
«Vi sono momenti nella storia del genere umano in cui si affermano nuove categorie nel pensare e nel sentire e, quindi, dell’agire nella vita singola e associata degli uomini. Di conseguenza si verificano mutamenti profondi nella loro esistenza nel coro della storia e, ciò che è molto più importante, si schiudono nuovi orizzonti alla civiltà esistenti, che finiscono per imprimere loro un’inattesa accelerazione. Una di queste “svolte”è quella che, grosso modo, si verificò fra l’VIII e il VI sec. a.C. e che ebbe in quest’ultimo la sua acme. In tale periodo, difatti, si verificò quello che potremmo definire un autentico terremoto spirituale in seno a tutte le civiltà superiori, dal bacino del Mediterraneo alla Cina. Prendendo come punto di riferimento la Bodhi, cioè l’illuminazione di Gautama Shakyamuni, avvenuta probabilmente nella primavera del 531 a.c. , abbiamo nel medesimo periodo la fioritura di Pitagora da Samo,( che raggiunge il suo massimo livello nel 532 a.C. ), di Eraclito da Efeso (540-480 a.C.), e degli Eleati; nel medesimo periodo insegnavano in Cina Confucio (551-479) e Lao Tzu, e in Persia, secondo la credenza della chiesa mazdea, sarebbe vissuto l’ultimo Zarathustra, attorno al VII sec. a.C. All’orizzonte politico- sociale abbiamo, in Roma, la fine della monarchia (509); in Grecia, l’instaurarsi di nuove concezioni politiche segna il tramonto delle antiche monarchie d’origine sacrale, mentre nel Vicino Oriente declinano civiltà teocratiche come quella egizia e quella assiro -babilonese, mentre emerge impetuoso l’impero meda-persiano e, in Cina, si estingue l’idealizzato periodo di “primavere e Autunni” (722-481 a.C.). Questi avvenimenti, sommati ad altri che qui non ci soffermiamo ad elencare, testimoniano un mutamento profondo che, come un onda di marea, come un evento cosmico, percorre le coscienze di tutti gli uomini di quell’epoca.
L’uomo che, In India, personifica questo nuovo atteggiamento è l’asceta dei Gotamidi, Gautama Sakyamuni,noto in tutta l’Asia come il Buddha, lo “Svegliato”. Difatti l’apparizione del buddhismo costituisce una tappa fondamentale, non solo per la storia, date le conseguenze che esso comportò sul piano sociale e politico, ma sopratutto per l’evoluzione dello spirito umano, sia per il contenuto specifico della sua dottrina, il Dharma, sia per il fatto che l’esigenza della liberazione, la mukti o moksa,della tradizione panindiana, viene per la prima volta definita in termini di pensiero logico e non, come si è detto, di una rivelazione di genere mistico.»
-Pio Filppani Ronconi.
Il Buddha e l’India: cenni storici
Il rapporto fra l’insegnamento del Buddha e la cultura religiosa indiana è una questione complessa e delicata, che necessita di essere analizzata tenendo bene a mente il contesto storico in cui nacque il fondatore storico Gotama Sakyamuni, il quale visse in un periodo di grande vitalità spirituale, favorita dallo sviluppo economico e sociale in atto in quel periodo nella Pianura Gangetica.
Siddhārtha Gotama nacque a Lumbini, in quello che oggi è il sud del Nepal (Madhesh o Terai) e visse la prima parte della sua vita nel nord dell’odierno stato indiano dell’Uttar Pradesh. Inutile ricordare che in quell’epoca non era stata ancora stabilita l’odierna suddivisione in stati del sub continente indiano, e nei testi buddhisti in lingua pali, i territori dove visse il Buddha sono genericamente conosciuti con il nome di Majjhima Desa, o Regione di Mezzo.
