopo della calma interiore?” “Ānanda, la felicità è lo scopo ed il beneficio della quiete interiore.”

“Sukhaṃ pana, bhante, kimatthiyaṃ kimānisaṃsan”ti? “Sukhaṃ kho, ānanda, samādhatthaṃ samā­dhā­nisaṃ­san”ti.

“Ma Signore, qual’è lo scopo e qual’è il beneficio della felicità?” “Ānanda, il raccoglimento è lo scopo ed il beneficio della felicità.”

“Samādhi pana, bhante, kimatthiyo kimānisaṃso”ti? “Samādhi kho, ānanda, yathā­bhūta­ñāṇadas­sanat­tho yathā­bhūta­ñāṇadas­sanā­nisaṃso”ti.

“Ma Signore, qual’è lo scopo, qual’è il beneficio del raccoglimento?” “Ānanda, la conoscenza e la visione delle cose per come sono realmente è lo scopo ed il beneficio del Raccoglimento.”

“Yathā­bhūta­ñāṇadas­sanaṃ pana, bhante, kimatthiyaṃ kimānisaṃsan”ti? “Yathā­bhūta­ñāṇadas­sanaṃ kho, ānanda, nibbidā­virāgat­thaṃ nibbidā­virā­gā­nisaṃ­san”ti.

“Ma Signore, qual’è lo scopo, qual’è il beneficio della conoscenza e della visione delle cose per come sono realmente?” “Ānanda, disincanto e distacco sono lo scopo ed il beneficio della conoscenza e della visione delle cose per come sono realmente.”

“Nibbidāvirāgo pana, bhante, kimatthiyo kimānisaṃso”ti? “Nibbidāvirāgo kho, ānanda, vimutti­ñāṇadas­sanat­tho vimutti­ñāṇadas­sanā­nisaṃso.

“Ma Signore, qual’è lo scopo, qual’è il beneficio di disincanto e distacco?” “Ānanda, la conoscenza e la visione della liberazione sono lo scopo ed il beneficio di disincanto e distacco.”

In breve, possiamo dire che la funzione della pratica del comportamento virtuoso è quella di evitare di creare altra sofferenza.

3: La parola armoniosa (sammāvācā)

“Katamā ca bhikkhave, sammāvācā: yā kho bhikkhave, musāvādā veramaṇī pisunāya vācāya veramaṇī pharusāya vācāya veramaṇī samphappalāpā veramaṇī ayaṃ vuccati bhikkhave, sammāvācā.”

“E cosa, o monaci, è la parola armoniosa? L’astenersi dal mentire,  l’astenersi dalla parola che è causa di discordia, l’astenersi dalla parola violenta, l’astenersi dai discorsi futili. Questo, o monaci, è chiamata parola armoniosa.”

E’ facile comprendere l’importanza dell’uso della parola nella vita quotidiana, e come, molti dei nostri problemi a livello interpersonale derivino da un uso non consapevole della comunicazione; Possiamo vedere quindi l’importanza – a livello pratico- dell’attenzione e della chiara consapevolezza insegnati dal Buddha, che, lungi dall’essere un mero strumento finalizzato ad un benessere temporaneo, è invece una qualità da coltivare  e applicare in ogni fase della vita.

4: L’agire armonioso (sammākammanta)

“Katamo ca bhikkhave, sammākammanto: yā kho bhikkhave, pāṇātipātā veramaṇī adinnādānā veramaṇī kāmesu­micchā­cārā veramaṇī, ayaṃ vuccati bhikkhave, sammākammanto.”

“E cos’è, o monaci, l’agire armonioso? Monaci, l’astenersi dal togliere la vita, l’astenersi dal prendere ciò che non vi è stato dato, l’astenersi da una condotta sessuale scorretta, questo o monaci è chiamato agire armonioso.”

La condotta sessuale

“Kāmesu micchācārī hoti, yā tā māturakkhitā piturakkhitā ­mātāpi­tu­rak­khitā bhāturakkhitā bhagi­ni­rak­khitā ñātirakkhitā gottarakkhitā dhammarakkhitā sasāmikā saparidaṇḍā antamaso mālā­guḷa­parik­khit­tāpi, tathārūpāsu cārittaṃ āpajjitā hoti.”   

“In questo modo Egli si comporta erroneamente in riguardo ai piaceri sensuali, intrattenendo rapporti sessuali con chi 1)è sotto la tutela di madre, 2) sotto la tutela del padre 3)sotto la tutela di padre e madre, 4)sotto la tutela di un fratello maggiore, 5) sotto la tutela di una sorella maggiore, 6)la tutela di altri familiari, 7) sotto la tutela del clan di appartenenza, 8) sotto la tutela del Dhamma (monaci,monache), 9) sotto la tutela del coniuge, 10) con chi [per tale rapporto sarebbe soggetto] a punizione da parte della legge, 11) con chi ha già ricevuto la ghirlanda di fiori [simbolo del fidanzamento].

