
«Il tempo consuma gli esseri tutti, ed anche se stesso; colui che consuma il tempo[1] ‘cucina’ il cuocitore degli esseri [2].»
– Mūla Pariyāya Jātaka, 245
La nozione di tempo è di fondamentale importanza nel sentiero buddhista, e tuttavia essa potrebbe apparire al neofita come estremamente vaga e nebulosa. Con questo articolo ci proponiamo di fare un po’ di chiarezza in merito alla concezione buddhista del tempo in accordo alle fonti del Canone Pāli.
Sommario:
1.Cos’è il Tempo?
2.La nozione di tempo nel Canone Pali
3.La nozione di tempo nella cosmologia buddhista
4.La dottrina dei Sette Buddha
5.L’origine del Saṃsāra
6.Passato, presente e futuro: Il Sistema Sarvāstivāda
7.Kṣaṇavada : la teoria dei momenti
8.Svabhāva, la natura intrinseca dei fenomeni
9.Tempo ed esistenza: l’esistenzialismo buddhista e la Ruota dell’Esistenza
10.Costanza ed errata percezione del sé
11.La concezione spazio-temporale e i cinque aggregati
12.Tempo e percezione del cambiamento
13. Cambiamento continuo e percezione soggettiva del cambiamento
1.Cos’è il Tempo?
Nell’Enciclopedia Treccani troviamo la seguente definizione del concetto di tempo: «L’intuizione e la rappresentazione della modalità secondo la quale i singoli eventi si susseguono e sono in rapporto l’uno con l’altro (per cui essi avvengono prima, dopo, o durante altri eventi), vista volta a volta come fattore che trascina ineluttabilmente l’evoluzione delle cose (lo scorrere del t.) o come scansione ciclica e periodica dell’eternità, a seconda che vengano enfatizzate l’irreversibilità e caducità delle vicende umane, o l’eterna ricorrenza degli eventi astronomici; tale intuizione fondamentale è peraltro condizionata da fattori ambientali (i cicli biologici, il succedersi del giorno e della notte, il ciclo delle stagioni, ecc.) e psicologici (i varî stati della coscienza e della percezione, la memoria) e diversificata storicamente da cultura a cultura..»
2.La nozione di tempo nel Canone Pali
Nei testi del Canone Pāli vi sono sei vocaboli relativi alla nozione di tempo e a concetti ad essa associati: samaya, kāla, khana, addham, ratra e cira.
2.1Kāla
Il termine kāla è generalmente impiegato per descrivere il tempo in senso convenzionale, la cronologia degli eventi e della quotidianità, come ad esempio nell’espressione ‘kālam karoti’ ‘compiere il proprio tempo’, ovvero morire. Questo vocabolo è probabilmente imparentato con il greco chronos e con l’italiano calendario. Kāla indica anche il momento appropriato per compiere una determinata attività; Il suo contrario, akāla, serve a descrivere un momento inappropriato, come nei seguenti esempi:
«Pañcime, bhikkhave, vacanapathā yehi vo pare vadamānā vadeyyuṁ,kālena vā akālena vā..»
«Vi sono cinque modi di parlare che le persone potrebbero usare con voi: tempestivo o intempestivo..»
-Kakacūpamasutta, MN21
«Cattārome, bhikkhave, kālā. Katame cattāro?Kālena dhammassavanaṁ, kālena dhammasākacchā, kālena sammasanā, kālena vipassanā.»
«Monaci, vi sono quattro tempi; quali quattro? Vi è un tempo per ascoltare l’insegnamento, un tempo per dialogare sull’insegnamento, un tempo per la serenità, un tempo per la visione profonda.»
-Paṭhamakālasutta, AN 4,146
«Yassadāni tvaṃ, meghiya, kālaṃ maññasīti.»
«Meghiya, questo è il momento idoneo per fare ciò a cui stai pensando.»
–Udāna 4.1
Similmente, vikāla, indica un momento inappropriato per svolgere certe attività; un tipico esempio è la formula del precetto monastico nel quale si raccomanda l’astensione dal cibo solido dopo il mezzogiorno, (vikālabhojana).