La datazione della sua nascita è incerta; secondo la tradizione singalese, tale evento avrebbe avuto luogo nel 623 a.C. e la morte nel 543 a.C., anche se gli studiosi moderni ritengono che in realtà il fondatore storico del Buddhismo sia vissuto fra il 566 ed il 486 a.C.
L’origine tribale del Buddha: I Sakya e gli indoariani
Secondo alcuni studiosi contemporanei, la tribù dei Sakya (“I potenti”) era imparentata con gli sciti (In persiano “Saka”), una popolazione nomade di ceppo iranico attestata nella steppa euroasiatica dal XIX a.C.
Il Libro di Manu, un trattato classico di Diritto Induista, classifica i Sakya fra i gruppi non-arii.
Tuttavia, altri studiosi ipotizzano un’origine mongolica dei Sakya.
Per quanto riguarda la religione dei Sakya, il Buddha stesso definisce i membri del suo clan d’origine come “Seguaci del culto del Sole” , “Discendenti del Sole” (adiccagotta). (Sn 3.1).
E’ probabile che i Sakya si stabilirono nei territori oggi compresi fra il nord dell’India ed il sud del Nepal (Terai) qualche secolo prima della nascita di Siddharta.
I testi contenuti nel canone buddhista fanno risalire l’origine del clan Sakya al mitico re Okkaka o Iksvaku, originario dell’area della pianura del Gange nota come Mahajanapada:
«Ambaṭṭha, nei tempi passati, secondo coloro che ricordano il lignaggio ancestrale, i Sakya erano i padroni, mentre tu discendi da una schiava dei Sakya. I Sakya considerano il Re Okkaka come loro capostipite. Un tempo il Re Okkaka, che amava e adorava la sua regina, lasciò il regno ad un suo figlio, bandì i fratelli maggiori dal regno- Okkamukha, Karandu, Hatthiniya e Sinipura- e costoro, essendo stati banditi, costruirono la loro dimora sulle pendici dell’Himalaya vicino ad uno stagno di loti dove cresceva un grande albero di tek, e timorosi di inquinare il loro lignaggio, presero a mogli le loro stesse sorelle.
Quindi, il Re Okkaka chiese ai suoi ministri e consiglieri: “Dove sono adesso i principi?” “Sire, adesso vivono sulle pendici dell’Himalaya, vicino ad uno stagno di loti dove cresce un grande albero di tek, e timorosi di inquinare il loro lignaggio, hanno preso a mogli le loro stesse sorelle.”
Quindi, il Re Okkaka esclamò: “Potenti (sakyā) sono invero i principi, davvero potenti, o amico, sono i principi! Questa è la ragione, o Ambaṭṭha, per la quale sono chiamati Sakya.»
-Ambaṭṭhasutta DN,3
Okkaka era discendente della mitica dinastia solare (suriya-wansha), e per questa ragione il Buddha è spesso definito come ‘il discendente della dinastia solare’(ādiccabandhu) o Principe della dinastia del sole (Kumara Angirasa). Gautama Buddha era quindi un membro della casta dei nobili guerrieri o Kṣatriya, anche se il nome Gautama suggerisce che il clan dei Sakya abbia avuto origine dal Gota (lignaggio) brahmanico dei Gautama, fondato da un Rishi di casta brahamana conosciuto come Gotama Maharishi.
I Sakya, pur avendo assimilato gran parte degli usi e costumi dei cosiddetti popoli indoariani, mantennero degli stili di vita e delle tradizioni peculiari rispetto a quelle dei gruppi etnici maggioritari presenti in India a quel tempo, fra i quali:
la poligamia, (DN3)
i matrimoni fra consanguinei, (DN3)
La macellazione delle vacche (MN 10) ed il consumo di carne (AN 3.39),
l’organizzazione statale repubblicana su base parlamentare (santhagara) (DN3),
l’usanza di conservare i resti mortali dei defunti in grandi tumuli di pietra e fango detti cetiya o stupa (DN16) (questa usanza era per altro tipica dei già citati popoli iranici quali gli Sciti).
