Yavakalāpisutta: Il Covone D’Orzo

demon-FC

 

Yavakalāpisutta
(Il covone d’orzo)

saṃyutta nikāya 35

19. āsīvisavagga

Introduzione:

La parabola di Vepacitti Asurinda, (‘Re dei demoni’) narrata dal Buddha quale preambolo al discorso vero e proprio, è di rilevanza particolare; essa fa riferimento alla mitica battaglia fra i demoni e gli dei: gli dei, vittoriosi, portarono Vepacitti, con le mani, i piedi e il collo legati, al cospetto di Sakka, il Re degli dei.
Il quintuplice laccio che lega Vepacitti è dotato di un particolare meccanismo: quando Vepacitti, pensando che gli dei siano giusti e i demoni ingiusti, aspira a rimanere nel reame degli dei, egli diventa immediatamente libero da quei lacci, provvisto dei cinque piaceri sensuali. Ma nel momento in cui inizia a pensare che i demoni sono giusti e gli dei ingiusti, desiderando perciò tornare nel reame degli asura, si ritrova di nuovo legato dal quintuplice laccio, privato dei cinque piaceri sensuali. Quel laccio, così fantasticamente raffinato è dipendente dai pensieri dello stesso prigioniero. Terminato il racconto, Il Buddha effettua una transizione dalla mitologia alla psicologia e alla filosofia. 

(Kaṭukurunde Ñāṇananda Maha Thera)

“Seyyathāpi, bhikkhave, yavakalāpī cātumahāpathe nikkhittā assa. Atha cha purisā āgaccheyyuṃ byābhaṅgihatthā. Te yavakalāpiṃ chahi byābhaṅgīhi haneyyuṃ. Evañhi sā, bhikkhave, yavakalāpī suhatā assa chahi byābhaṅgīhi haññamānā. Atha sattamo puriso āgaccheyya byābhaṅgihattho. So taṃ yavakalāpiṃ sattamāya byābhaṅgiyā haneyya. Evañhi  bhikkhave, yavakalāpī suhatatarā assa, sattamāya byābhaṅgiyā haññamānā.

“Monaci, supponiamo che un covone d’orzo fosse posto al centro di un quadrivio; ed arrivassero sei uomini con in mano dei flagelli; ed essi iniziassero a flagellare quel covone d’orzo, facendolo a pezzi. Ed in seguito arrivasse un settimo uomo con in mano un flagello; ed anche egli iniziasse a colpire quel covone d’orzo, distruggendolo completamente.

Evameva kho, bhikkhave, assutavā puthujjano cakkhusmiṃ haññati manāpāmanāpehi rūpehi  pe  jivhāya haññati manāpāmanāpehi rasehi  pe  manasmiṃ haññati manāpāmanāpehi dhammehi. Sace so, bhikkhave, assutavā puthujjano āyatiṃ punabbhavāya ceteti, evañhi so, bhikkhave, moghapuriso suhatataro hoti, seyyathāpi  yavakalāpī sattamāya byābhaṅgiyā haññamānā.

Similmente, monaci, l’inesperto uomo comune è ‘flagellato’ in relazione alla vista dagli oggetti visivi piacevoli e sgradevoli; è ‘flagellato’ in relazione al gusto dai sapori piacevoli e sgradevoli… ‘flagellato’ in relazione alla mente dai pensieri piacevoli e spiacevoli. Monaci, se quell’inesperto uomo comune anelasse ad una futura nuova esistenza, allora, quello sciocco ne sarebbe ulteriormente flagellato, proprio come quel covone d’orzo allorché flagellato per la settima volta.

Bhūtapubbaṃ, bhikkhave, devāsurasaṅgāmo samupabyūḷho ahosi. Atha kho, bhikkhave, vepacitti asurindo asure āmantesi: ‘sace, mārisā, devāsurasaṅgāme samupabyūḷhe asurā jineyyuṃ devā parājineyyuṃ, yena naṃ sakkaṃ devānamindaṃ kaṇṭhapañcamehi bandhanehi bandhitvā mama santike āneyyātha asurapuran’ti.