2.2.Samaya
Samaya, (lett. ‘incontro’, ‘riunione’, ‘occasione’ ‘periodo’ ‘occorrenza’) sembra riferirsi alla nozione di tempo, alla temporalità, in relazione ad uno o più eventi; tutti i Discorsi attribuiti al Buddha iniziano con il tipico incipit:
«Evaṃ me sutaṃ, ekam samayam bhagavā sāvatthiyaṃ viharati..»
«Così ho udito, in una certa occasione il Beato dimorava a Savatthi..»
2.3.Khana
Khana (istante, momento) riguarda la natura mutevole dell’esperienza, la momentaneità di qualunque fenomeno manifesto (dharma).
2.4.Addham
Addham (lunghezza, estensione): questo termine ha a che vedere con l’idea di estensione temporale attraverso le tre categorie di passato, presente e futuro; i seguenti versi sembrano confermare tale ipotesi:
«Tayome, bhikkhave, addhā. Katame tayo?Atīto addhā, anāgato addhā, paccuppanno addhā—ime kho, bhikkhave, tayo addhāti.»
«Monaci, vi sono questi tre tempi: quali tre? Passato, futuro e presente. Questi, monaci, sono i tre tempi».
-Addhāsutta ( Iti, 63 )
2.5.Ratta
Letteralmente: ‘notte’; questo vocabolo sembra indicare un determinato periodo di tempo; ad esempio: vassaratte, «La Stagione delle Piogge». Nel Mahātaṇhāsaṅkhayasutta (MN 38), troviamo la seguente espressione idiomatica :
«Tañhi te, moghapurisa, bhavissati dīgharattaṁ ahitāya dukkhāyā”ti.»
«Ciò, sarà per te, uomo stolto, per lungo tempo di danno e dolore.»
2.6. Cira
L’aggettivo cira, (lontano nel tempo) e il suo contrario acira (recente), qualificano un determinato periodo di tempo; ad esempio, nel Sīlabbatasutta ( AN 3.78) si legge:
«Atha kho bhagavā acirapakkante āyasmante ānande bhikkhū āmantesi»
«Quindi, non molto tempo dopo la partenza del venerabile Ānanda, il Beato disse ai monaci..»
Nell’Aṅgulimālasutta (MN86)si legge:
«Cirassaṁ vata me mahito mahesī»
«Per lungo tempo fu da me venerato il Grande Saggio»
Quest’analisi non dovrebbe essere intesa in maniera eccessivamente rigida, in quanto è noto che il Buddha utilizzava spesso termini diversi in maniera intercambiabile.
3.La nozione di Tempo nella cosmologia buddhista
In un noto passo dell’Aggaññasutta (DN27) si afferma che l’universo è soggetto ad un lungo periodo di contrazione a cui segue un periodo altrettanto lungo di espansione:
«Hoti kho so, vāseṭṭha, samayo yaṁ kadāci karahaci dīghassa addhuno accayena ayaṁ loko saṁvaṭṭati… Hoti kho so, vāseṭṭha, samayo yaṁ kadāci karahaci dīghassa addhuno accayena ayaṁ loko vivaṭṭati.»
«Vi è un tempo (samaya), Vāseṭṭha, in cui, dopo un lungo periodo (addha), questo universo si contrae…vi è un tempo in cui, dopo un lungo periodo, questo universo si espande..»
Similmente, nel Kappasutta (AN 4.156), è detto che un eone (kappa) è caratterizzato da quattro momenti virtualmente incalcolabili:
1.involuzione (kappo saṁvaṭṭati),
2.stasi dell’involuzione (kappo saṁvaṭṭo tiṭṭhati),
3.evoluzione (kappo vivaṭṭati)
4.stasi dell’evoluzione (kappo vivaṭṭo tiṭṭhati).
Kappa significa epoca cosmica o eone; i Sutta non forniscono una definizione della durata di un kappa, ma secondo la cosmologia buddhista un singolo kappa equivale a svariati milioni di anni umani. L’attuale Kalpa è detto Bhadrakalpa o Eone Fortunato, e ciò per via del fatto che in questa epoca vi è nato un Buddha pienamente risvegliato.
