«Iti kho, ānanda, kammaṃ khettaṃ, viññāṇaṃ bījaṃ, taṇhā sneho. Avijjānīvaraṇānaṃ sattānaṃ taṇhāsaṃyojanānaṃ hīnāya dhātuyā viññāṇaṃ patiṭṭhitaṃ evaṃ āyatiṃ punabbhavābhinibbatti hoti».
«Perciò Ānanda, l’intenzione è il campo fertile, la cognizione il seme e la sete il fertilizzante. La cognizione degli individui, offuscata dall’ignoranza e legata dalla sete, viene in questo modo a stabilirsi in una sfera d’esistenza inferiore, ed è in questo modo che si manifesta il sorgere di una nuova esistenza».
Paṭhamabhavasutta, AN 3.6
Definizione di cognizione:
Il termine pāli viññāṇa deriva dal verbo Vijānātī, vocabolo composto dal prefisso ‘Vi’, discernere o distinguere (lett. separare), e jānātī, conoscere; viññāṇa è la chiara cognizione, la coscienza della presenza di un dato oggetto entro il campo della facoltà sensoriale corrispondente, la primissima fase del processo mentale di percezione soggettiva. Per inciso, il vocabolo Jānātī deriva dalla radice vedica ‘jña’, cognato dell’italiano conoscere:
Conóscere (ant. cognóscere) v. tr. [lat. cognoscĕre, comp. di co– e (g)noscĕre «conoscere»] (io conósco, tu conósci, ecc.; pass. rem. conóbbi, conoscésti, ecc.; part. pass. conosciuto). – Nel significato più ampio e filosofico, apprendere e ritenere nella mente una nozione. Nell’uso ha però un più concreto valore semantico, e può indicare i varî gradi della conoscenza, dall’iniziale percezione dell’esistenza di una cosa alla cognizione piena del suo essere, dei suoi modi e qualità.
Secondo il PTS Pali English Dictionary : ñāṇa from jānāti. See also jānana. *gené, as in Gr. γν ̈ω σις (cp. gnostic), γνώμη; Lat. (co)gnitio; Goth kunpi; Ogh. kunst; E. knowledge.
Nel Khajjanīyasutta, Il processo della cognizione è così definito:
«Kiñca, bhikkhave, viññāṇaṃ vadetha? Vijānātīti kho, bhikkhave, tasmā ‘viññāṇan’ti vuccati. Kiñca vijānāti? Ambilampi vijānāti, tittakampi vijānāti, kaṭukampi vijānāti, madhurampi vijānāti, khārikampi vijānāti, akhārikampi vijānāti, loṇikampi vijānāti, aloṇikampi vijānāti. Vijānātīti kho, bhikkhave, tasmā ‘viññāṇan’ti vuccati.»
«E perché è chiamata cognizione? ‘conosce chiaramente’ o monaci, perciò è chiamata cognizione. E cosa conosce? conosce l’acre, l’amaro, il piccante, il dolce, l’alcalino, l’acido, il salato e l’insipido. Riconosce o monaci, perciò è detta cognizione.»
Tipi di cognizione ed origine del processo cognitivo:
Nel Vibhaṅgasutta (SN 12. 1) è spiegato che vi sono sei modalità della cognizione: visiva, uditiva, olfattiva, gustativa, tattile e mentale:
«Katamañca, bhikkhave, viññāṇaṃ? Chayime, bhikkhave, viññāṇakāyā— cakkhuviññāṇaṃ, sotaviññāṇaṃ, ghānaviññāṇaṃ, jivhāviññāṇaṃ, kāyaviññāṇaṃ, manoviññāṇaṃ. Idaṃ vuccati, bhikkhave, viññāṇaṃ».
«E cos’è, o monaci, la coscienza? Questi sei gruppi di coscienza – coscienza visiva, coscienza uditiva, coscienza olfattiva, coscienza gustativa, coscienza tattile, coscienza mentale. Ciò, o Monaci, è detta coscienza».