In passato, monaci, vi fu una guerra fra gli dei e i demoni. E Vepacitti[1], Signore dei demoni, si rivolse ai demoni: ‘Signori, se in questa battaglia i demoni vinceranno e gli dei saranno sconfitti, Sakka, il Signore degli dei, dovrà essere legato con cinque lacci, mani, piedi e collo, e portato al mio cospetto nella città dei demoni.

Sakkopi kho, bhikkhave, devānamindo deve tāvatiṃse āmantesi: ‘sace, mārisā, devāsurasaṅgāme samupabyūḷhe devā jineyyuṃ asurā parājineyyuṃ, yena naṃ vepacittiṃ asurindaṃ kaṇṭhapañcamehi bandhanehi bandhitvā mama santike āneyyātha sudhammaṃ devasabhan’ti.

Ed anche Sakka, Signore degli dei, si rivolse alla corte dei trenta tre dei: ‘Signori, se in questa battaglia gli dei vinceranno e i demoni saranno sconfitti, Vepacitti, signore dei demoni, dovrà essere legato con cinque lacci, mani, piedi e collo, e portato al mio cospetto nella sala dell’assembla divina di Sudhamma.

Tasmiṃ kho pana, bhikkhave, saṅgāme devā jiniṃsu, asurā parājiniṃsu. Atha kho, bhikkhave, devā tāvatiṃsā vepacittiṃ asurindaṃ kaṇṭhapañcamehi bandhanehi bandhitvā sakkassa devānamindassa santike ānesuṃ sudhammaṃ devasabhaṃ.

In quella battaglia vinsero gli dei, i demoni furono sconfitti. Quindi, Vepacitti, il Signore dei demoni, venne legato con cinque lacci, mani, piedi e collo e portato al cospetto di Sakka nella sala dell’assemblea divina di Sudhamma.

Tatra sudaṃ, bhikkhave, vepacitti asurindo kaṇṭhapañcamehi bandhanehi baddho hoti. Yadā kho, bhikkhave, vepacittissa asurindassa evaṃ hoti: ‘dhammikā kho devā, adhammikā asurā, idheva dānāhaṃ devapuraṃ gacchāmī’ti. Atha kaṇṭhapañcamehi bandhanehi muttaṃ attānaṃ samanupassati, dibbehi ca pañcahi kāmaguṇehi samappito samaṅgībhūto paricāreti.

E Vepacitti, Signore dei demoni, rimase legato con cinque lacci. Monaci, quando Vepacitti così rifletteva: ‘Giusti sono gli dei, ingiusti i demoni, ora io andrò nella terra degli dei!’, egli si sentiva libero dai cinque lacci al collo, godendo del possesso dei cinque piaceri sensuali celestiali.

Yadā ca kho, bhikkhave, vepacittissa asurindassa evaṃ hoti: ‘dhammikā kho asurā, adhammikā devā, tattheva dānāhaṃ asurapuraṃ gamissāmī’ti. atha kaṇṭhapañcamehi bandhanehi baddhaṃ attānaṃ samanupassati, dibbehi ca pañcahi kāmaguṇehi parihāyati.

Ma quando Vepacitti pensava: ‘Giusti sono i demoni, ingiusti gli dei, ora mi recherò nella terra dei demoni!’, allora gli si sentiva legato dai cinque lacci, e i cinque piaceri sensuali celestiali scomparivano.

Evaṃ sukhumaṃ kho, bhikkhave, vepacittibandhanaṃ. Tato sukhumataraṃ mārabandhanaṃ. Maññamāno kho, bhikkhave, baddho mārassa, amaññamāno mutto pāpimato.

Così sottile, monaci, è il laccio di Vepacitti; ma ancora più sottile è il laccio di Māra[2]. Immaginando, uno è vincolato da Māra, non immaginando si è liberi dal Māra.

