La banalizzazione del Buddhismo

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Il Dharma profondo: Mahānidānasutta

“In una certa occasione, il sublime viveva tra i Kuru, presso una città dei Kuru di nome Kammāsadhamma. Quindi, il Venerabile Ânanda si avvicinò al Beato, gli rese omaggio e si sedette al suo fianco. Seduto, disse al Sublime:

“Venerabile Signore, è meraviglioso, è fantastico, come il sorgere dipendente sia così profondo e appaia così profondo, eppure a me sembra così incredibilmente chiaro. 

“Non dire così, Ânanda! Non dire così, Ânanda! Il sorgere dipendente è profondo ed appare profondo. E’ per via del non aver compreso, del non aver penetrato in profondità questo Dhamma, Ānanda, che questa generazione è diventata simile ad una matassa aggrovigliata, ad un gomitolo annodato, a dei giunchi arruffati, incapace di trascendere il samsara, con i suoi piani d’esistenza miserabili, le destinazioni sfortunate ed i reami inferiori.”

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Il pericolo della banalizzazione del Dharma, Dzongsar J. Khyentse.

C’è il pericolo che il buddhismo stia diventando sinonimo di “mindfulness”, “benessere” e “nonviolenza”. Molte persone pensano che sia tutto lì. Quando parlano di consapevolezza, pensano immediatamente al sedersi a gambe incrociate su un cuscino, con la schiena dritta.

Questo modo di pensare potrebbe rivelarsi distruttivo per il buddhismo. Se scegliamo di enfatizzare una sola tecnica, le altre inizieranno a marcire, e quando una marcisce, come una mela cattiva, rovinerà tutto il cesto.

Longchenpa previde tutto ciò, nel dodicesimo secolo; Egli disse che se una tale degenerazione dovesse prendere piede, ciò equivarrebbe al “versare del latte in una pentola di terracotta non ancora cotta”: la pentola si sbriciolerà guastando anche il latte.

Quindi, l’abbondanza e la varietà degli insegnamenti è di grande importanza. Altrimenti, se il movimento della ‘mindfulness’ non dovesse funzionare in America, gli americani butteranno il bambino assieme all’acqua sporca a discapito di tutto il buddhismo. Questa sarebbe una grave perdita.

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La banalizzazione del Dharma, di Ajhan Brahmavamso 

Da quando il buddhismo è diventato di moda, vi è la tendenza a modificare il senso del concetto di nibbāna per accontentare più persone. Le pressioni che nascono dalla popolarità piegheranno la verità per renderla più accomodante.

Gli insegnamenti vengono accolti positivamente quando dicono alle persone solo quello che esse vogliono sentire. Inoltre, la vanità induce alcuni insegnanti di Dhamma a spiegare cos’è il nibbāna in modalità che non mettano in discussione il loro stato non illuminato.

Tutto ciò sta portando alla banalizzazione dell’idea di nibbāna. Nella letteratura buddhista moderna, leggiamo che l’illuminazione non è altro che una passiva sottomissione al modo in cui le cose sembrano essere (distinte dal modo in cui le cose sono veramente, percepibili quando uno ha sviluppato i jhāna), o che

l’incondizionato è semplicemente una sorta di ‘consapevolezza del momento presente’ facilmente accessibile, nella quale rientra ogni cosa – assolutamente tutto.

Oppure, che il “senza morte” è semplicemente una consapevolezza non-duale, un rifiuto di tutte le distinzioni e un’affermazione che “tutto è uno”, che tutto è bene.

L’obiettivo più alto del buddhismo (La liberazione) diventa quindi poco più che una “arte di vivere in un modo meno problematico”, una resa senza speranza agli alti e bassi della vita e una negazione del dukkha come inerente a tutte le forme di esistenza, come un prigioniero nevrotico che celebra la sua incarcerazione invece di cercare la via d’uscita.

Un simile Dhamma banalizzato, può sembrare accogliente e rassicurante, ma è una grossolana sottovalutazione del vero senso di nibbāna. E quelli che compreranno queste incantevoli distorsioni realizzeranno di aver preso una fregatura.

(Tratto da: Mindfulness, Bliss and Beyond)

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Illuminismo e Illuminazione, Giangiorgio Pasqualotto

 Ci sono tempi in cui la palude del senso comune tende a consolidarsi in isole, pretende di farsi arcipelago. Allora la navigazione dell’intelligenza si fa pericolosa perché si illude di poter navigare spedita tra queste isole, mentre ben presto vi si incaglia. Come altre grandi espressioni dell’intelligenza, anche gli insegnamenti del Buddha hanno subito le conseguenze di queste periodiche basse maree del pensiero.

In particolare, l’ampiezza con cui questi insegnamenti sono dilagati lungo le coste della cultura occidentale è stata per lo più accompagnata da una riduzione della loro profondità e purezza: l’oceano della tradizione buddhista ha rapidamente incrementato la sua espansione ad Ovest, ma in questo suo allargamento è finito anche a formare ampi specchi d’acqua che di “speculativo” non hanno nulla: vi galleggiano infatti frammenti di parole esotiche, frantumi di idee ridotte a formule evocative, residui di ragionamenti trasformati in piccole certezze.

In queste acque rese infide da relitti di superstizione e fatte opache da spiritualità in polvere, ogni riflessione è diventata impossibile. Per guadagnare profondità e chiarezza è necessario sottrarsi a simili basse maree e bassi fondali e riprendere il largo.

Nel caso della tradizione buddhista è il caso di ritornare ai luoghi originari, dove minimi siano i fremiti delle mode e i brusii della chiacchiera.

Contrariamente a quanto si crede il senso comune e a quanto fanno credere sedicenti “pensatori”, gli insegnamenti del Buddha sono stati e rimangono tra le forme più potenti e coerenti di “esercizio della ragione”: non solo per i risultati prodotti dal lavoro analitico sulla realtà interna ed esterna, ma anche per la loro costante attenzione nel porre i limiti della ragione stessa.

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