In altre parole, il viññāṇa è il processo della cognizione fenomenica soggettiva (Pāli: mana) attraverso le facoltà sensoriali (vista, udita, olfatto, gusto, tatto e pensiero), dal quale si sviluppa tutta la dinamica che conduce alla sofferenza esistenziale: Questo processo è spiegato in maniera articolata nel Madhupiṇḍikasutta (MN 18):
«Cakkhuñcāvuso, paṭicca rūpe ca uppajjati cakkhuviññāṇaṃ, tiṇṇaṃ saṅgati phasso, phassapaccayā vedanā, yaṃ vedeti taṃ sañjānāti, yaṃ sañjānāti taṃ vitakketi, yaṃ vitakketi taṃ papañceti, yaṃ papañceti tatonidānaṃ purisaṃ papañcasaññāsaṅkhā samudācaranti atītānāgatapaccuppannesu cakkhuviññeyyesu rūpesu».
«Amico, dall’interazione fra la vista ed un oggetto visivo sorge la cognizione visiva; la concomitanza dei tre determina il contatto; il contatto determina la sensazione; ciò che viene sentito viene riconosciuto, e su ciò che è stato riconosciuto si rimugina mentalmente; ciò che viene rimuginato da adito alla proliferazione, e per via di ciò, l’individuo viene travolto dalla proliferazione concettuale nata dalla percezione di oggetti visivi passati, futuri o presenti».
Se la cognizione è condizionata dall’ignoranza della realtà, questa sarà inevitabilmente distorta, e darà quindi origine ad una percezione dualistica nella quale un individuo che percepisce se stesso come un’entità autonoma e permanente, percepirà altresì una serie di oggetti «là fuori», distinti da se stesso, con i quali egli si sta relazionando. Secondo il Mūlapariyāyasutta (MN1):
«Viññātaṃ viññātato sañjānāti; viññātaṃ viññātato saññatvā viññātaṃ maññati, viññātasmiṃ maññati, viññātato maññati, viññātaṃ meti maññati, viññātaṃ abhinandati. Taṃ kissa hetu? ‘Apariññātaṃ tassā’ti vadāmi» .
«Egli Percepisce quanto conosciuto come conosciuto, ed avendo percepito quanto conosciuto come conosciuto, immagina [se stesso]come ciò che ha conosciuto, immagina [se stesso] in ciò che ha conosciuto, immagina [se stesso in relazione] a ciò che ha conosciuto, immagina ciò che ha conosciuto come ‘mio’, e prova diletto in ciò che ha conosciuto. E per quale ragione? Perché egli non ha pienamente compreso, ciò io vi dico» [1] .
Al contrario, se lo stato fondamentale della mente è improntato alla saggezza, il soggetto percepirà se stesso come un’entità dinamica, soggetta al mutamento e in stretta relazione di interdipendenza con gli oggetti percepiti:
«Yopi so, bhikkhave, bhikkhu arahaṃ khīṇāsavo vusitavā katakaraṇīyo ohitabhāro anuppattasadattho parikkhīṇabhavasaṃyojano sammadaññāvimutto, sopi pathaviṃ pathavito abhijānāti; pathaviṃ pathavito abhiññāya pathaviṃ na maññati, pathaviyā na maññati, pathavito na maññati, pathaviṃ meti na maññati, pathaviṃ nābhinandati. Taṃ kissa hetu? Khayā mohassa, vītamohattā.»
«Ed inoltre, o monaci, il monaco arahant, libero dai veleni, emancipato, il quale ha compiuto ciò che doveva essere compiuto, depositato il fardello, raggiunto il proprio obiettivo, totalmente distrutto il legame esistenziale, pienamente libero grazie alla perfetta conoscenza, anche Egli riconosce l’elemento terra come terra, ed avendo riconosciuto l’elemento terra come terra, non immagina [se stesso] come l’elemento terra, non immagina [se stesso] nell’elemento terra, non immagina [se stesso] distinto dall’elemento terra, non immagina: ‘mia è le terra’, non gode dell’elemento terra. E per quale ragione? – Perché egli è libero dall’ignoranza, grazie alla distruzione dell’ignoranza.»
«Āpaṃ … pe … tejaṃ … vāyaṃ … bhūte … deve … pajāpatiṃ … brahmaṃ … ābhassare … subhakiṇhe … vehapphale … abhibhuṃ … ākāsānañcāyatanaṃ … viññāṇañcāyatanaṃ … ākiñcaññāyatanaṃ … nevasaññānāsaññāyatanaṃ … diṭṭhaṃ … sutaṃ … mutaṃ … viññātaṃ … ekattaṃ … nānattaṃ … sabbaṃ … nibbānaṃ nibbānato abhijānāti; nibbānaṃ nibbānato abhiññāya nibbānaṃ na maññati, nibbānasmiṃ na maññati, nibbānato na maññati, nibbānaṃ meti na maññati, nibbānaṃ nābhinandati. Taṃ kissa hetu? Khayā mohassa, vītamohattā.»