-AN10.211

 Dal suttanipata:

“Atītayobbano poso, Āneti timbarutthaniṃ, Tassā issā na supati,Taṃ parābhavato mukhaṃ”

“Un uomo, la cui giovinezza è ormai passata, che si accompagna con una ragazza il cui seno è della misura di un piccolo frutto timbaru, e per gelosia non riesce neppure a dormire: questo è ciò che porta della rovina”. 

-Sutta Nipata, 1.6, Parabhavo sutta.

Un passaggio criptico, il cui significato è oggetto di controversie, è contenuto nel Cakkavatti sihanada sutta, DN26, discorso a carattere mitologico nel quale viene esposta una sorta di profezia sulla degenerazione dei costumi e della vita degli esseri umani, fino al giorno in cui apparirà il Buddha Maitreya ad esporre di nuovo il Dharma:

“Pañca­vassasa­tāyu­kesu, bhikkhave, manussesu tayo dhammā vepulla­magamaṃsu— adhammarāgo visamalobho micchādhammo.”

“Monaci, fra coloro i quali la lunghezza della vita sarà di 500 anni, tre cose incrementeranno: 1)passione contro natura(incesto), desiderio squilibrato e pratiche erronee.”

Secondo il commentatore Indiano Buddhagosa, con micchādhammo si intenderebbe l’omosessualità, ma in realtà non vi è alcuna prova che questa sua interpretazione sia corretta. L’omosessualità era diffusa in india ai tempi del Buddha, il quale – come possiamo notare leggendo le descrizioni didascaliche indicanti le pratiche sessuali improprie-  non la considerava in contrasto con la pratica del Dharma;

il Fatto che alcuni esponenti di altre scuole buddhiste sorte successivamente considerino l’omosessualità come contraria al Dharma, è dovuto a sviluppi dottrinali successivi, determinati dall’incontro-scontro con culture diverse come quella greca, diffusasi nel nord est dell’India a seguito della spedizioni guidate da Alessandro Magno,e viste da certi esponenti del tardo buddhismo indiano come  i Mulasarvastivadin – responsabili della diffusione del lignaggio monastico in Tibet-   come pratiche “barbare di popoli stranieri”.

Il senso di tali prescrizioni sta nell’evitare di creare nuova sofferenza a se stessi e agli altri; bisogna sempre tenere a mente che non si tratta di comandamenti divini ma di addestramenti graduali (sikkhapada) e come tali, praticati intelligentemente,senza dogmatismi antistorici e fuori contesto, privilegiando una comprensione psicologica dell’importanza del coltivare i fattori ad un’interpretazione meramente legalistica e dogmatica.

5: Stile di vita armonioso (sammāājīvo)

Katamo ca bhikkhave, sammāājīvo: idha bhikkhave, ariyasāvako micchāājīvaṃ pahāya sammāājīvena jīvikaṃ kappeti, ayaṃ vuccati bhikkhave, sammāājīvo.

“E cos’è, o monaci, lo stile di vita armonioso? Ecco, o monaci, un nobile discepolo abbandona gli stili di vita erronei e assume uno stile di vita corretto; Questo, o monaci, è detto stile di vita armonioso.”

Il significato di questa descrizione stringata è esposto nel Vaṇijjāsutta (Il commercio),  in cui il Buddha spiega quali siano i mezzi di sostentamento in dissonanza con la pratica del Dharma:

“Pañcimā, bhikkhave, vaṇijjā upāsakena akaraṇīyā. Katamā pañca? Satthavaṇijjā, sattavaṇijjā, maṃsavaṇijjā, majjavaṇijjā, visavaṇijjā—imā kho, bhikkhave, pañca vaṇijjā upāsakena akaraṇīyā”ti.

“Monaci, un praticante laico dovrebbe astenersi da cinque tipi di commercio: Quali cinque? Commercio di armi, commercio di esseri umani, commercio di carni, commercio di sostanze intossicanti, commercio di sostanze velenose; queste, o monaci, sono le cinque attività da cui un laico dovrebbe astenersi”.

-Vaṇijjāsutta AN5.

Perché tutto ciò? perché la produzione e la diffusione di tali sostanze è causa di sofferenza a livello fisico e mentale, di problemi di carattere sociale quali l’alcolismo, di sofferenza diretta ed indiretta per tutti i soggetti coinvolti.

6: l’applicazione armoniosa (sammāvāyāma)

“Katamo ca bhikkhave, sammāvāyāmo: idha bhikkhave, bhikkhu anuppannānaṃ pāpakānaṃ akusalānaṃ dhammānaṃ anuppādāya chandaṃ janeti vāyamati viriyaṃ ārabhati cittaṃ paggaṇhāti padahati. Uppannānaṃ pāpakānaṃ akusalānaṃ dhammānaṃ pahānāya chandaṃ janeti vāyamati viriyaṃ ārabhati cittaṃ paggaṇhāti padahati. Anuppannānaṃ kusalānaṃ dhammānaṃ uppādāya chandaṃ janeti vāyamati viriyaṃ ārabhati cittaṃ paggaṇhāti padahati. Uppannānaṃ kusalānaṃ dhammānaṃ ṭhitiyā asammosāya bhiyyobhāvāya vepullāya bhāvanāya pāripūriyā chandaṃ janeti vāyamati viriyaṃ ārabhati cittaṃ paggaṇhāti padahati, ayaṃ vuccati bhikkhave, sammāvāyāmo”.