‘Asmī’ti, bhikkhave, maññitametaṃ, ‘ayamahamasmī’ti maññitametaṃ, ‘bhavissan’ti maññitametaṃ, ‘na bhavissan’ti maññitametaṃ, ‘rūpī bhavissan’ti maññitametaṃ, ‘arūpī bhavissan’ti maññitametaṃ, ‘saññī bhavissan’ti maññitametaṃ, ‘asaññī bhavissan’ti maññitametaṃ, ‘nevasaññīnāsaññī bhavissan’ti maññitametaṃ. Maññitaṃ, bhikkhave, rogo, maññitaṃ gaṇḍo, maññitaṃ sallaṃ. Tasmātiha, bhikkhave, ‘amaññamānena cetasā viharissāmā’ti— evañhi vo, bhikkhave, sikkhitabbaṃ.

‘Io sono’, monaci, è un’immaginazione; ‘Io sono questo’, è un’immaginazione; ‘Io sarò’, è un’immaginazione; ‘Io non sarò, è un’immaginazione; ‘Sarò fatto di materia’ , è un’immaginazione; ‘Sarò immateriale’, è un’immaginazione; ‘Esisterò percipiènte’, è un’immaginazione;  ‘Esisterò non percipiènte’, è un’immaginazione; ‘Esisterò né percipiènte né privo di percezione’ è un’immaginazione; l’immaginazione, monaci, è una malattia, un tumore, una freccia. Perciò, monaci, così voi dovreste esercitarvi: ‘noi dimoreremo con la mente libera dal fantasticare’.

‘Asmī’ti, bhikkhave, iñjitametaṃ, ‘ayamahamasmī’ti iñjitametaṃ, ‘bhavissan’ti iñjitametaṃ, ‘na bhavissan’ti iñjitametaṃ, ‘rūpī bhavissan’ti iñjitametaṃ, ‘arūpī bhavissan’ti iñjitametaṃ, ‘saññī bhavissan’ti iñjitametaṃ, ‘asaññī bhavissan’ti iñjitametaṃ, ‘nevasaññīnāsaññī bhavissan’ti iñjitametaṃ. Iñjitaṃ, bhikkhave, rogo, iñjitaṃ gaṇḍo, iñjitaṃ sallaṃ. Tasmātiha, bhikkhave, ‘aniñjamānena cetasā viharissāmā’ti evañhi vo, bhikkhave, sikkhitabbaṃ.

‘Io sono’, monaci, è un tormento; ‘Io sono questo’, è un tormento; ‘Io sarò’, è un tormento; ‘Io non sarò, è un tormento; ‘Sarò fatto di materia’ ,è un tormento; ‘Sarò immateriale’, è un tormento; ‘Esisterò percipiènte’, è un tormento;  ‘Esisterò non percipiènte’, è un tormento; ‘Esisterò né percipiènte né privo di percezione’ è un tormento; Il tormento, monaci, è una malattia, un tumore, una freccia. Perciò, monaci, così voi dovreste esercitarvi: ‘noi dimoreremo con la mente libera dal tormento’.

‘Asmī’ti, bhikkhave, phanditametaṃ, ‘ayamahamasmī’ti phanditametaṃ, ‘bhavissan’ti  pe  ‘na bhavissan’ti  ‘rūpī bhavissan’ti  ‘arūpī bhavissan’ti  ‘saññī bhavissan’ti  ‘asaññī bhavissan’ti  ‘nevasaññīnāsaññī bhavissan’ti phanditametaṃ. Phanditaṃ, bhikkhave, rogo, phanditaṃ gaṇḍo, phanditaṃ sallaṃ. Tasmātiha, bhikkhave, ‘aphandamānena cetasā viharissāmā’ti— evañhi vo, bhikkhave, sikkhitabbaṃ.

‘Io sono’, monaci, è una tribolazione; ‘Io sono questo’, è una tribolazione; ‘Io sarò’, è una tribolazione; ‘Io non sarò, è una tribolazione; ‘Sarò fatto di materia’ ,è una tribolazione; ‘Sarò immateriale’, è una tribolazione; ‘Esisterò percipiènte’, è una tribolazione;  ‘Esisterò non percipiènte’, è una tribolazione; ‘Esisterò né percipiènte né privo di percezione’ è una tribolazione; Il tribolare, monaci, è una malattia, un tumore, una freccia. Perciò, monaci, così voi dovreste esercitarvi: ‘noi dimoreremo con la mente libera dalla tribolazione’.