4.La dottrina dei Sette Buddha
Il Mahāpadānasutta (DN15), introduce la dottrina dei Sette Buddha; secondo questo Sutta, l’attuale Buddha, Siddharta Gautama, sarebbe stato preceduto da altri sei Buddha:
- Vipassī
- Sikhī
- Vessabhū
- Kakusandha
- Koṇāgamana
- Kassapa
Inoltre, il Cakkavatti-Sīhanāda Sutta, (DN26), un testo con marcate tendenze apocalittiche, aggiunge alla lista un settimo Buddha, Metteyya, (Sanscrito: Maitreya); secondo questo testo, Il Bodhisatva Maitreya si manifesterà su questa terra quando gli insegnamenti dell’attuale Buddha saranno totalmente degenerati. In merito a queste teorie, Il Prof. Richard Gombrich scrive:
«Per il Buddhisti, il Dharma, la Verità, esiste eternamente; la Verità è vera, a prescindere dal fatto che la si riconosca come tale o meno [..] Il Dhamma è vero sia in presenza di un Buddha che in sua assenza[..]L’importanza di un Buddha è la seguente: egli riscopre il Dharma per poi insegnarlo agli altri. Se osserviamo il Buddhismo da un’altra angolazione, noteremo che la maggior parte degli altri fondatori di religioni si autodefinirono come riformatori invece che innovatori [..] che essi stavano reintroducendo l’autentica antica dottrina che nel corso dei tempi era stata corrotta o persa [..] Il Buddha prese su di sé la piena responsabilità del suo messaggio, senza mai affermare di aver ricevuto tale messaggio da un’autorità superiore; da questo punto di vista, seguì lo stesso percorso degli altri maestri religiosi indiani del suo tempo; tuttavia egli si differenziò da questi per via dell’impossibilità nel far riconoscere la propria autorità in relazione ad un lungo lignaggio di maestri[..] Perciò il riconoscimento del Buddha come maestro religioso non poté che essere mitologica; ed è qui che ritroviamo la Raison d’être della dottrina dei Buddha passati.
la Dottrina dei Buddha passati ha la sua origine nei sutta del Dīghanikāya; in questa raccolta di testi è contenuta la dottrina secondo la quale l’universo non può aver un inizio, in quanto nulla può nascere senza una causa[..] Tale cosmologia permette al lignaggio dei Buddha di estendersi all’infinito, nel passato e nel futuro». [1]
Tutto ciò sembra suggerire che il Buddha concepisse l’universo come un insieme fluttuante di elementi ciclicamente soggetti ad alterazioni spazio-temporali; questa idea di un universo in continua evoluzione la ritroviamo in uno dei concetti fondamentali della filosofia Buddhista: saṃsāra.
5.L’origine del Saṃsāra
Il termine saṃsāra è composto dal prefisso ‘saṃ’, ‘assieme’ e dal verbo ‘sarati’, lett. ‘fluire’ ‘muoversi’, dalla radice verbale ‘sṛ’ (scorrere); saṃsārati può essere tradotto con ‘rifluire’, ‘vorticare’, ‘rigirare’. Il saṃsāra è uno stato che si perpetua in continuazione, di istante in istante e di vita in vita, caratterizzato da un ciclico ripetersi (vaṭṭa), degli eventi fondamentali dell’esistere quali la nascita, la malattia, l’invecchiamento e la morte, situazioni caratterizzate dal dukkha.
Per il Buddha, l’origine, (lett. la ‘matrice’, mata) del saṃsāra è sconosciuta (anamatagga), e un punto d’inizio (Pubbā koṭi) non può essere conosciuto (na paññāyati). (notare che il Buddha dice che l’origine del saṃsāra non può essere compresa, non che esso non abbia un’origine!):
«Anamataggoyaṃ, bhikkhave, saṃsāro. Pubbā koṭi na paññāyati avijjānīvaraṇānaṃ sattānaṃ taṇhāsaṃyojanānaṃ sandhāvataṃ saṃsarataṃ.»