“E cos’è, o Monaci, l’applicazione armoniosa? ecco monaci, un monaco genera desiderio, si applica, suscita energia, applicazione mentale e impegno al fine di impedire che stati mentali non salutari non ancora sorti possano sorgere; Genera desiderio, si applica, suscita energia, applicazione mentale e impegno al fine di abbandonare gli stati mentali non salutari già sorti; Genera desiderio, si applica, suscita energia, applicazione mentale e impegno al fine di generare stati mentali salutari non ancora sorti e genera desiderio, si applica, suscita energia, applicazione mentale e impegno al fine di stabilizzare, mantenere, incrementare, estendere, sviluppare e completare quegli stati mentali salutari già sorti. Questa, o monaci, è l’applicazione armoniosa.”

La pratica dell’applicazione armmoniosa ha la funzione di predisporre la mente allo sviluppo della consapevolezza e del raccoglimento. Ciò avviene purificando la mente dai cinque ostacoli (pañcanīvaraṇa) di desiderio sensuale, avversione, torpore e pigrizia, agitazione e rimorso e dubbio, attraverso la coltivazione dei relativi antidoti:

1:Desiderio sensuale: Contemplare gli svantaggi della sensualità e la sgradevolezza degli oggetti dei sensi; riflettere sulla natura instabile ed insoddisfacente della sete di piacere e dell’insostanzialità delle cose.

2:Avversione: coltivare la meditazione di amorevole gentilezza, compassione, gioia altruistica ed equanimità.

3:Torpore e pigrizia: Il riflettere sulla morte e l’impermanenza, la meditazione camminata o stando in piedi; in meditazione, aprire gli occhi, lavarsi la faccia, strofinarsi il viso con le mani, tirare delicatamente i lobi delle orecchie, o in ultima analisi, andare a riposare.

4:Agitazione e rimorso: La contemplazione del respiro;

5:Dubbio: Per quanto riguarda il dubbio sulla pratica, bisogna approfondire gli aspetti teorico pratici sui quali si nutrono dubbi con un istruttore o persona competente, praticare e fare esperienza ‘sul campo’, mentre Il dubbio circa la natura dell’esistenza viene dissolto nel momento in cui viene pienamente realizzata l’origine dipendente dell’esistenza condizionata stessa, e la natura illusoria dell’Io sostanzialmente esistente che dubita circa la sua stessa modalità d’esistere.

Nel discorso a Meghiya il Buddha spiega:

“meghiya, bhikkhunā..cattāro dhammā uttari bhāvetabbā—asubhā bhāvetabbā rāgassa pahānāya, mettā bhāvetabbā byāpādassa pahānāya, ānāpānassati bhāvetabbā vitak­kupac­che­dāya, aniccasaññā bhāvetabbā asmi­māna­samug­ghātāya. Aniccasaññino hi, meghiya, anattasaññā saṇṭhāti, anattasaññī asmi­māna­samug­ghātaṃ pāpuṇāti diṭṭheva dhamme nibbānan”ti.

“Meghiya, un monaco dovrebbe coltivare questi quattro dhamma superiori: La percezione della sgradevolezza deve essere coltivata al fine di abbandonare la passionalità; l’amorevole gentilezza deve essere coltivata al fine di abbandonare la malevolenza, la consapevolezza del respiro deve essere coltivata al fine di placare il pensiero compulsivo, la percezione dell’impermanenza deve essere coltivata al fine di sradicare la presunzione dell’ ‘Io sono’. Meghiya, colui che percepisce l’impermanenza si stabilisce nella percezione del non-sé, e colui che percepisce il non-sé, sradica la presunzione dell’ ‘Io sono’, e realizza nel qui e ora la liberazione.”

-Meghiyasutta, Ud.4.1

7: La Consapevolezza armoniosa (sammāsati)

“Katamā ca bhikkhave, sammāsati: idha bhikkhave, bhikkhu kāye kāyānupassī viharati ātāpī sampajāno satimā vineyya loke abhijjhādomanassaṃ, vedanāsu vedanānupassī viharati ātāpī sampajāno satimā vineyya loke abhijjhādomanassaṃ, citte cittānupassī viharati ātāpī sampajāno satimā vineyya loke abhijjhādomanassaṃ, dhammesu dhammānupassī viharati ātāpī sampajāno satimā vineyya loke abhijjhādomanassaṃ. Ayaṃ vuccati bhikkhave, sammāsati”.

