
“Quando la mente è silenziosa, è persino possibile udire i fili d’erba dialogare fra loro: possano tutti gli esseri danzare liberi nel vento con la propria mente resa silente dall’aver lasciato andare ogni cosa.”
(Buddhadasa Bhikkhu)
La parola (Pāli: vācā) è, assieme al corpo e alla mente, una delle tre porte attraverso le quali l’individuo inter-agisce con il mondo; questo inter-agire a sua volta andrà a determinare la qualità dell’esistenza, nei termini di felicità o sofferenza; la molla che spinge ad agire è data dall’intenzione, sulla base della quale l’individuo compirà azioni fisiche, verbali e mentali:
” l’intenzione che io definisco Karma. Essendo sorta un’intenzione, uno agisce tramite il corpo, la parola e la mente.”
– Nibbedhikasutta, AN 6.63
L’intenzione ad agire, parlare ed elaborare pensieri e idee è a sua volta determinata dalla presenza o assenza di uno delle tre radici non salutari:
“Vi sono tre cause per il prodursi del Kamma: Quali tre? Il desiderio è causa per il prodursi del kamma, l’avversione è causa per il prodursi del kamma, l’ignoranza è causa per il prodursi del kamma.”
– Nidānasutta, AN 3.34
Secondo il Culavedalla Sutta, i determinanti fondamentali della parola sono il pensare e il ragionare:
“Visakha, innanzitutto, si pensa e si pondera, dopodiché si inizia a parlare; perciò il pensare e il riflettere sono il determinante della parola”.
Nel contesto dell’origine dipendente, la parola è definita come uno dei tre saṅkhārā, attività condizionanti generate sulla base dell’ignoranza o avijja:
“Cosa sono i saṅkhārā? Questi tre, o monaci sono i saṅkhārā: condizionante corporale, condizionante della parola, condizionante mentale. Questi tre, o monaci, sono chiamati saṅkhārā.“
-Paṭiccasamuppāda-Vibhaṅgasutta, SN 12.2
Per questa ragione, l’utilizzo accorto e parsimonioso dell’energia verbale gioca un ruolo di importanza primaria nell’addestramento all’etica, componente imprescindibile del Sentiero Buddhista; a tal proposito, il Buddha diede svariate istruzioni e consigli su come utilizzare al meglio questa preziosa risorsa; un esempio tipico è quello relativo ai cinque fattori che rendono il parlare nobile e salutare:
“la parola, allorché dotata di cinque fattori, è una buona parola, non una cattiva parola, irreprensibile e non criticata dai saggi. Quali cinque? Quando è pronunciata al momento appropriato, quando è veritiera, gentile, densa di significato, e detta con amorevolezza”.
– Vācāsutta, AN.5
LA RETTA PAROLA
La Retta Parola è uno dei fattori etici del Nobile Ottuplice Sentiero, assieme alla Retta Azione e al Retto Stile di Vita; questi fattori hanno a che vedere con la sfera comportamentale dell’individuo; i restanti fattori, ad eccezione del Retto Raccoglimento sono collegati con la sfera cognitiva; la Retta Parola è così definita:
“Cos’è la retta parola? L’astenersi dal mentire, dalla parola che è causa di discordia, dal parlare violento e dai discorsi futili. Questa, monaci, è detta retta parola.”
– AN10.211
Nel Dhammapada è detto:
“Non parlare con asprezza con nessuno; coloro ai quali ci si rivolge in questo modo ribatteranno. I discorsi malevoli sono davvero la causa di sofferenza (dukkha); i risultati di che è stato fatto ricadranno su di te”.
-Dhammapada 134
In più di un occasione, il Buddha invitò i suoi discepoli a non lasciarsi condizionare dalle parole altrui e a mantenere un proprio equilibrio interiore a prescindere dal comportamento dell’interlocutore:
“Vi sono cinque modi di parlare che le persone potrebbero usare con voi: tempestivo o intempestivo, veritiero o falso, gentile o ruvido, benefico o dannoso, amorevole o astioso; in questo caso voi, monaci, in questo modo dovreste ben esercitarvi: “La nostra mente non sia influenzata da ciò, non ci lasceremo scappare dalla bocca parole nocive; dimoreremo in uno stato di compassione, di interesse nei loro confronti, di benevolenza, privi di odio”; “Dimoreremo pervadendo quella persona con pensieri di amorevole gentilezza, e, iniziando da lui, pervaderemo il mondo intero con una mente imbevuta di amorevole gentilezza, vasta, estesa, senza limiti, priva di astio e malevolenza. Così, monaci, dovreste voi esercitarvi”.
“Come se arrivasse un uomo provvisto di lacca o curcuma, indaco o carminio, e dicesse: ‘Io disegnerò nello spazio vuoto delle figure, dipingerò delle immagini nello spazio vuoto ’. Cosa pensate, monaci, riuscirebbe quell’uomo a disegnare delle figure nello spazio vuoto, a dipingere delle immagini in tale spazio vuoto?”
“Certamente no, Signore!”
“E per quale ragione?”
“Lo spazio vuoto è informe, ‘non manifesto ’ (Anidassano), non vi si può disegnare una figura, dipingere un immagine, per quanta fatica e impegno quell’uomo possa metterci”.