«Monaci, l’origine del saṃsāra è sconosciuta, e il suo inizio non può essere compreso dagli esseri che vagano e rifluiscono, ostacolati dall’ignoranza e legati dalla sete.»
– Dhītusutta, SN 15.19
Similmente, il Niddesa, un commentario canonico attribuito a Sariputta afferma:
«Saṃsārassa purimāpi koṭi na paññāyati, pacchimāpi koṭi na paññāyati; majjheva saṃsāre sattā ṭhitā patiṭṭhitā allīnā upagatā ajjhositā adhimuttā.»
«L’inizio del saṃsāra non può essere conosciuto, né tanto meno la sua fine; gli esseri rimangono saldamente invischiati nel saṃsāra, attaccati, intenti, dediti ad esso.»
– Cnd 14.
Per il Buddhismo, questo stato di cose non termina con la vita attuale, ma si perpetua in nuove forme in una serie di esistenze (bhava) senza soluzione di continuità. La dottrina della rinascita (punabbhava) si basa sul concetto di continuità spazio temporale di un insieme di aggregati in [costante?] divenire. D’altro canto, la cessazione del ciclo delle rinascite deve necessariamente essere realizzata nel qui ed ora; Perciò il Buddha definì il Dhamma (realtà) akāliko, immediato, e sanditthiko, visibile qui ed ora.
Per questa ragione, la nozione di tempo assume un’importanza maggiore quando si passa dalla sfera cosmologica a quella puramente esistenziale.
6.Passato, presente e futuro: Il sistema Sarvāstivāda
In merito alla nozione di tempo e alla triplice divisione di passato, presente e futuro, il Professor J. Kalupahana scrive:
«Il Buddha in effetti descrisse il tempo e la temporalità in tre periodi temporali: passato (atita), presente (paccuppannna) e futuro (anagata). Ma questa divisione avviene a livello empirico. I confini furono tracciati quando il Buddha affermò che “il sorgere dei fenomeni, il loro cambiamento e la loro cessazione sono evidenti”. Lo stesso Buddha esamina anche le “Convenzioni linguistiche” (Niruttipatha), affermando che un dato fenomeno “esistette” (ahosi), “esiste” (atthi) e “esisterà” (bhavissati). Tuttavia, ciò non significa una reificazione ontologica di tre periodi di tempo». [2]
Questa triplice suddivisione temporale fu all’origine di una particolare teoria , detta Sarvāstivāda, secondo la quale tutti i fenomeni sono simultaneamente esistenti nel presente; la scuola Sarvāstivāda, (pāli: Sabbattivāda), fu una delle 18 scuole del buddhismo antico nate a seguito di interpretazioni discordanti dei discorsi del Buddha. Secondo Giuseppe Tucci,
«la dottrina della realtà di ogni cosa”, professata da una delle 18 scuole nelle quali si divise la comunità buddhista dopo il concilio di Vaśālī (circa 377 a. C.), appartiene al Piccolo Veicolo. La sua storia incomincia col concilio di Pāṭaliputra (circa 245 a. C.), nel quale fu dal sillabo di Tissa relegata fra le eresie. Il sarvāstivāda afferma la realtà dei dharma, i 75 elementi dell’esistenza empirica, la cui manifestazione è bensì momentanea, ma che sempre sussistono, in atto o in potenza, nel presente, nel passato o nel futuro.»
In accordo al commentario al Kathāvatthu, l’origine di questa teoria è da rintracciarsi in una comprensione letterale e perciò maldestra della seguente affermazione:
«Qualsiasi forma—passata, futura o presente; interna o esterna; grossolana o sottile; comune o sublime; lontana o vicina—che fa nascere attaccamento, che si sviluppa e cresce, ed è accompagnata dalle formazioni mentali: ciò è chiamato la forma come l’ aggregato dell’attaccamento…Qualsiasi sensazione …Qualsiasi percezione…Qualsiasi formazione mentale …Qualsiasi coscienza…Questi sono chiamati i cinque aggregati dell’attaccamento.»
