La scuola Sarvāstivāda, (pāli: Sabbattivāda), fu una delle 18 scuole del buddhismo antico nate a seguito di interpretazioni discordanti dei discorsi del Buddha.
Cenni storici
Secondo Giuseppe Tucci,
La «dottrina della realtà di ogni cosa, professata da una delle 18 scuole nelle quali si divise la comunità buddhista dopo il concilio di Vaśālī (circa 377 a. C.), appartiene al Piccolo Veicolo. La sua storia incomincia col concilio di Pāṭaliputra (circa 245 a. C.), nel quale fu dal sillabo di Tissa relegata fra le eresie. Il sarvāstivāda afferma la realtà dei dharma, i 75 elementi dell’esistenza empirica, la cui manifestazione è bensì momentanea, ma che sempre sussistono, in atto o in potenza, nel presente, nel passato o nel futuro.»
Etimologia
Il nome deriva da Sarva, ‘tutto’, asti, ‘esiste’ e vāda, ‘dottrina’. Sarvāstivāda è quindi la teoria o dottrina secondo la quale tutti i fenomeni (dharmā) del passato, presente e futuro, esistono, in una qualche forma, nel momento presente.
Origini
Secondo il testo singalese Mahavamsa, la scuola Sarvāstivāda sarebbe nata da una scissione in seno alla scuola Mahīmśāsaka, nata a sua volta da una scissione con la scuola Sthavirāvāda, dal quale discende l’attuale scuola Therāvāda.
«dai Therāvdin nacquero queste due scuole: quella dei monaci Mahīmśāsaka e quella dei Vajjiputtaka. E nacquero ancora ancora i dhammuttariya, i monaci Bhaddayānika, i Chandāgārika, i Sammiti, e i monaci Vajjiputtiya. Dai monaci Mahīmśāsaka nacquero inoltre questi due: i Sabbatthavādin e i dhammaguttika; dai Sabbatthavādin nacquero i Kassapiya e da questi i bhikkhu Sankatika e da questi i Suttavādin. Insieme alla scuola Theravāda queste sono le dodici che, con le sei anzidette, fanno diciotto.»
Lingua
I testi della scuola Sarvāstivāda furono scritti in sanscrito ed in lingua Gāndhārī; in seguito, larga parte del corpus letterario di questa scuola venne tradotto in cinese ed in parte in Tibetano.
Collocazione geografica
la scuola Sarvāstivāda si originò probabilmente nei territori dell’attuale Kashmir, grazie anche al sostegno datole dall’imperatore Kaniskha (127–150 d.C) dell’impero di Kushan. In seguito, si diffuse ulteriormente nei territori dell’Asia Centrale, nel regno di Gandhara, Il cui territorio è oggi incluso negli attuali stati di Pakistan e Afghanistan.
Per questa ragione, le scuole facenti capo alla dottrina Sarvāstivāda ricevettero l’appellativo di Tradizione Settentrionale dello Sthavira Nikāya, in contrasto con la Scuola Meridionale, comunemente nome come Vibhajjavāda o Theravāda, diffusasi sopra tutto nel Sud dell’India e in Sri Lanka.
Sotto scuole
Il sistema dottrinale dei Sarvāstivāda diede origine ad almeno tre sotto scuole: la Vaibhāṣika (Seguaci del Vibhasa), la Sautrāntika (seguaci dei Sutra) e la Mūlasarvāstivāda (Sarvāstivāda fondamentale).
I Vaibhāṣika erano Sarvāstivādin kashmiri seguaci delle teorie espresse nel Mahāvibhāṣa Śāstra (Grande compendio), un commentario ad un altro testo noto come Jñānaprasthāna, (Origine della conoscenza), uno dei sette libri di cui era composto l’Abhidharma del Sarvāstivāda originario.
Di contro, i Sautrāntika erano dei Sarvāstivādin attivi nel Gandhara, i quali rifiutavano l’autorità scritturale del Mahāvibhāṣa Śāstra, sostenendo invece la necessità di far riferimento unicamente ai discorsi canonici.
L’origine del Mūlasarvāstivāda è tutt’ora incerta, e tuttavia è noto che furono proprio monaci appartenenti a questa scuola a portare in Tibet il lignaggio dell’ordinazione monastica, lignaggio fiorente ancora oggi in tutte le aree in cui si è diffuso il sistema tibetano.
Nel sistema tibetano, i sistemi dottrinari Vaibhāṣika e Sautrāntika sono classificati come le due scuole dell’Hinayana, in quanto, gli storici tibetani quali Butön Rinchen Drup (1290–1364) ignoravano l’esistenza delle altre diciassette e più scuole del primo buddhismo. Ciò a portato ad un certa confusione, tutt’ora persistente, in quanto i maestri tibetani continuano a confondere le dottrine dei Vaibhāṣika con quelle degli odierni Theravādin di Sri Lanka.
Secondo il Kathāvatthu (libro sulle controversie), vi era un’altra scuola la quale sosteneva posizioni dottrinali simili ai Sarvāstivādin, quella dei Kassapikā.