«Egli chiaramente riconosce l’elemento acqua, l’elemento fuoco, l’elemento vento, gli esseri, Pajāpati, Brahma, gli Dei Ābhassara, gli Dei Subhakiṇha, gli Dei Abhibhu, la sfera meditativa dello spazio infinito, la sfera meditativa della cognizione infinita, la sfera meditativa del non v’è alcunché, la sfera meditativa della né percezione né assenza di percezione, il visto, il sentito, l’esperito, il conosciuto, l’unità, la differenza, il tutto… il nibbāna; avendo riconosciuto il nibbāna come nibbāna, non immagina [se stesso] come il nibbāna, non immagina [se stesso] nel nibbāna, non immagina [se stesso in relazione] al nibbāna, non immagina ‘mio è il nibbāna’, non cerca godimento nel nibbāna. E per quale ragione? – Perché egli è libero dall’ignoranza, grazie alla distruzione dell’ignoranza.»
La natura interdipendente della cognizione:
Questo stato di cose è la base fondamentale per la discriminazione dualistica fra il soggetto e gli oggetti, separazione dalla quale nasceranno le differenti modalità relazionali fra l’individuo ed il ‘mondo’: attrazione verso gli oggetti ritenuti gratificanti, avversione verso ciò che egli percepirà come dannoso o sgradevole, paura verso tutto ciò che è percepito come una minaccia per il proprio io etc.
Nel Naḷakalāpīsutta, (SN 12.67), viene spiegata la relazione di interdipendenza fra la cognizione soggettiva, gli oggetti sensibili ed i processi mentali alla base dell’esperienza del samsara:
«Seyyathāpi, āvuso, dve naḷakalāpiyo aññamaññaṃ nissāya tiṭṭheyyuṃ. Evameva kho, āvuso, nāmarūpapaccayā viññāṇaṃ; viññāṇapaccayā nāmarūpaṃ; nāmarūpapaccayā saḷāyatanaṃ; saḷāyatanapaccayā phasso … pe … evametassa kevalassa dukkhakkhandhassa samudayo hoti.»
«Proprio come, amico, due fasci di canne si sostengono l’uno con l’altro, allo stesso modo, nāmarūpa[2] è la base di viññāṇa, e viññāṇa è la base del nāmarūpa. Nāmarūpa è la base per le sedi sensoriali, le sedi sensoriali sono base per il contatto… ed in questo modo che tutta questa intera massa di sofferenza viene a manifestarsi.»
Lo stesso concetto è ribadito nel Mahānidānasutta (DN15):
«Viññāṇañca hi, ānanda, nāmarūpe patiṭṭhaṃ na labhissatha, api nu kho āyatiṃ jātijarāmaraṇaṃ dukkhasamudayasambhavo paññāyethā”ti? “No hetaṃ, bhante”. “Tasmātihānanda, eseva hetu etaṃ nidānaṃ esa samudayo esa paccayo viññāṇassa yadidaṃ nāmarūpaṃ.»
«Ananda, se il Viññāṇa non fosse ben stabilito nel nāmarūpa (mente e materia), forse che si sperimenterebbero ancora nascita, invecchiamento, morte, ed il sorgere della sofferenza? “No di certo Signore”.”Perciò, Ananda, questa è la causa,questa la base,questa è l’origine e la condizione del Viññāṇa, ovvero il nāmarūpaṃ.»
«Ettāvatā kho, ānanda, jāyetha vā jīyetha vā mīyetha vā cavetha vā upapajjetha vā. Ettāvatā adhivacanapatho, ettāvatā niruttipatho, ettāvatā paññattipatho, ettāvatā paññāvacaraṃ, ettāvatā vaṭṭaṃ vattati itthattaṃ paññāpanāya yadidaṃ nāmarūpaṃ saha viññāṇena aññamaññapaccayatā pavattati.»