“E cos’è, o monaci, la consapevolezza armoniosa? Ecco o monaci, un monaco dimora contemplando il corpo entro il corpo*, energico, chiaramente comprendente e consapevole, avendo rimosso bramosia e scontento riguardo al mondo; Dimora contemplando le sensazioni entro le sensazioni, energico, chiaramente comprendente e consapevole, avendo rimosso bramosia e scontento riguardo al mondo; dimora contemplando la mente-cuore entro la mente cuore, energico, chiaramente comprendente e consapevole, avendo rimosso bramosia e scontento riguardo al mondo; dimora contemplando i fenomeni mentali entro i fenomeni mentali, energico, chiaramente comprendente e consapevole, avendo rimosso bramosia e scontento riguardo al mondo. Questa, o Monaci, è chiamata consapevolezza armoniosa.”

-Magga-vibhanga Sutta, SN 45.8

Il termine pali sati significa ‘ricordare’, vocabolo che nella nostra lingua vuol dire ‘riportare al cuore’; Nelle discipline antiche come il Buddhismo, il cuore era considerato il fulcro dell’esperienza intellettuale ed emotiva, la sede della mente, e per questa ragione, l’atto di riportare qualcosa all’attenzione della mente era detto ri-cor-dare.

Quando si tratta di riportare all’attenzione della mente eventi accaduti nel passato si parla di ricordo, mentre se si sta prestando attenzione a qualcosa che sta accadendo nel momento presente parliamo di osservazione consapevole o consapevolezza. Sati è così sinonimo di consapevolezza o attenzione al presente.

l’attenzione al presente di cui parla il Buddha è consapevolezza diretta, non mediata, ma tuttavia è pur sempre consapevolezza di qualcosa a cui stiamo deliberatamente prestando attenzione.

La differenza fra coscienza e consapevolezza risiede nel grado di valutazione dell’oggetto osservato: la coscienza si limita a registrare la presenza di un dato oggetto entro il campo dell’attenzione cosciente, mentre la sati produce una valutazione dell’oggetto esperito: Se, ad esempio, ci ritroviamo a sperimentare un momento di rabbia, la coscienza registrerà tale stato rabbioso come “che rabbia!”, mentre la consapevolezza riconoscerà che in questo momento: “In me c’è rabbia” o nelle fasi più profonde ” c’è rabbia”.

A scanso di equivoci, è utile rammentare che per una persona non ancora giunta alla piena maturazione spirituale, (lo stato risvegliato), entrambe queste due modalità di esperienza sono determinate dalla costruzione fondamentale dell’Io e del Mio:  (Io) sono arrabbiato, nel caso della coscienza priva di consapevolezza, e (Io) sono consapevole della rabbia, nel caso di un esperienza consapevole di tale stato d’animo.  Il senso dell’Io è presente anche durante gli stadi di meditazione più avanzati, incluso l’esercizio formale delle meditazione di consapevolezza o di qualsiasi altra forma di meditazione.

Solo i Buddha e gli Arahant, essendosi liberati dall’illusione di un Sé o Io sostanzialmente esistente, sono in grado di esperire gli oggetti della realtà fenomenica in una modalità non egoica.

Il Buddha era solito accompagnare il termine sati con un altro termine: Sampajañña, che letteralmente vuol dire chiara comprensione. Se il compito della sati è di riconoscere quanto sta accadendo per quello che è (sono arrabbiato e riconosco di esserlo), quello di Sampajañña è di comprendere chiaramente che quello stato di rabbia con i quale mi sono identificato, è di per se doloroso, oltreché mutevole e contingente. ( c’è rabbia in me, ma è uno stato emotivo doloroso che passerà e se ne andrà come tutte le altre volte, non è mio, non è il mio Sé..).

Il binomio sati-Sampajañña è quindi lo strumento per eccellenza nel sentiero verso l’emancipazione dalla sofferenza emotiva. in sintesi , Sati è osservazione, Sampajañña è chiara comprensione.

Il nostro modo cognitivo ordinario è uno stato di tipo riflessivo, ovvero uno stato in cui si pensa a  cose avvenute nel passato, che stanno avvenendo nel presente (ma senza consapevolezza e chiara comprensione) o che avverranno in futuro senza la benché minima consapevolezza di quanto stia accadendo nella mente né di quale sia la reale natura di quel pensato;

Senza consapevolezza, l’esperienza immediata (l’atto della percezione mentale di una serie di oggetti) diventa un’ esperienza meramente riflessiva, potenziale causa di errata comprensione circa la natura dell’oggetto esperito e dell’esperienza stessa.

Inoltre, senza l’attenzione vigile a fare da cuscinetto fra i nostri stati d’animo e le azioni o le parole che ne conseguono, il rischio di fare o dire cose sconsiderate e dannose per il nostro ed altrui benessere è molto più alto.

Tuttavia, bisogna ricordare che la consapevolezza è solo uno fra gli strumenti insegnati dal Buddha, che per altro necessita di essere contestualizzata nel più ampio contesto del sistema teorico pratico del Dharma Buddhista.