-SN 22.48
Nel Samyukta-abhidharma-hrdaya, un testo Sarvāstivādin, viene offerta la seguente spiegazione:
«Se non ci fossero passato e futuro, allora non ci sarebbe alcun presente; se non ci fosse un presente, non ci sarebbero neanche fattori condizionati (samskrta dharma). Ecco perché esistono i tre periodi di tempo (trikala). Non è corretto affermare che ciò che è remoto è passato e che ciò che esisterà in futuro non esiste, e che esiste solo il presente, Perché? Perché esiste un risultato (vipaka) dell’azione. Il Buddha ha affermato: “Esiste l’azione ed esiste la sua retribuzione”. Non è possibile che questa azione e la sua retribuzione siano entrambe presenti. Quando l’azione è presente, si dovrebbe riconoscere che la retribuzione avverrà in futuro; quando è presente la retribuzione, si dovrebbe riconoscere che l’azione è già passata…»
Per Vasubandhu, vi sono quattro generi di Sarvāstivādin, con le relative teorie:
«Il ven. Dharmatrata sostiene la teoria del bhavanyathatva: affermando cioè che i tre periodi di tempo, passato, presente e futuro, si differenziano per la loro non identità (differenza) nella modalità d’esistenza (bhava). Quando un dharma passa da un periodo temporale all’altro, la sua natura non viene modificata, ma la sua esistenza sì. »
«Il ven. Ghosaka sostiene la teoria del laksananyathatva, cioè che i tre periodi differiscono per via delle loro differenti caratteristiche. Quando un dharma è passato, è dotato di caratteristiche del passato (laksana), ma non è tuttavia privo delle caratteristiche del presente e del futuro.
Il ven. Vasumitra sostiene la teoria dell’avasthanyathatva, cioè che i tre periodi di tempo differiscono per via della differenza di condizione (avastha). Un dharma, attraversando i periodi di tempo, avendo assunto una certa condizione, diventa diverso per via del mutamento della sua condizione, non per via di una differenziazione nella sua sostanza.
Il ven. Buddhadeva sostiene la teoria dell’anyonyathatva, secondo la quale i tre periodi di tempo sono stabiliti sulla base delle relazioni reciproche; un dharma, attraversando i diversi periodi temporali, assume nomi diversi sulla base della relazione; ovvero, è definito come passato, futuro o presente, in relazione a ciò che lo precede o che lo seguirà. Ad esempio, la stessa donna è definita sia come ‘figlia’ che come ‘madre’.»[3]
7.Kṣaṇavada : la teoria dei momenti
Jan Westerhoff sostiene l’idea che Il sistema Sarvāstivāda proponeva la teoria dei momenti (kṣaṇava), secondo la quale i dharmā esistono solo per un brevissimo lasso di tempo o momento (kṣaṇa), quantificabile nella quantità di tempo necessaria ad un uomo per schioccare le dita, diviso ulteriormente in sessantaquattro unità.[4]
8.Svabhāva, la natura intrinseca dei fenomeni
Per spiegare come sia possibile che un fenomeno possa permanere e allo stesso tempo subire un cambiamento attraversando i tre periodi temporali di passato, presente e futuro, i Sarvāstivāda di approccio Vaibhāṣika asserivano che i fenomeni possiedono una propria natura immutabile (svabhāva) la quale persiste nei tre tempi.
per i Vaibhāṣika, con svabhāva si intendono quei fenomeni che esistono sostanzialmente (dravyasat) al contrario di quelli costituiti da aggregazioni di dharma e che quindi hanno solo un’esistenza nominale (prajñaptisat).
9.Tempo ed esistenza: l’esistenzialismo buddhista e la Ruota dell’Esistenza
Secondo la psicologia buddhista, la sofferenza esistenziale si manifesta per via del proliferare degli veleni mentali in riguardo a fenomeni del passato, del futuro o del presente:
«Sulla base dell’interazione fra l’occhio ed una forma sorge la cognizione visiva; la concomitanza dei tre è il contatto; il contatto determina la sensazione; ciò che è sentito viene discriminato; su ciò che viene discriminato si rimugina[1]; ciò che viene rimuginato dà adito alla proliferazione, e per via di ciò, l’individuo viene travolto dalla proliferazione concettuale [nata] dalla percezione di oggetti visivi del passato, futuro o presente».