«Ed è In questo modo, o Ananda, che esistono la nascita, l’invecchiamento, la morte, il trapasso ed il ri-apparire; In questo modo esiste un viatico per la designazione (adhivacana), per la descrizione (nirutti), e la delineazione (paññatti); ed è in questo modo che esiste la sfera del discernimento (paññā) finalizzata al rendere manifesto questo stato dell’essere, ed è in questo modo che il circolo vizioso [del samsara] continua a vorticare, ovvero : mente e materia fluiscono, assieme alla cognizione, sostenendosi l’un l’altro».
La cognizione come processo:
Tuttavia bisogna tenere presente che in accordo agli insegnamenti del buddhismo antico, l’idea che la cognizione trasmigri da un corpo all’altro di vita in vita era considerata una visione distorta particolarmente grave, come si evince da questo dialogo, contenuto nel Mahātaṇhāsaṅkhayasutta, (MN 38), fra il Buddha ed un monaco di nome Sati, convinto che fosse proprio la cognizione a trasmigrare immutabile da un’esistenza all’altra:
Così ho udito:
Una volta soggiornava il Sublime presso Savatthi, nella selva del Vincitore, nel parco di Anathapindika. Ora in quel tempo, ad un monaco di nome Sati Kevattaputta era sorta questa perniciosa visione erronea:
«Così io comprendo il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro (che essa).»
Venne ora alle orecchie di molti monaci che al monaco Sati Kevattaputta era sorta questa visione erronea: «Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).»
Così, quei monaci si recarono da lui e gli dissero: «È vero, o amico Sati, che in te è sorta tale erronea visione: ‘Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa)’?»
«Proprio così, o amici, Io comprendo il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).»
Quindi, quei monaci, desiderosi di correggere il monaco Sati Kevattaputta da quella visione erronea, interrogarono, domandarono ed esaminarono così: «Non dire così, amico sati, non parlare così, Non distorcere ciò che ha detto il Sublime, non è bene distorcere ciò che ha detto il Sublime, il Sublime non può aver detto ciò. In molti modi, amico Sati, è stato detto e spiegato dal Sublime che la coscienza è sorta in maniera interdipendente, che senza cause non può sorgere alcuna coscienza».
Ma nonostante che il monaco Sati Kevattaputta fosse stato interrogato, contro-interrogato ed esaminato da quei monaci, egli continuava ostinatamente a mantenere tale dannosa visione erronea:
«così, o amici, Io comprendo il Dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa)».
Allora quei monaci, incapaci di correggere il Monaco sati Kevattaputta da tale dannosa visione erronea, si recarono la dove si trovava il Sublime, ed avvicinandosi al Sublime, gli resero omaggio e si sedettero di fianco a lui. E sedendogli accanto, quei monaci dissero al Sublime:
(I monaci ripetono al Buddha l’intera conversazione avuta con Sati, aggiungendo:).«Quindi, signore, non essendo riusciti a correggere il monaco Sati Kevattaputta da quella dannosa visione erronea, noi siamo qui venuti a vedere il Sublime.»
Quindi, Il Sublime si rivolse ad un certo monaco e gli disse: “monaco, vai dal monaco Sati Kevattaputta e digli a nome mio: Amico, il maestro ti vuole parlare. «Certo Signore», rispose quel monaco al Sublime, e si recò dove risiedeva il monaco Sati Kevattaputta; Ed avendolo raggiunto, disse lui: «Amico Sati, il maestro ti vuole parlare».
«Certo, amico», ed avendo assentito a quel monaco, si recò dove si trovava il Sublime, ed una volta raggiuntolo, gli rese omaggio e si sedette al suo fianco. E al monaco Sati Kevattaputta che gli sedeva accanto il Sublime disse: «È vero, come si dice, che in te, Sati è sorta una tale perniciosa visione distorta: ‘Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa)’?».
«Proprio così, signore, Io comprendo il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa)».
«E cosa sarebbe o Sati, questa coscienza?».
«Signore, proprio quella che parla, prova sentimenti e sperimenta qua e là i risultati delle azioni benefiche e nocive».
«Da chi hai tu dunque sentito, o stolto, che io abbia esposto un simile dharma? Non ho forse io spiegato in molti modi la natura condizionata della coscienza: senza cause non può sorgere alcuna coscienza? Ma tu, o stolto, distorci quello che ho insegnato e scavi a te stesso la fossa, causando a te stesso un grave danno. Ciò ti sarà, o stolto, di grande danno, e sofferenza».