Grazie all’osservazione consapevole, la nostra esperienza immediata diventa osservazione diretta, e questo ci permette di poter comprendere quanto sta accadendo in presa diretta, minimizzando così le possibilità di una reazione disarmonica, sia dal punto di vista della reazione interna, (pensieri ed emozioni) che di quella esterna (parole, azioni e decisioni).

La consapevolezza si sviluppa all’interno di un sistema di valori etico-spirituali ed è a sua volta e propedeutica allo sviluppo di altri elementi, quali il raccoglimento profondo, l’equanimità e la comprensione. Tale sistema è proprio il Nobile ottuplice sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza, di cui la ‘Giusta Consapevolezza è il settimo elemento.

Il sistema insegnato dal Buddha al fine della coltivazione di una consapevolezza a tutto tondo è conosciuto con il nome di  Satipaṭṭhāna o fondamenti della consapevolezza; il termine deriva dall’unione di upatṭhāna, traducibile come ‘stabilire (ṭhāna) all’interno (upa)‘, e Sati, che come abbiamo già detto significa ricordo o nello specifico, consapevolezza, attenzione..

Il testo più importante per la comprensione della pratica dei quattro fondamenti della consapevolezza è il Satipaṭṭhānasutta o discorso sui fondamenti della consapevolezza.

In questo importante discorso, l’addestramento graduale alla consapevolezza è suddiviso in quattro aspetti o aree di lavoro, dal più grossolano al più sottile; le quattro aree sono:

1: la consapevolezza relativa al corpo  o kāyānupassanā,

2: la consapevolezza relativa alle sensazioni o vedanānupassanā,

3: la consapevolezza relativa alla mente -cuore, cittānupassanā,

4: la consapevolezza relativa alla reale natura degli oggetti mentali, dhammānupassanā.

Nella prima sezione, relativa all’esplorazione della corporeità, vengono proposti sei esercizi volti a favorire una comprensione intima della vera natura del nostro corpo, quali la consapevolezza del respiro, la consapevolezza delle parti del corpo, la consapevolezza posturale (inclusa la meditazione camminata), la consapevolezza circa le attività -come il muoversi, il parlare o il mangiare-, la consapevolezza degli elementi costituenti il corpo, ed infine la consapevolezza relativa alla natura impermanente del corpo umano.

Nella seconda sezione, l’attenzione viene posta sul dispiegarsi delle sensazioni – piacevoli, dolorose e neutre- nel momento presente, osservando il condizionamento prodotto sulla mente e sul comportamento da queste stesse sensazioni, grossolane (relative ai cinque sensi) e sottili (relative alla mente).

Nella terza sezione, quella dell’osservazione consapevole della mente -cuore, l’attenzione è posta sulla qualità affettiva del momento presente in maniera non giudicante, limitandosi cioè ad osservare quali stati mentali ed emotivi siano sorti sulla base dell’esperienze sensoriali, e come da essi dipenda l’esperienza di benessere o sofferenza, di pace o frustrazione in cui ci troviamo nel presente.

L’ultima sezione, quella relativa ai dhamma, propone una serie di contemplazioni il cui scopo è accertare la vera natura dell’esistenza condizionata: fra gli esercizi proposti vi sono la contemplazione relativa ai cinque impedimenti fondamentali, i cinque aggregati psicofisici base dell’esistenza stessa, le sei basi sensoriali, le quattro nobili verità e i sette fattori di risveglio; in questi esercizi, il praticante è invitato ad osservare la presenza o meno di questi dhamma o elementi nel proprio continuum mentale, e ad osservare come questi si formino, come persistano mutando e come infine svaniscano per via della loro stessa natura cangiante, allorché venute meno le cause della loro manifestazione.

La funzione della consapevolezza armoniosa

La pratica della consapevolezza armoniosa, quella consapevolezza basata sulla comprensione armoniosa,  ha diversi scopi, fra i quali:

1:Indurre uno stato di calma e tranquillità propedeutico all’esercizio dell’introspezione, come nel caso della meditazione sulla consapevolezza del respiro (samatha).

2: Sviluppare l’osservazione della vera natura delle cose (vipassanā).

3:Sostenere la coltivazione della condotta etica: la pratica del lasciar andare le attività causa di sofferenze e conflitti necessita dell’attenzione consapevole rivolta a ciò che stiamo facendo, pensando o dicendo. Questa forma di consapevolezza è detta Appamāda (sollecitudine).