Inoltre, i Sakya consideravano la casta dei guerrieri superiore rispetto a quella braminica, della quale contestavano persino la discendenza divina (DN27).
Tutte queste pratiche erano chiaramente in netto contrasto con gli usi e i costumi propri del Bramanesimo.
I rapporti fra gli autarchici Sakya, le repubbliche facenti parte della confederazione dei Vajji e le due grandi monarchie vigenti a quel tempo nella pianura del Gange, quella del Maghada e quella del Kosala, non erano certo dei più semplici; basti pensare al fatto che entrambi i Re dei regni summenzionati, Bimbisara del Maghada e Pasenadi del Kosala, vennero brutalmente destituiti e uccisi dai propri discendenti, e che lo stesso Virudhaka, figlio del Re Pasenadi e di una schiava Sakya, fu l’artefice della distruzione della Repubblica del Sakya e dello sterminio dei suoi abitanti.
Se si tiene conto di tutto ciò, diventa più facile comprendere l’atteggiamento di rottura tenuto dal Buddha rispetto ai sistemi tradizionali dell’antica India.
L’insegnamento del Buddha: Karma e rinascita
Dal punto di vista dottrinale, alcuni insegnamenti del buddhismo sono di fatto una reinterpretazione di idee già esistenti, come ad esempio quella sul Karma, dove il Buddha opera una sorta di “ribaltamento” concettuale del tutto originale.
In origine, con Karma si intendevano quelle attività rituali, quali i sacrifici e le cerimonie di offerta rituale rivolte agli Dei, capaci di produrre il risultato desiderato dall’offerente, grazie alle potere delle divinità propiziate.
In seguito, il significato di Karma assunse il significato più ampio di legge di causa ed affetto, attribuito a tutte le azioni (e non solo a quelle rituali) producenti un qualche risultato, positivo o negativo, in questa vita o nelle prossime.
Nell’insegnamento buddhista tale concetto venne invece ad indicare le intenzioni (cetana), alla base delle azioni stesse:
«Cetanāhaṃ, bhikkhave, kammaṃ vadāmi. Cetayitvā kammaṃ karoti: kāyena, vācāya, manasā.»
«Monaci le intenzioni, Io intendo per Kamma. Avendo prima ponderato, uno agisce di conseguenza tramite il corpo, la parola e la mente.»
–Nibbedhika Sutta, AN 6,63
La dottrina della rinascita (punabbhava)
A differenza di quanto sostenuto dal Bramanesimo, nel quale la teoria della rinascita era concepita come una la trasmigrazione di un’entità imperitura (l’Atman) da un corpo all’altro fino al raggiungimento della moksha e l’unione con il Brahman, (il principio eterno origine di ogni cosa), nel Buddhismo tale dottrina venne a configurarsi come il processo interdipendente delle creazione del Sé sulla base dell’afferrarsi soggettivo ai cinque aggregati psicofisici, di momento in momento e di esistenza in esistenza:
«Monaci, tutti quegli asceti e quei brahamana i quali rammentano le molteplici esistenze precedenti si rammentano dei cinque aggregati soggetti all’afferrarsi o di uno di essi. Ma quali sono questi cinque aggregati?»
«’Tale forma Io ebbi in passato’; così o monaci è semplicemente la forma che egli ricorda; ‘Tale sensazione Io ebbi in passato’, così, o monaci, è semplicemente la sensazione che egli ricorda; ‘Tale percezione io ebbi in passato’, così o monaci, è semplicemente la percezione che egli ricorda; ‘Tali determinanti io ebbi nel passato’, così o monaci è semplicemente dei fattori determinanti che egli si ricorda; ‘Tale cognizione io ebbi nel passato’, così, o monaci, è semplicemente della cognizione che egli si ricorda.»