Quindi il Sublime si rivolse a quei monaci: «Cosa pensate, o monaci, forse che in questo monaco Sati Kevattaputta si sia acceso un qualche barlume di conoscenza circa questo Dharma e disciplina?».
«Come potrebbe essere ciò? No di certo, Signore».
«Per qualsiasi ragione, o monaci, abbia origine coscienza, proprio per quella, e solo per quella, essa viene a determinarsi. Mediante la vista e le forme viene a determinarsi coscienza visiva. Mediante l’udito e i suoni viene a determinarsi la coscienza uditiva. Mediante l’olfatto e gli odori viene a determinarsi la coscienza olfattiva. Mediante il gusto e i sapori viene determinarsi la coscienza gustativa. Mediante il tatto e i contatti, viene a determinarsi la coscienza tattile. Mediante il pensiero e le cose ha origine la coscienza mentale».
Un’affermazione dello stesso tenore è contenuta nel Bijja Sutta del Samyutta Nikaya:
«Se qualcuno dicesse, ‘descriverò il venire, l’andare, lo svanire, il sorgere, la crescita, l’incremento, ed il proliferare della cognizione a prescindere dal corpo, dalle sensazioni, dalla percezione e dalle intenzioni’, ciò sarebbe impossibile».
Similmente, nel Milindapañha, Nāgasena spiega al re greco Menandro che in accordo al Dharma, la cognizione è un processo senza soluzione di continuità e non un oggetto trasmigrante da un corpo all’altro:
Rājā āha—“bhante nāgasena, na ca saṅkamati paṭisandahati cā”ti? “Āma, mahārāja, na ca saṅkamati paṭisandahati cā”ti. “Kathaṃ, bhante nāgasena, na ca saṅkamati paṭisandahati ca, opammaṃ karohī”ti? “Yathā, mahārāja, kocideva puriso padīpato padīpaṃ padīpeyya, kiṃ nu kho so, mahārāja, padīpo padīpamhā saṅkanto”ti? “Na hi, bhante”ti. “Evameva kho, mahārāja, na ca saṅkamati paṭisandahati cā”ti.
Il Re disse: «venerabile Nāgasena, dove non c’è trasmigrazione può esserci continuazione?» «Certo, Gran Re, dove non c’è trasmigrazione può esserci continuità».
«Ma venerabile Nāgasena, come può ciò che non trasmigra continuare? Fammi un esempio».
«Gran Re, è come se qualcuno accendesse una lampada ad olio tramite un’altra lampada: forse che quella luce è trasmigrata dalla prima lampada?»
«No di certo, Signore».
«Allo stesso modo, o Gran Re, non vi è trasmigrazione ma continuità ».
“Bhiyyo opammaṃ karohī”ti. “Abhijānāsi nu tvaṃ, mahārāja, daharako santo silokācariyassa santike kiñci silokaṃ gahitan”ti? “Āma, bhante”ti. “Kiṃ nu kho, mahārāja, so siloko ācariyamhā saṅkanto”ti? “Na hi, bhante”ti. “Evameva kho, mahārāja, na ca saṅkamati paṭisandahati cā”ti.
«Fammi un altro esempio».
«Gran Re, ricordi, quando eri piccolo, di aver appreso dei versetti dal tuo insegnante?»
«Certo, Signore».
«Ora, forse che quei versetti trasmigrarono dal tuo insegnante [verso di te]?»
«No di certo, Signore».
«Allo stesso modo, non vi è trasmigrazione ma continuità».
La natura luminosa della cognizione ed il non sé:
In accordo al Buddha-Dharma, la cognizione è per sua natura intrinsecamente pura e luminosa, anche se temporaneamente oscurata da fenomeni transitori quali le emozioni perturbanti e l’attaccamento all’Io determinato dall’ignoranza della realtà. Ciò significa che per arrestare il circolo vizioso della sofferenza è necessario rendere la cognizione scevra da alcuna designazione concettuale riguardo un Io o Sé permanente e autonomo. Questo implica, per forza di cose, la cessazione della cognizione condizionata, che dovrà lasciare il posto ad una modalità cognitiva non designante un Io (anidassana), non limitata ad un Io (ananta) e luminosa (sabbatopabha), come spiegato nel Kevaṭṭasutta (DN 11):
Kattha āpo ca pathavī,
tejo vāyo na gādhati;
Kattha dīghañca rassañca,
aṇuṃ thūlaṃ subhāsubhaṃ;
Kattha nāmañca rūpañca,
asesaṃ uparujjhatī’ti.