La corretta consapevolezza è la base per lo sviluppo dell’ultimo fattore del Nobile Ottuplice Sentiero, il raccoglimento armonioso, che altro non è se non la coltivazione degli stadi di meditazione profonda (jhāna)

8: Il raccoglimento armonioso (sammāsamādhi)

“Katamo ca bhikkhave, sammāsamādhi: idha bhikkhave, bhikkhu vivicceva kāmehi vivicca akusalehi dhammehi savitakkaṃ savicāraṃ vivekajaṃ pītisukhaṃ paṭhamaṃ jhānaṃ upasampajja viharati. Vitakkavicārānaṃ vūpasamā ajjhattaṃ sampasādanaṃ cetaso ekodibhāvaṃ avitakkaṃ avicāraṃ samādhijaṃ pītisukhaṃ dutiyaṃ jhānaṃ upasampajja viharati. Pītiyā ca virāgā upekhako ca viharati, sato ca sampajāno sukhañca kāyena paṭisaṃvedeti. Yantaṃ ariyā ācikkhanti upekhako satimā sukhavihārīti taṃ tatiyaṃ jhānaṃ upasampajja viharati. Sukhassa ca pahānā dukkhassa ca pahānā pubbeva somanassadomanassānaṃ atthagamā adukkhaṃ asukhaṃ upekhāsatipārisuddhiṃ catutthaṃ jhānaṃ upasampajja viharati. Ayaṃ vuccati bhikkhave, sammāsamādhīti.”

“E cos’è, o monaci, il raccoglimento armonioso? Ecco o Monaci, un monaco,distaccatosi dai piaceri sensuali, distaccato dagli stati mentali non salutari, entra e dimora nel primo jhāna, dotato di pensiero applicato, pensiero sostenuto e di gioia e benessere nate dal distacco.

Con l’acquietarsi del pensiero applicato e del pensiero sostenuto, sviluppando la fiducia interiore e l’univocità mentale, egli entra e dimora nel secondo jhāna, il quale è privo di pensiero applicato e pensiero sostenuto ed è dotato di gioia e benessere sorte dal raccoglimento.

Con lo svanire della gioia, egli dimora equanime, consapevole e chiaramente comprendente, sperimentando  benessere corporeo, stato del quale i nobili dichiarano : ‘Egli dimora equanime, consapevole e felice’; in questo terzo jhāna egli entra e dimora.

Con l’abbandono di felicità e sofferenza, avendo precedentemente trasceso gioia e dolore, egli entra e dimora nel quarto jhāna, privo di sofferenza e felicità, dotato di consapevolezza equanime completamente purificata. Questo, o monaci, è chiamato raccoglimento armonioso.”

Magga-vibhanga Sutta, SN 45.8

“Yampidaṃ āsavānaṃ khayā … pe … yathābhūtaṃ ñāṇaṃ tampi samāhitassa vadāmi no asamāhitassa. Iti kho, bhikkhave, samādhi maggo, asamādhi kummaggo”ti.”

“Io vi dico che la conoscenza per come realmente è dell’immacolata liberazione delle mente, liberazione tramite saggezza, è per colui che è ben centrato e non per chi è privo di centratura. Monaci, Il samādhi è il sentiero, senza samādhi non vi è sentiero.”

-Sīhanādasutta, AN 6.64

Il termine samādhi deriva da saṃ + ā + dhā, dove ‘saṃa‘ sta per ‘bilanciato’ (simile all’inglese ‘same’- uguale) e ‘dhā’ ‘tenere’samādhi  significa quindi ‘mantenere l’equilibrio’ ‘bilanciamento’, ‘centratura’.  Non a caso, il samādhi è il fattore risvegliante che precede l’equanimità.

Nel Maggavibhanga Sutta, il Buddha definisce il samādhi nei termini dei quattro jhāna o stadi di meditazione profonda; a questo proposito, è utile ricordare che il termine jhāna deriva dal verbo jhāyi, il quale a sua volta significa ‘focalizzare’, allo stesso modo in cui una lente focale viene impiegata per focalizzare la luce solare al fine di accendere un fuoco (jhāpeti).

Il primo Jhāna:

“Vivicceva kamehi vivicca akusalehi dhammehi savitakkam savicaram vivekajam piti-sukham pathamam-jhanam upasampajja vihareyyanti”

“Distaccato dai desideri sensoriali, distaccato dai pensieri nocivi, raggiunge e dimora nel primo assorbimento meditativo (Jhāna), che è nato dal distacco e accompagnato dal pensiero applicato, dal pensiero costante, da gioia e benessere.”

Abbandonati gli ostacoli, il praticante entra nel primo stadio della meditazione profonda, il primo Jhāna; In questa fase, è necessario portare e riportare più e più volte l’attenzione all’oggetto di meditazione, dato che la concentrazione non è ancora stabile; Il portare e riportare l’attenzione all’oggetto sono detti vitakka e vicara, letteralmente il ‘pensiero applicato’ ed il ‘pensiero costante’. Tuttavia, il praticante sperimenta gioia interiore e benessere fisico (piti e sukha)  grazie al fatto di esseri affrancato, seppur temporaneamente, dai pensieri malsani quali la sete di piacere sensuale e dagli altri stati mentali nocivi.