-Madhupindika sutta, MN 18
L’insegnamento sull’origine dipendente (In Pāli : paticca-samuppada) o Ruota dell’Esistenza, mira a esplicare l’origine causale della sofferenza; a causa della sua profondità e di altri fattori, questo insegnamento è stato, nel corso dei secoli, interpretato in svariati modi; Tuttavia, in accordo al Sammohavinodanī, un commentario all’Abhidhamma scritto dal venerabile Buddhaghosa ( V sec. d.C.), Il processo dell’Origine Dipendente può essere interpretato in due modalità : nella prima, è inteso come una concatenazione di eventi che si sviluppa, nella sua interezza nel corso di due o tre esistenze; nella seconda, come un processo che si manifesta simultaneamente in un singolo istante di coscienza.
La prima modalità si basa necessariamente su di una concezione spazio temporale della struttura dell’Origine Dipendente, mentre la seconda rispecchia più fedelmente il principio fondamentale che governa l’Origine Dipendente stessa racchiuso nei Sutta:
«Api ca, udāyi, tiṭṭhatu pubbanto, tiṭṭhatu aparanto. Dhammaṁ te desessāmi— imasmiṁ sati idaṁ hoti, imassuppādā idaṁ uppajjati;imasmiṁ asati idaṁ na hoti, imassa nirodhā idaṁ nirujjhatī”ti.»
«Udāyi, lascia perdere il passato, lascia perdere il futuro: ora ti istruirò sul Dhamma: Essendoci questo, quello viene ad esistere, con il sorgere di questo, quello si manifesta; non essendoci questo, non vi è quello, con la cessazione di questo, cessa anche quello».
-Cūḷasakuludāyisutta, MN 79
In generale, vi sono due tipi di dipendenza: dipendenza consequenziale (causa ed effetto) e dipendenza reciproca (correlazione): nel primo tipo, un fattore del sentiero precede quello successivo, il quale sorge sulla base del precedente; nel secondo invece, due o più fattori sono presenti contemporaneamente, sostenendosi a vicenda. Ad esempio, affinché questo processo abbia luogo, la cognizione, il nāmarūpa e le sei basi dei sensi devono necessariamente essere presenti contemporaneamente:
«Seyyathāpi, āvuso, dve naḷakalāpiyo aññamaññaṃ nissāya tiṭṭheyyuṃ. Evameva kho, āvuso, nāmarūpapaccayā viññāṇaṃ; viññāṇapaccayā nāmarūpaṃ; nāmarūpapaccayā saḷāyatanaṃ; saḷāyatanapaccayā phasso … pe … evametassa kevalassa dukkhakkhandhassa samudayo hoti.»
«Proprio come due fasci di canne si sostengono l’una con l’altra, allo stesso modo, o amico, nāmarūpa è la base di viññāṇa, e viññāṇa è la base del nāmarūpa. nāmarūpa è la base per le sedi sensoriali, le sedi sensoriali sono base per il contatto… ed in questo modo che tutta questa intera massa di sofferenza viene a manifestarsi.»
