
L’etimologia del Dharma
dukkha (sofferenza)
Il termine Pāli dukkha deriva da ‘duh’, ‘difficile’, e ‘kha’, ‘spazio’, ‘foro’ con riferimento al ‘foro assiale'[1].
Questo vocabolo, che può apparire sia come aggettivo che come sostantivo, indica una sorta di lacuna, una mancanza di qualcosa, un vuoto interiore (kha), difficile da sopportare (duḥ) e quindi frustrante e dolorosa.
Con dukkha si intende uno stato di insoddisfazione latente che può manifestarsi in molteplici aspetti: come pena ed angoscia (soka- parideva), come prostrazione psicosomatica (dukkha-domanassa), ed infine come ‘sfinimento’ (upāyāsa).
Come sostantivo, è spesso tradotto come ‘sofferenza’, ‘dolore’, ‘insoddisfazione’ eccetera; quando invece è impiegato in funzione di aggettivo, come ad esempio nel Dhammacakkappavattana Sutta, o nel famoso motto “sabbe saṅkhārā dukkhā” (tutti i condizionanti sono dolorosi), o nel detto “Yad aniccam tam dukkham” (ciò che è incostante è insoddisfacente), questo termine assume il significato di ‘doloroso’, ‘insoddisfacente’, ‘frustrante’ .
Il dukkhatāsutta (SN, 45.165) elenca tre categorie di dukkha, entro le quali le differenti manifestazioni summenzionate sono comprese:1. dukkhadukkhatā: La sofferenza (lett. ‘dolorosità’) legata al presentarsi e al persistere di esperienze di per sé dolorose e spiacevoli.
2.vipariṇāmadukkhatā: la sofferenza (dolorosità) legata al cambiamento di ciò che sperimentiamo (soggettivamente) come piacevole.
3. saṅkhāradukkhatā: la sofferenza (dolorosità) del condizionante (saṅkhāra). Tutto ciò che è condizionato, determinato, prodotto è insoddisfacente, frustrante e in ultima analisi spiacevole, è ciò per via della natura precaria e mutevole dei condizionanti stessi. Un condizionante è ciò che determina, assieme ad altri condizionanti, la piacevolezza di un dato fenomeno nell’esperienza soggettiva, ovvero il considerare (samanupassana) i cinque aggregati come io e mio.
“Yā kho pana bhikkhave sā samanupassanā sankhāro so”
“Monaci, il considerare è un condizionante”
-SN III, Khandasamyutta, Khajjhaniyavagga, sutta 9.
Questa forma di dukkha ha a che vedere con la catena dell’origine dipendente (paṭiccasamuppāda). In questo contesto, con dukkha ci si riferisce alla perpetua insoddisfazione implicita nell’esistenza soggettiva (bhava), ed infine a quella sofferenza che inevitabilmente si presenterà con la presa di coscienza dell’approssimarsi di invecchiamento e morte, sofferenza legata alla consapevolezza di non poter governarne questi eventi fondamentali:
«Monaci, agli esseri soggetti al decadimento e alla morte, sorge un tale desiderio : ‘Che noi si possa non essere soggetti al decadimento e la morte, che decadimento e morte non sopraggiungano per noi!’ Ma tale desiderio non può essere realizzato. Perciò, non ottenere ciò che si desidera è dukkha».
(Mahāsatipaṭṭhānasutta)
Come già accennato, per il Buddha, ogni forma di esistenza, ogni ‘bhava’, è caratterizzata dal dukkha, in una forma o l’altra, e ciò per via della precarietà (aniccata) di ciò che determina la piacevolezza di una data esperienza; questo stato di cose è stato spesso inteso erroneamente come un atteggiamento pessimista da parte del Buddha; in epoca recente, in molti, influenzati da una concezione edonistica quale fine ultimo del vivere e dal “pensiero positivo” di stampo new age, (la componente spirituale del consumismo occidentale globalizzato) nonché ignari che tali critiche si basino su traduzioni approssimative dei sutta, hanno etichettato il Buddhismo delle origini come “pessimista” e tendente all’apatia.
Diversi autorevoli insegnanti buddhisti contemporanei hanno cercato di confutare tali accuse promuovendo un’immagine del buddhismo più “positiva” e in sintonia con le indicazioni del “marketing spirituale” culturalmente egemone nella “società liquida” odierna; prendendo tali premesse (le traduzioni imprecise) come valide, questi insegnanti hanno finito involontariamente per corroborare tali opinioni erronee sul pensiero del Buddha.
Secondo lo scrittore singalese R.G. de. S. Wettimunny, un allievo laico del venerabile Ñāṇavīra Thera,
“Una delle ragioni per la quale il Puthujjana non può accettare che ogni sua esperienza, in qualunque momento, sia caratterizzata da dukkha (insoddisfazione) , è dovuta al fatto che egli pensi al dukkha puramente nei termini di sgradevolezza manifesta, come nel caso dell’ansia, della tristezza o della disperazione.
L’identificazione dell’esperienza come ‘sé’ non comporta nell’immediato, (ovvero, non necessita, simultaneamente all’identificazione) un’insoddisfazione manifesta.
L’insoddisfazione si manifesterà nel tempo, presto o tardi; nella misura in cui la sgradevolezza è feconda, o che le condizioni per il manifestarsi del dukkha sono presenti, in quella misura, è presente il dukkha.
Come una persona che avesse accettato un moneta falsa considerandola autentica; il tradimento [delle aspettative, N.d.T.] diverrà palese solo quando egli proverà ad acquistare qualcosa, scoprendo così che quella moneta non può essere accettata.
Il possesso della moneta contraffatta, assieme alla convinzione della sua autenticità, è già un tradimento, un possesso gravido di un tradimento manifesto. “
“In che modo, monaci, l’afferrarsi genera l’ansia? Ecco, una persona comune priva di istruzione considera il corpo … la sensazione … la percezione … le intenzioni … la cognizione … in questo modo: ‘Ciò è mio, ciò sono Io, questo è il mio Sé’; ma il corpo, la sensazione, la percezione, le intenzioni e la cognizione cambiano, diventando differenti; con il cambiamento e l’alterazione del proprio corpo … in lui sorgono tristezza e angoscia, dolore e dispiacere e disperazione”.
-Dutiyaupādāparitassanāsutta SN 5.7
Note: 1: Il riferimento è al foro assiale su cui venivano installate le ruote dei veicoli che gli antichi popoli nomadi usavano per spostarsi nei loro viaggi migratori che li condussero ad insediarsi nel nord dell’India.
L’immagine della ruota roteante, imperniata su di un asse, rende assai bene l’idea della natura ciclica e ripetitiva dell’insoddisfazione (Samsara), il suo costante dispiegarsi, esperienza dopo esperienza, alimentata proprio dalla vana ricerca di una soddisfazione stabile e duratura.
A questo proposito, Winthrop Sargeant spiega:
«Gli antichi popoli Ariani che portarono la lingua sanscrita in India erano popoli nomadi dediti all’allevamento di cavalli e bestiame, e viaggiavano in veicoli trainati da cavalli o buoi. I prefissi Su e dus stanno ad indicare il ‘buono’ ed il ‘cattivo rispettivamente. La parola kha, che in sanscrito che significa “cielo”, “etere” o “spazio”, era originariamente la parola per “foro”, in particolare il foro assiale di uno di quei veicoli utilizzati dagli aria nei loro spostamenti. Così, sukha significava in origine “avere un foro assiale buono”, mentre con duhkha si intendeva “avere un foro assiale rovinato”, causa quindi di disagio per i viaggiatori.»
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