Il secondo Jhāna

“vitakkavicārānaṃ vūpasamā ajjhattaṃ sampasādanaṃ cetaso ekodibhāvaṃ avitakkaṃ avicārā samādhijaṃ pītisukhaṃ dutiyaṃ jhānaṃ upasampajja viharati.”

“Con il dissolversi del pensiero applicato e del pensiero sostenuto raggiunge e dimora nel secondo Jhāna che è tranquillità interiore, l’unificazione (della mente), priva di pensiero applicato e sostenuto, e dotata di gioia e benessere.

Proseguendo nella meditazione, l’attenzione diverrà più stabile e la mente rimarrà naturalmente concentrata sull’oggetto, e questo per via del fatto che grazie all’esperienza di gioia e benessere sperimentate in meditazione, la pratica stessa diverrà un’esperienza piacevole e quindi attraente  per la mente; La mente umana persegue il piacere e rifugge il dolore; la strategia della meditazione, per lo meno in questa fase, consiste nel costruire uno stato piacevole alternativo a quello prodotto tramite la gratificazione sensoriale che diriga la mente verso il de-condizionamento, ovvero verso la libertà e l’emancipazione dal bisogno di cercare costantemente soddisfazione tramite gli oggetti dei sensi. In altre parole, ci emancipiamo dalla prigionia del bisogno costante di soddisfazione sensoriale per mezzo della soddisfazione spirituale.

Svaniranno così  vitakka e vicara, essendo terminata la loro funzione, ed allo stesso tempo si svilupperà la fiducia interiore (ajjhattaṃ sampasādana), ovvero la convinzione esperienziale che la meditazione è effettivamente efficace ai fini dell’emancipazione dal condizionamento dei veleni interiori. La gioia ed il benessere sperimentate in questa seconda fase nascono dall’unificazione della mente con le qualità neutre dell’oggetto di meditazione. La mente assume le sembianze di ciò che osserva: identificandosi con un pensiero negativo come ad esempio la rabbia, essa diventerà una mente rabbiosa, se invece si identifica con un oggetto virtuoso o neutro assumerà le stesse caratteristiche virtuose o neutre.

Il terzo Jhāna

“Pītiyā ca virāgā upekkhako ca viharati sato ca sampajāno sukhaṃ ca kāyena paṭisaṃ vedeti yantaṃ ariyā ācikkhanti upekkhako satimā sukhavihārīti taṃ tatiyaṃ jhānaṃ upasampajja viharati.”

“Con lo sfumare della gioia, egli dimora in equanimità, consapevole, e con una chiara comprensione, godendo di benessere nel corpo, raggiunge e dimora nel terzo Jhāna che i nobili (ariyas) chiamano: ‘Il dimorare in equanimità, consapevolezza e beatitudine. “

In questa terza fase della meditazione profonda, il meditante riconosce la natura condizionante della stessa gioia sperimentata precedentemente ed assume verso di essa un’atteggiamento di equanimità consapevole (upekkha-sati); In precedenza, avendo riconosciuto la natura condizionante dei veleni interiori, il praticante aveva rivolto la sua attenzione all’oggetto di meditazione -un oggetto virtuoso o per lo meno neutro- e questo suo voltare le spalle agli oggetti negativi aveva prodotto uno stato positivo  di gioia e benessere;  Ora egli riconosce che anche gli stati positivi hanno una natura precaria e contingente, sulla quale non può fare affidamento. Il benessere sperimentato in questa fase è puramente fisico, legato cioè all’esperienza di agio fisico indotto dalla meditazione, Nel discorso sulla consapevolezza del respiro, il Buddha chiarisce ulteriormente il funzionamento di questa esperienza meditativa:

“Pīti­paṭi­saṃ­vedī assasissāmī’ti sikkhati, ‘pīti­paṭi­saṃ­vedī passasissāmī’ti sikkhati; ‘sukha­paṭi­saṃ­vedī assasissāmī’ti sikkhati, ‘sukha­paṭi­saṃ­vedī passasissāmī’ti sikkhati; ‘citta­saṅ­khā­ra­paṭi­saṃ­vedī assasissāmī’ti sikkhati, ‘citta­saṅ­khā­ra­paṭi­saṃ­vedī passasissāmī’ti sikkhati; ‘passambhayaṃ cittasaṅkhāraṃ assasissāmī’ti sikkhati, ‘passambhayaṃ cittasaṅkhāraṃ passasissāmī’ti sikkhati.”

“‘Inspirerò sperimentando la gioia’, così egli si esercita, ‘espirerò sperimentando la gioia’, così egli si esercita; ‘Inspirerò sperimentando benessere’, così egli si esercita, ‘espirerò sperimentando benessere’, così egli si esercita; ‘inspirerò sperimentando il condizionante mentale’, così egli si esercita, ‘espirerò sperimentando il condizionante mentale’, così egli si esercita; Inspirerò pacificando il condizionante mentale’, così egli si esercita, ‘espirerò pacificando il condizionante mentale’, così egli si esercita.” 