-Khajjanīyasutta
«l’interesse, la passione, il diletto, la sete, e la tendenza subconscia della mente al coinvolgimento, all’afferrare, al persistere nel rimanere invischiata nella forma, nella sensazione, nel riconoscimento, nei determinanti[1] e nella cognizione è ciò che conduce all’esistenza[condizionata], e la cessazione di tutto ciò è la cessazione degli elementi che conducono all’esistenza[condizionata].»
-Bhavanettisutta
La didattica del Buddha
Il Buddha era solito utilizzare una terminologia familiare ai suoi interlocutori, a cui però egli dava un nuovo significato che si accordava con il suo pensiero, al fine di veicolare il messaggio che gli stava a cuore.
Questo sistema ha indotto alcuni studiosi poco accorti a credere erroneamente che il Buddha seguisse, a suo modo, i Veda e le Upaniṣad, (i testi sacri del brahmanesimo), mentre di fatto ne stava semplicemente impiegando la terminologia.
Tale prassi è spesso evidenziata nei discorsi dalla locuzione «In questa dottrina e disciplina» (imasmiṃ dhammavinaye), a sottolineare che in quel contesto il Buddha stava impiegando la fraseologia tradizionale vedica in accordo al Dhamma da lui scoperto e predicato. L’uso di tale locuzione aveva anche lo scopo di differenziare la posizione del Buddha da quella degli altri maestri suoi contemporanei.
Un altro indicatore che il Buddha stava utilizzando il linguaggio tradizionale dei Veda in una maniera non convenzionale era l’inserimento, in una data sentenza, dell’espressione «Io affermo» (Aham vadāmi), come nel caso della riformulazione del concetto tradizionale di Karma contenuta nel ‘Discorso sull’analisi penetrativa’ già citato in questo articolo.
A tale proposito, T.W. Rhys Davids, nella sua introduzione alla traduzione inglese del Dīgha Nikāya, la raccolta dei discorsi lunghi del Buddha, afferma:
«Nel discutere di sacrifici con un sacerdote dedito ai sacrifici rituali, di “unione con Dio” con un aderente a tale teologia, della superiorità della casta sacerdotale con un bramino arrogante convinto di ciò, di visione mistiche con un fedele seguace di tali credenze o di anima con una persona convinta dell’esistenza dell’anima, il metodo seguito era sempre lo stesso: Gotama si immedesimava il più possibile con la posizione mentale dell’interlocutore, evitando qualsiasi attacco alle convinzioni sostenute con passione da questi; egli accettava, come punto di partenza della propria esposizione, la desiderabilità dell’attività o della condizione ambita dall’interlocutore, fosse questa l’unione con Dio, (come nel Tevijja sutta), i sacrifici (Kūṭadanta sutta), lo status sociale (Ambaṭṭha sutta), le visioni celestiali (come nel Mahāli Sutta), o la credenza nell’anima (Poṭṭhapāda).
Egli adottava perfino la stessa fraseologia dei suoi interlocutori, e quindi, in parte infondendo un nuovo e più alto (dal punto di vista buddhista) significato in tali parole, in parte facendo ricorso ad una concezione etica comune, egli riusciva a portare i suoi oppositori alle proprie posizioni.
In tale metodo da lui adottato vi erano sia un senso di rispetto che di dignità, oltreché una non piccola abilità dialettica, ed una grande padronanza dei concetti etici implicati era certamente necessaria al fine di produrre il risultato desiderato..
Comunque sia, il metodo seguito in tutti questi dialoghi presenta uno svantaggio: accogliendo la posizione dei suoi avversari, adottandone il linguaggio, i redattori dei sutta ci impongono – al fine di comprendere ciò che essi ci presentano come la visione di Gotama- di leggere in profondità fra e righe del discorso; L’argumentum ad hominem non può essere messa sullo stesso piano dell’affermazione di un’opinione espressa senza alcun riferimento ad una persona o contesto specifico.»