‘Asmī’ti, bhikkhave, papañcitametaṃ, ‘ayamahamasmī’ti papañcitametaṃ, ‘bhavissan’ti  pe  ‘na bhavissan’ti  ‘rūpī bhavissan’ti  ‘arūpī bhavissan’ti  ‘saññī bhavissan’ti  ‘asaññī bhavissan’ti  ‘nevasaññīnāsaññī bhavissan’ti papañcitametaṃ. Papañcitaṃ, bhikkhave, rogo, papañcitaṃ gaṇḍo, papañcitaṃ sallaṃ. Tasmātiha, bhikkhave, ‘nippapañcena cetasā viharissāmā’ti— evañhi vo, bhikkhave, sikkhitabbaṃ.

‘Io sono’, monaci, è una proliferazione; ‘Io sono questo’, è una proliferazione; ‘Io sarò’, è una proliferazione; ‘Io non sarò, è una proliferazione; ‘Sarò fatto di materia’ ,è una proliferazione; ‘Sarò immateriale’, è una proliferazione; ‘Esisterò percipiènte’, è una proliferazione;  ‘Esisterò non percipiènte’, è una proliferazione; ‘Esisterò né percipiènte né privo di percezione’ è una proliferazione; la proliferazione, monaci, è una malattia, un tumore, una freccia. Perciò, monaci, così voi dovreste esercitarvi: ‘noi dimoreremo con la mente libera dalla proliferazione’.

‘Asmī’ti, bhikkhave, mānagatametaṃ, ‘ayamahamasmī’ti mānagatametaṃ, ‘bhavissan’ti mānagatametaṃ, ‘na bhavissan’ti mānagatametaṃ, ‘rūpī bhavissan’ti mānagatametaṃ, ‘arūpī bhavissan’ti mānagatametaṃ, ‘saññī bhavissan’ti mānagatametaṃ, ‘asaññī bhavissan’ti mānagatametaṃ, ‘nevasaññīnāsaññī bhavissan’ti mānagatametaṃ. Mānagataṃ, bhikkhave, rogo, mānagataṃ gaṇḍo,mānagataṃ sallaṃ. Tasmātiha, bhikkhave, ‘nihatamānena cetasā viharissāmā’ti— evañhi vo, bhikkhave, sikkhitabban”ti.

‘Io sono’, monaci, è una presunzione; ‘Io sono questo’, è una presunzione; ‘Io sarò’, è una presunzione; ‘Io non sarò, è una presunzione; ‘Sarò fatto di materia’ ,è una presunzione; ‘Sarò immateriale’, è una presunzione; ‘Esisterò percipiènte’, è una presunzione;  ‘Esisterò non percipiènte’, è una presunzione; ‘Esisterò né percipiènte né privo di percezione’ è una presunzione; la presunzione, monaci, è una malattia, un tumore, una freccia. Perciò, monaci, così voi dovreste esercitarvi: ‘noi dimoreremo con la mente libera dalla presunzione’.”

Note:

1.Secondo Buddhaghosa (SA.i.266)  il vero nome di Vepacitti era Sambara. Quando Sambara si rifiutò di giurare ad un gruppo di veggenti che gli Asura non avrebbero fatto loro del male, questi lo maledissero; da quel momento in poi egli non riuscì più a riposare serenamente, essendo costantemente tormentato dagli incubi. Questo stato di cose sconvolse a tal punto la sua mente (cittam vepati) che egli venne chiamato Vepacitti (mente pazza).

2. Māra: lett. ‘morte, il demone personificazione allegorica dei veleni interiori (kilesha) causa di sofferenza e delle forze generanti il saṃsāra. Il nome deriva dal vedico ‘mṛ’ , uccidere, distruggere, portare la morte, pestilenza, come nel latino ‘mors’ (morte), ‘morbus’ (morbo).

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