-Ānā­pā­nassa­ti­sutta, MN, 118

Il quarto Jhāna

“Sukhassa ca pahāṇā dukkhassa ca pahāṇā pubbeva somanassadomanassānaṃ atthaṃgamā adukkhaṃ asukhaṃ upekkhāsatipārisuddhiṃ catutthaṃ jhānaṃ upasampajja viharati.”

“Con l’abbandono di benessere e sofferenza, con la precedente scomparsa di gioia e dolore, egli raggiunge e dimora nel quarto Jhāna, che non è né beatitudine né felicità, ma è la purezza diequanimità-consapevolezza. Questa si chiama giusta concentrazione.”

La quarta fase della meditazione profonda è fondamentalmente uno stato di equanimità dove le esperienze di felicità e dolore, di benessere e malessere, sono state rese incapaci di trascinarci nel vortice del condizionamento, perlomeno finché il meditante permane in questo stato. Lungi dall’essere uno stato di concentrazione privo di consapevolezza, la meditazione profonda è esperienza di pura consapevolezza ed equanimità (upekkhāsatipārisuddhi) oltre il dolore e la felicità (adukkhaṃasukhaṃ).

Lo scopo del Samādhi

La funzione del Samādhi è quella di rendere la mente bilanciata e composta, al fine di riconoscere la natura dolorosa dell’esistenza condizionata; In particolare, la coltivazione del Samādhi ha a che vedere con la comprensione diretta delle Quattro Nobili verità:

“Samādhiṃ, bhikkhave, bhāvetha. Samāhito, bhikkhave, bhikkhu yathābhūtaṃ pajānāti. Kiñca yathābhūtaṃ pajānāti? ‘Idaṃ dukkhan’ti yathābhūtaṃ pajānāti, ‘ayaṃ dukkhasamudayo’ti yathābhūtaṃ pajānāti, ‘ayaṃ dukkhanirodho’ti yathābhūtaṃ pajānāti, ‘ayaṃ duk­kha­nirodha­gāminī paṭipadā’ti yathābhūtaṃ pajānāti. Samādhiṃ, bhikkhave, bhāvetha. Samāhito, bhikkhave, bhikkhu yathābhūtaṃ pajānāti.

“Monaci, coltivate il Samādhi; Il Monaco la cui mente è raccolta, conosce le cose per come sono realmente. E quali cose egli conosce per come sono realmente? ‘Così è la sofferenza’-questo egli conosce per come realmente è, ‘questa è l’origine della sofferenza’-questo egli conosce per come realmente è, ‘questa è la cessazione della sofferenza’-questo egli conosce per come realmente è, ‘questa è la via che conduce alla cessazione della sofferenza’-questo egli conosce per come realmente è. Perciò, o monaci, coltivate il Samādhi; Il monaco raccolto, o monaci, conosce le cose per come realmente sono.”

-Samādhisutta, SN56.1 

“So evaṃ samāhite citte parisuddhe pariyodāte anaṅgaṇe viga­tū­pak­kilese mudubhūte kammaniye ṭhite āneñjappatte āsavānaṃ khayañāṇāya cittaṃ abhinīharati abhininnāmeti. So idaṃ dukkhanti yathābhūtaṃ pajānāti, ayaṃ duk­kha­sa­muda­yoti yathābhūtaṃ pajānāti, ayaṃ duk­kha­nirodhoti yathābhūtaṃ pajānāti, ayaṃ duk­kha­nirodha­gāminī paṭipadāti yathābhūtaṃ pajānāti.”

“Con la mente così raccolta, purificata e chiara, senza macchia, libera da impurità, agile, malleabile, salda e imperturbabile, egli la dirige e l’orienta verso la conoscenza della distruzione dei veleni interiori; Egli comprende: ‘Questo è il dolore, Questa è l’origine del dolore, Questa è la cessazione del dolore, Questo è il sentiero che conduce alla cessazione del dolore.”

-Samaññaphala Sutta, D.N. 2

Inoltre, un beneficio collaterale del samādhi è quello di produrre benessere in qualsiasi situazione ci si trovi:

Yato kho te, bhikkhu, ayaṃ samādhi evaṃ bhāvito hoti subhāvito, tato tvaṃ, bhikkhu, yena yeneva gagghasi phāsuṃyeva gagghasi, yattha yattha ṭhassasi phāsuṃyeva ṭhassasi, yattha yattha nisīdissasi phāsuṃyeva nisīdissasi, yattha yattha seyyaṃ kappessasi phāsuṃyeva seyyaṃ kappessasī”ti.

“Quando, o monaco, un tale samādhi è in tal modo coltivato e ben sviluppato, allora, o monaco, ovunque tu andrai,lì andrai in uno stato di benessere, ovunque tu starai, lì starai in uno stato di benessere, ovunque rimarrai, lì rimarrai in uno stato di benessere, ovunque dormirai,  lì dormirai confortevolmente.”

-Saṅkhittasutta, AN 8.36

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