Dove acqua e terra,
fuoco e vento non trovano più appiglio?
Dove il lungo e il corto,
lo stretto e il largo, il bello e brutto?
Dove nāma e rūpa
si dissolvono senza residui?
Tatra veyyākaraṇaṃ bhavati:
Così è da rispondere:
‘Viññāṇaṃ anidassanaṃ,
anantaṃ sabbatopabhaṃ;
Nella cognizione non designante,
non delimitata, completamente radiosa;
Ettha āpo ca pathavī,
tejo vāyo na gādhati.
Là acqua e terra,
fuoco e vento non trovano più alcun appiglio.
Ettha dīghañca rassañca,
aṇuṃ thūlaṃ subhāsubhaṃ;
Ettha nāmañca rūpañca,
asesaṃ uparujjhati;
Là il lungo e corto,
stretto e largo, bello e brutto,
e il nāmarūpa
si dissolvono senza alcun residuo.
Viññāṇassa nirodhena,
etthetaṃ uparujjhatī’”ti.
Con la cessazione della cognizione,
a tutto ciò si pone fine.
Cognizione, pensiero, emozione ed intenzione:
Nei testi pali, oltre a viññāṇa, vi sono altri termini tecnici impiegati per designare la mente; fra questi, i più importanti sono mano (mente), citta (cuore) e cetanā, intenzione. La differenza fra questi quattro è sottile, e spesso vengono impiegati in maniera intercambiabile; ciò ha portato ad una certa confusione fra gli studiosi e i praticanti.
In generale, con viññāṇa si intende la primissima fase del processo cognitivo, mentre con mano la successiva elaborazione concettuale; mano infatti deriva dalla radice verbale ‘man’, pensare. Con mano si intende quindi l’elaborazione mentale dei dati sensoriali dei cinque sensi. Il terzo termine, citta, spesso tradotto in italiano con ‘mente-cuore’ si riferisce alla reazione emotiva sorta in base al pensiero concettuale. Infine, con cetanā si intende l’ultima fase del processo mentale: la scelta: sulla base di quanto esperito attraverso le sei coscienze, la elaborazione mentale e la successiva reazione emozionale, l’individuo sceglie di agire in accordo al proprio stato d’animo. Non a caso, nel Nibbedhikasutta (AN 6.63), il Buddha ridefinisce il concetto di karma nei termini dell’intenzione/scelta:
«Cetanāhaṃ, bhikkhave, kammaṃ vadāmi. Cetayitvā kammaṃ karoti: kāyena, vācāya, manasā.»
«Monaci, Io dico che il Kamma è intenzione. Dopo aver ponderato, uno agisce tramite il corpo, la parola e la mente».
Nell’Assutavā Sutta (SN 12:62), Il Buddha paragona questa dinamica mentale e la sua evoluzione ad una scimmia che salta da un ramo all’altro in maniera molto rapida:
«Seyyathāpi bhikkhave, makkaṭo araññe pavane caramāno sākhaṃ gaṇhāti. Taṃ muñcitvā aññaṃ gaṇhāti: taṃ muñcitvā aññaṃ gaṇhāti: evameva kho bhikkhave yadidaṃ vuccati cittaṃ itipi mano itipi viññāṇaṃ itipi. Taṃ rattiyā ca divasassa ca aññadeva uppajjati, aññaṃ nirujjhati» .
«Monaci, proprio come una scimmia, che in una foresta vagabondasse afferrandosi ad un ramo, e dopo averlo lasciato ne afferrasse un altro; dopo averlo lasciato ne afferrasse un altro ancora: allo stesso modo, ciò che è chiamato ‘cuore’, ‘mente’ o ‘cognizione’, dalla notte al giorno si manifesta in un certo modo e si dissolve in un altro».
In ultima analisi, questi quattro termini sono da intendere come sinonimi utilizzati per indicare fasi differenti di uno stesso processo, anziché come differenti nomi dello stesso fenomeno. A tal proposito, si noti il modo in cui, nel testo citato in apertura, i termini kamma – che per il Buddha era sinonimo di cetanā – e viññāṇa siano impiegati per indicare due aspetti differenti dello stesso processo:
«Iti kho, ānanda, kammaṃ khettaṃ, viññāṇaṃ bījaṃ, taṇhā sneho.
