
Nakulapitusutta
Il capofamiglia Nakulapita
(Saṃyutta nikāya 22)
Così ho udito:
In una certa occasione il Beato dimorava fra i Bhagga, sulla Collina del Coccodrillo, nella Foresta dei Cervi di Bhesakaḷā.
Quindi, il Capofamiglia Nakulapitā, si recò dal Beato; avendolo raggiunto gli rese omaggio e di sedette al suo fianco. Colà seduto, il Capofamiglia Nakulapitā disse al Beato:
“Venerabile Signore, Io sono vecchio, anziano, gravato dall’età; ho vissuto a lungo e sono giunto all’età senile; il mio corpo è afflitto e sono spesso malato. Raramente ho l’opportunità di vedere dei monaci degni di stima; Possa il Beato istruirmi ed esortarmi, di modo che ciò possa essere per me di beneficio e conforto per lungo tempo”.
“È proprio così, Capofamiglia, proprio così; Il tuo corpo è afflitto, gravato[dagli anni], oppresso[dalla malattia]. Se qualcuno che porta in giro questo corpo dovesse affermare di essere sano anche solo per un momento, cos’altro sarebbe ciò se non pura follia?”
“Perciò, Capofamiglia, dovresti esercitarti [a riflettere]in questo modo: ‘Anche se il mio corpo è afflitto, la mia mente non ne verrà afflitta’”.
[…]”Ma come, Capofamiglia, pur essendo il corpo afflitto, la mente non ne sarà afflitta?
In questo caso, il nobile edotto discepolo, il quale ha familiarità con gli esseri ariya (nobili), esperto del nobile Dharma, ben disciplinato nel Dharma, che ha familiarità con gli uomini retti, esperto e ben disciplinato nel Dharma degli uomini retti, non considera la forma[1] come il sé, né il sé come il possessore della forma, né la forma come parte del sé o il sé come parte della forma.
Egli non è ossessionato dal pensiero ‘Io sono la forma, mia è la forma’; Pur non essendo ossessionato dal pensiero ‘Io sono la forma, mia è la forma’, la sua forma muta, si altera; [ma nonostante] il cambiamento e l’alterazione della forma, in lui non sorgono lamento e tristezza, dolore, afflizione e disperazione..
Egli non considera la sensazione … la percezione … le intenzioni … e la coscienza come il sé, né il sé come il possessore della coscienza, né la coscienza come parte del sé o il sé come parte della coscienza. Egli non è ossessionato dal pensiero ‘Io sono la coscienza, mia è la coscienza’.
Pur non essendo ossessionato dal pensiero ‘Io sono la coscienza, mia è la coscienza’, la sua coscienza muta, si altera; [ma nonostante] il cambiamento è l’alterazione della coscienza, in lui non sorgono lamento e tristezza, dolore, afflizione e disperazione..
Così, Capofamiglia, uno è afflitto nel corpo senza essere afflitto nella mente.”
Note:
Rūpa: forma, intesa come il proprio corpo fisico, o alternativamente come un qualunque oggetto materiale esterno; il termine rūpa, in quanto oggetto della cognizione visiva, ha anche il significato di ‘ciò che appare’.
“Ruppatīti kho, bhikkhave, tasmā ‘rūpan’ti vuccati”
“Si rompe, o monaci, perciò è chiamato rūpa”.
(Khajjanīyasutta)
Il sostantivo rūpa deriva dalla stessa radice sanscrita ‘rup’ di rūppati, deteriorarsi, donde il latino rumpo (darómpere v. tr. [lat. rŭmpĕre], io rómpo, ecc.; pass. rem. ruppi, rompésti, ecc.; part. pass. rótto. – 1. a. Spezzare, dividere qualche cosa in due o più parti, con movimento rapido e taglio non preciso)
Secondo il dizionario etimologico,
“Il termine forma con la sua pluralità di accezioni e derivazioni (si pensi all’aggettivo formale o formoso o ai numerosi usi che la filosofia ne ha fatto di questo termine) ha un’origine particolarmente interessante; infatti, esso, deriva sia dal latino forma che dal greco μορφή (morphé) lemmi quasi sovrapponibili ma che presentano sfumature diverse.Infatti, il primo trae origine dalla radice sanscrita dhar– che significa tenere, sostenere, da cui deriva anche il termine firmus, per cui forma significherebbe letteralmente “figura stabile”.La versione greca ha, invece, un’origine più composita, infatti, alla base mor- che esprime il senso del vedere, dell’apparire è stata unita la radice -fé che pare risalire dall’ebraico af, con il significato di faccia, per cui la forma sarebbe la “faccia visibile” della realtà.
Interessante è dunque la sintesi di questi due termini, il primo dei quali è legato indissolubilmente alla bellezza come visione (si pensi al latino formositas), mentre, il secondo, a ciò che colpisce direttamente lo sguardo; in ogni caso, l’origine di questo vocabolo è strettamente legata alla sensibilità del soggetto più che alla sua sfera prettamente psichico-interiore e chissà, se alla luce di questa interpretazione, la traduzione del kantiano “forme a priori” non rappresenti una leggera forzatura del significato originario del termine,,
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