“Allo stesso modo, in riguardo a queste cinque modi di parlare, dovreste ben esercitarvi: “che la nostra mente non sia influenzata da ciò, non ci lasceremo scappare dalla bocca parole nocive; dimoreremo in uno stato di compassione, di interesse nei loro confronti, di benevolenza, privi di odio; dimoreremo pervadendo quella persona con pensieri di amorevole gentilezza, e, iniziando da lui, pervaderemo il mondo intero con una mente imbevuta di amorevole gentilezza, vasta, estesa, senza limiti, priva di astio e malevolenza. Così dovreste voi esercitarvi.”
-Kakacūpamasutta, MN21
IL SILENZIO DEL BUDDHA
Secondo Il Buddha vi sono quattro modi per rispondere ad una domanda: con una risposta categorica, con una risposta articolata, con una contro domanda ed infine con il silenzio:
“Vi sono questi quattro modi rispondere ad una domanda: Quali quattro? Vi sono domande alle quali bisogna rispondere in maniera categorica; domande alle quali bisogna rispondere analizzando in dettaglio (vibhajja); domande a cui bisogna rispondere con una contro domanda, e domande da tralasciare.”
-Pañha Sutta,Anguttara Nikāya 4.42
Il Buddha stesso alle volte non esitava a rimanere in silenzio, allorquando riteneva che qualunque risposta avrebbe creato ulteriore confusione nell’interlocutore come nel caso del celebre dialogo su concetto di Sé con l’asceta errante Vaccagotta:
“Venerabile Gotama, esiste il Sé?”
A questa domanda, il Sublime rimase in silenzio.
“Allora, venerabile Gotama, non esiste alcun Sé?”
E per la seconda volta il Sublime rimase in silenzio.
Quindi, l’asceta Vacchagotta si alzò dal suo seggio e se ne andò. Non molto dopo che l’asceta Vacchagotta se n’era andato, il venerabile Ānanda disse al Sublime:
“Signore, perché non ha risposto alle domande dell’asceta errante Vacchagotta?
”Ānanda, se alla domanda dell’asceta Vacchagotta ‘Esiste un Sé?’, io avessi risposto: ‘Il Sé esiste’, sarei stato associato a quegli asceti e sacerdoti assertori di teorie eternaliste; se alla domanda dell’asceta Vacchagotta ‘Allora non esiste alcun Sé?’, io avessi risposto: ‘Il Sé non esiste’, sarei stato associato a quegli asceti e sacerdoti assertori di teorie nichiliste”.
Ānanda, se alla domanda dell’asceta Vacchagotta ‘esiste un Sé?’, io avessi risposto: ‘Il Sé esiste’, forse ciò sarebbe stato coerente con la conoscenza del fatto che tutti i fenomeni sono non-sé?
“No di certo, Signore”.
“Ānanda, se alla domanda dell’asceta Vacchagotta ‘Allora non esiste alcun sé?’ io avessi risposto: ‘Il Sé non esiste’, ciò avrebbe fatto aumentare la confusione nel già confuso asceta Vacchagotta. [che avrebbe pensato]:’Prima avevo un sé ed ora non ce l’ho più!’”.
– Ānandasutta, SN. 44
IL NOBILE SILENZIO
Il Nobile Silenzio è un esercizio fondamentale per chiunque voglia coltivare la meditazione profonda. Tuttavia, praticare il Nobile Silenzio non significa affatto assenza totale di comunicazione, rigidità o fredda indifferenza verso il prossimo; la definizione corretta di Nobile Silenzio è data nel seguente Sutta attribuito a Mahā Moggallāna:
“Nobile silenzio, nobile silenzio”, si dice. Ma cos’è il nobile silenzio?’ ‘Quando un monaco, con l’acquietamento dei pensieri e del ragionare, entra e rimane nel secondo jhāna, caratterizzato da gioia e piacere nati dal raccoglimento, unificazione della consapevolezza libera da pensare & ragionare e dotata di confidenza interiore: Questo si chiama nobile silenzio”.
– Kolita Sutta, SN 21.1
Inoltre, il Buddha invitò i suoi seguaci monaci ad evitare discussioni sterili e chiacchierare senza senso, limitando l’uso della parola ai soli fini dello studio e della conoscenza del Dharma:
“Monaci, Il parlare di siffatti argomenti non è certamente conveniente per voi figli di buona famiglia che con fiducia avete lasciato la casa per la vita ascetica. Quando vi siete riuniti, ci sono due cose che dovreste fare: parlare del Dhamma o mantenere un nobile silenzio.”
– Udana 2.2
Il Nobile Silenzio insegnato dal Buddha non deve essere confuso con il silenzio comunemente inteso, con la chiusura verso il prossimo e l’assenza di dialogo; il Silenzio nobilitante è il risultato dell’aver reso silenziosa la propria mente; in altre parole, il Nobile Silenzio ha a che vedere con l’acquietarsi del chiacchiericcio mentale causa di confusione interiore e conflitti interpersonali. I seguenti versi tratti dal Dhammapada chiariscono la posizione del Buddha in merito alla futilità del mero silenzio:
“Non con il mero silenzio si diventa saggi (muni, letteralmente: silenzioso), se si è ottusi e ignoranti. Come chi regge una bilancia, il saggio prende ciò che è bene e rifiuta ciò che è dannoso. Per questo egli è un ‘muni’. Colui che comprende gli aggregati, interni ed esterni è perciò, chiamato ‘muni’.
– Dhammapada 268, 269
In definitiva, il Nobile Silenzio è uno strumento che ci avvicina all’emancipazione dal dukkha; ancora dal Dhammapada:
“Se riuscirai a rimanere in silenzio, come un gong rotto che più non risuona, sarai vicino al Nibbana, in quanto non ci sarà più asprezza in te.”
– Dhammapada 134
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