«Perciò Ānanda, l’intenzione è il campo fertile, la cognizione il seme e la sete il fertilizzante.
Paṭhamabhavasutta, AN 3.6
Osservare la mente:
Nel Mahāsatipaṭṭhānasutta (I fondamenti della consapevolezza), viene spiegato come coltivare l’attenzione ai processi mentali ed emotivi (Cittānupassanā), al fine di comprenderne la vera natura. Questa pratica, assieme alla contemplazione della vera natura dei fenomeni (dhammānupassanā) costituisce il nucleo fondamentale della pratica del Dharma:
«E come, un monaco è consapevole delle mente nelle mente? Un monaco, quando nella mente vi è passione, è consapevole che nella mente c’è passione. Quando nella mente non vi è passione, è consapevole che nella mente non c’è passione. Quando nella mente vi è avversione, è consapevole che nella mente c’è avversione. Quando nella mente non vi è avversione, è consapevole che nella mente non c’è avversione. Quando nella mente vi è ignoranza, è consapevole che nella mente c’è delusione. Quando nella mente non vi è ignoranza, è consapevole che nella mente non c’è delusione.
‘Quando la mente è limitata, è consapevole che la mente è limitata. Quando la mente è agitata, è consapevole che la mente è agitata. Quando la mente è esaltata, è consapevole che la mente è esaltata. Quando la mente non è esaltata, è consapevole che la mente non è esaltata. Quando la mente è trascesa, è consapevole che la mente è trascesa. Quando la mente non è trascesa, è consapevole che la mente non è trascesa. Quando la mente è concentrata, è consapevole che la mente è concentrata. Quando la mente non è concentrata, è consapevole che la mente non è concentrata. Quando la mente è libera, è consapevole che la mente è libera. Quando la mente non è libera, è consapevole che la mente non è libera.
In questo modo dimora contemplando la [natura della] mente-cuore nella mente cuore in riguardo a Sé stesso, o dimora contemplando [la natura]della mente nella mente in riguardo alla mente-cuore altrui, o dimora contemplando [la natura] della mente nella mente, in riguardo alla propria ed altrui mente,
Oppure dimora contemplando il sorgere di uno stato della mente, ed il suo svanire, il sorgere e lo svanire della mente; La sua consapevolezza che “esiste la mente” viene mantenuta fino allo stato di più alta conoscenza e di piena attenzione. Egli rimane libero e nulla brama al mondo. Così un monaco rimane concentrato sulla mente in essa e su essa.»
Note:
1: «Immagina se stesso come X» indica una relazione di identificazione diretta con il fenomeno percepito;
«Immagina se stesso in X» indica una relazione di inerenza o appartenenza, l’identificare se stessi come parte di un certo fenomeno;
«Immagina se stesso in relazione ad X» indica una relazione di differenziazione, relazione e distinzione con il dato fenomeno, e la possibilità di potersi appropriare di quel dato fenomeno.
«Immagina X come ‘Mio’»: l’esperienza dell’appropriazione, del portare il fenomeno sotto il proprio controllo e dominio.
«Nel fare ciò sperimenta godimento per via di X»: l’esperienza stessa della sete di piacere (Taṇhā), la strategia fondamentale attraverso la quale l’Io tenta di soddisfare se stesso e al tempo stesso di dare sostanza al suo esistere.
2: «Katamañca, bhikkhave, nāmarūpaṃ? Vedanā, saññā, cetanā, phasso, manasikāro— idaṃ vuccati nāmaṃ. Cattāro ca mahābhūtā, catunnañca mahābhūtānaṃ upādāyarūpaṃ. Idaṃ vuccati rūpaṃ. Iti idañca nāmaṃ, idañca rūpaṃ. Idaṃ vuccati, bhikkhave, nāmarūpaṃ».
«E cos’è è monaci, ‘mente e materia’? Sensazione, percezione, intenzioni, contatto ed attenzione: queste, o monaci, sono dette ‘mente’; I quattro elementi fondamentali, e l’immagine sorta dall’aggrapparsi ai quattro elementi fondamentali, questa è detta Immagine/forma materiale; Così, ciò è la mente, e ciò è la materia, Ciò, o monaci, è detto ‘mente e materia’».
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