Tuttavia, nonostante l’approccio assolutamente pacifico e conciliante, Il Buddha fu l’artefice di una vera e propria rivoluzione culturale, arrivando a negare la validità di molti assunti del pensiero religioso tradizionale quali l’atman, il Brahman, la validità dei sacrifici (yāja), l’ascetismo fine a se stesso (Tapas), i sacrifici al Dio del fuoco Agni (aggihutta) e le abluzioni rituali presso i fiumi sacri.
«Libero, invero, Io sono da queste pratiche dolorose! Invero, è un bene che Io sia libero da queste pratiche dolorose, un bene che Io sia libero da queste inutili pratiche dolorose, che Io sia libero, avendo realizzato la piena comprensione, il risveglio!»
-Tapokammasutta
Ed ancora, in merito alla concezione creazionista propria del Bramanesimo:
“Se Egli è davvero il Signore del Mondo intero, conosciuto come il Divino, Signore delle moltitudini di esseri, perché impone disgrazia sul mondo intero, perché non crea felicità per il mondo intero.?
“Se Egli è davvero il Signore del Mondo intero, conosciuto come il Divino, Signore delle moltitudini di esseri, Perché ha creato un mondo così ingiusto, dove prevalgono l’inganno, la menzogna e l’ignoranza?
“Se Egli è davvero il Signore del mondo intero, conosciuto come il Divino, signore delle moltitudini di esseri, allora caro Aritta, il Signore degli esseri è un individuo ingiusto, che consapevole del giusto impone ciò che è ingiusto!”
-Bhūridatta Jātaka
“Se esiste un Dio onnipotente da soddisfare, ed in ogni creatura gioia e dolori ed azioni positive e negative, tale Signore sarebbe macchiato col peccato, (In quanto) l’uomo compie solamente la sua (del Signore) volontà.”
-Mahābodhi Jātaka.
Il carattere propedeutico della meditazione
Per quanto riguarda la pratica della meditazione (jhāna), questa era vista dai suoi contemporanei come il fine ultimo, il mezzo per realizzare l’unione fra Atman e Brahman, oltre il quale non vi era più nulla da realizzare.
Per il Buddha, tali forme di meditazione erano assolutamente insufficienti al fine di ottenere lo scopo che egli si era prefissato, la liberazione dal dukkha, essendo queste un semplice “trampolino di lancio” utile per la comprensione intuitiva della realtà dell’esistenza. (Vipassanā).
In un ottica buddhista, meditare vuol dire fare chiarezza sulla natura delle cose: il termine in lingua Pāḷi per meditazione è jhāna, il quale deriva dal verbo jhāyati, il cui significato letterale è ‘mettere a fuoco’. L’immagine metaforica qui utilizzata è quella di una lente, la cui funzione può essere sia quella di accendere un fuoco (jhāpeti in lingua Pāḷi), sia di permettere una visione più chiara e nitida.
Il termine Vipassanā, una componente peculiare della meditazione buddhista, deriva dalla combinazione dei vocaboli vividha, ‘discernere vividamente’ e passati, vedere, nel senso di vedere o riconoscere in maniera vivida la vera natura mutevole, insoddisfacente e impersonale dell’esistenza.
Altre peculiarità del Buddhismo rispetto al bramanesimo
Fra gli elementi che contraddistinguono il Buddhismo dal bramanesimo vi sono:
Il disconoscimento dell’origine divina della caste (DN27, MN93),
la critica al tradizionalismo quale via per la salvezza (DN 13),
il rifiuto del creazionismo e del concetto di Atman (DN1),
La figura del Buddha del futuro Maitreya (DN27), trasposizione buddhista del Dio iranico Mitra; oltre a ciò, altri concetti propri del buddhismo presentano delle interessanti somiglianze con lo Zoroastrismo, come la concezione dell’individuo in quanto costituito da corpo, parola e mente, il concetto di inferno e paradiso e il culto del Dio della morte Yama.
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