La differenza fra i Sarvāstivādin ed i Kassapiyā consisteva nel fatto che quest’ultimi asserivano un’esistenza parziale dei fenomeni dei tre tempi nel momento presente, ovvero:
«Quei fenomeni passati il cui effetto non è ancora maturato esistono[nel presente], quei fenomeni il cui effetto è già arrivato a maturazione non esistono[nel presente]; quei fenomeni futuri che sono inevitabilmente determinati esistono[nel presente], quelli che non sono così determinate non esistono[nel presente].»
Tuttavia, nello stesso dibattito con i Therāvādin, i Kassapiyā, asserivano che seppur parzialmente esistenti, i fenomeni passati e futuri non sono attualmente presenti. L’intera discussione fra i Therā ed i Kassapiyā può essere letta qui.
L’origine della dottrina del «Tutto esiste»
Secondo il commentario al Kathāvatthu, l’origine della dottrina circa l’esistenza dei fenomeni nei tre tempi è da rintracciarsi in una comprensione letterale e perciò maldestra della seguente affermazione:
«Qualsiasi forma—passata, futura o presente; interna o esterna; grossolana o sottile; comune o sublime; lontana o vicina—fonte di attaccamento, che si sviluppa e cresce, ed è accompagnata dalle formazioni mentali: ciò è chiamato la forma come l’ aggregato dell’attaccamento…Qualsiasi sensazione …Qualsiasi percezione…Qualsiasi formazione mentale …Qualsiasi coscienza…Questi sono chiamati i cinque aggregati dell’attaccamento.»
(SN 22.48)
Nel Samyukta-abhidharma-hrdaya, un testo Sarvāstivādin, viene offerta la seguente spiegazione:
«Se non ci fossero passato e futuro, allora non ci sarebbe alcun presente; se non ci fosse un presente, non ci sarebbero neanche fattori condizionati (samskrta dharma). Ecco perché esistono i tre periodi di tempo (trikala). Non è corretto affermare che ciò che è remoto è passato e che ciò che esisterà in futuro non esistono, e che esiste solo il presente, Perché? Perché esiste un risultato (vipaka) dell’azione. Il Buddha ha affermato: «Esiste l’azione ed esiste la sua retribuzione». Non è possibile che questa azione e la sua retribuzione siano entrambe presenti. Quando l’azione è presente, si dovrebbe riconoscere che la retribuzione avverrà in futuro; quando è presente la retribuzione, si dovrebbe riconoscere che l’azione è già passata.»
Secondo Vasubandhu, vi sono quattro generi di Sarvāstivādin, con le relative teorie:
«Il ven. Dharmatrata sostiene la teoria del bhavanyathatva: affermando cioè che i tre periodi di tempo, passato, presente e futuro, si differenziano per la loro non identità (differenza) nella modalità d’esistenza (bhava). Quando un dharma passa da un periodo temporale all’altro, la sua natura non viene modificata, ma la sua esistenza sì.»
«Il ven. Ghosaka sostiene la teoria del laksananyathatva, cioè che i tre periodi differiscono per via delle loro differenti caratteristiche. Quando un dharma è passato, è dotato di caratteristiche del passato (laksana), ma non è tuttavia privo delle caratteristiche del presente e del futuro.»
«Il ven. Vasumitra sostiene la teoria dell’avasthanyathatva, cioè che i tre periodi di tempo differiscono per via della differenza di condizione (avastha). Un dharma, attraversando i periodi di tempo, avendo assunto una certa condizione, diventa differente per via del mutamento della sua condizione, non per via di una differenziazione nella sua sostanza.»
«Il ven. Buddhadeva sostiene la teoria dell’anyonyathatva, secondo la quale i tre periodi di tempo sono stabiliti sulla base delle relazioni reciproche; un dharma, attraversando i diversi periodi temporali, assume nomi diversi sulla base della relazione; ovvero, è definito come passato, futuro o presente, in relazione a ciò che lo precede o che lo seguirà. Ad esempio, la stessa donna è definita sia come ‘figlia’ che come ‘madre’.»
Kṣaṇavada : la teoria dei momenti
Secondo Jan Westerhoff, «Il sistema Sarvāstivāda proponeva la teoria dei momenti (kṣaṇava), secondo la quale i dharmā esistono solo per un brevissimo lasso di tempo o momento (kṣaṇa), quantificabile nella quantità di tempo necessaria ad un uomo per schioccare le dita, diviso ulteriormente in sessantaquattro unità.»
Svabhāva, la natura intrinseca dei fenomeni
Per spiegare come sia possibile che un fenomeno rimanga identico e tuttavia subisca un cambiamento attraversando i tre periodi temporali di passato, presente e futuro, i sarvāstivāda di approccio Vaibhāṣika asserivano che i fenomeni possiedono una propria natura immutabile (svabhāva) la quale persiste nei tre tempi.
Secondo Vaibhāṣikas, con svabhāva si intendono quei fenomeni che esistono sostanzialmente (dravyasat) al contrario di quelli costituiti da aggregazioni di dharma e che quindi hanno solo un’esistenza nominale (prajñaptisat).
(Westerhoff, The Golden Age of Indian Buddhist Philosophy in the First Millennium)
Rispondi