-Naḷakalāpīsutta, SN 12.67
Per quanto riguarda gli anelli della Ruota dell’Esistenza quali la nascita, l’invecchiamento, e la morte, il commentatore Buddhaghosa sottolinea che nel secondo tipo di interpretazione, questi non possono che essere intesi in senso metaforico (pariyāyena):
«Per via del fatto che in questo caso con “nascita” ci si riferisce alla “caratteristica di ciò che è prodotto”(sahkhatalakkhana), l’esistenza è il condizionante della nascita in senso figurato {pariyāyena), unicamente come condizione decisiva di sostegno; lo stesso discorso vale per la nascita, la vecchiaia e la morte. [..]Nonostante nascita, invecchiamento e morte non siano quantificabili in termini di istanti di coscienza, sono comunque inclusi, in quanto esistenti all’interno del singolo istante di coscienza. Nelle spiegazioni circa la nascita e gli altri stati, per via del fatto che qui ci si riferisce alla nascita di stati immateriali, il decadimento, l’ingrigire, la rugosità, il trapasso e la transitorietà non vengono discussi.»[5]
10.Costanza ed errata percezione del sé
Dal punto di vista della psicologia buddhista, Il rimuginare ossessivo è condizione per il sorgere della visione erronea circa l’esistenza di un Sé autonomo da cause e condizioni (e dal tempo?), una continuità dello stesso individuo nel passato, nel presente e nel futuro:
«E con attenzione non saggia (errata) egli pensa: sono mai esistito nelle epoche passate? O non sono mai esistito? Che cosa sono stato o non sono stato nelle epoche passate? E in che modo sono divenuto quel che allora sono stato? Esisterò’ o non esisterò’ nelle epoche future? E in che modo? Anche il presente lo riempie di dubbi: Esisto o non esisto? Che cosa e come sono? Da dove sono venuto e dove andrò’?»
-Sabbāsavasutta, MN 2
Il concetto di esistenza o ‘bhava’ tipico dei Sutta, e quello di “continuità cosciente” (bhavanga) dell’Abhidhamma si fondano su di una visione temporale dell’esistenza: ciò che dà origine al bhava, è l’upādāna, l’afferrarsi alla percezione erronea che concepisce gli aggregati come un’unità immutabile nel tempo; a tal proposito, Ñāṇavīra Thera scriveva:
«L’upādāna o ‘afferrare’ fondamentale è detto attavada, l’afferrarsi all’idea di un sé o Io; la persona non risvegliata afferra ciò che meramente appare essere il proprio ‘Io’ come tale, e, fintanto che questo stato di cose rimarrà tale, egli continuerà ad essere un ‘Io’, perlomeno ai propri occhi (e per quelli come lui). Questo è il bhava o ‘essere’. Il Puthujjana sa che gli esseri nascono e muoiono, e riflettendo su se stesso in termini di ‘Io esisto’, penserà di conseguenza ‘Io nacqui’ e quindi ‘Io morirò’. Egli concepisce così un ‘Io’ al quale i concetti di nascita e morte vengono applicati.»[6]
11.La concezione spazio-temporale e i cinque aggregati
Significativo inoltre il fatto che i cinque aggregati fondamento dell’esistere, vengano definiti come “ciò che a livello corporeo, sensoriale, percettivo, ideativo e cognitivo si manifesta nel passato, futuro o presente dentro o fuori di noi, a livello grossolano o sottile»:
«Qualunque forma—passata, futura o presente; interna o esterna; grossolana o sottile; comune o sublime, lontana o vicina…qualunque sensazione o percezione o intenzione o cognizione, passata, futura o presente; interna o esterna; grossolana o sottile; comune o sublime, lontana o vicina.. In questo senso, la designazione di aggregato è applicabile agli aggregati».
-Punnama Sutta, SN 22.82
Il dukkha connesso all’afferrarsi agli aggregati necessita perciò di tempo e spazio per manifestarsi, ed è per questa ragione che emanciparsi da esso, il Buddha abbia insegnato a coltivare l’attenzione al qui ed ora, abbandonando il pensiero ossessivo verso il passato, il presente ed il futuro:
«Non rincorrete il passato, e non inseguite il futuro: Il passato non esiste più, il futuro deve ancora venire». «osservate in profondità i fenomeni del presente mentre sorgono, senza vacillare, e senza timore, comprendeteli».
-Bhaddekaratta Suttaṃ, MN 131
12.Tempo e percezione del cambiamento
La nozione di tempo è strettamente connessa a quella del cambiamento (aniccata), uno dei principi cardine della Filosofia Buddhista; Lo scrittore singalese R. Wettimunny scrive:
«Il proprio sé è sempre concepito come qualcosa di statico; quando esso viene compreso come incostante, si dissolverà. Tuttavia, per via del fatto che il Puthujjhana percepisce il proprio sé come statico, egli è portato a pensare che, benché ogni altra cosa sia incostante, questo sé sia essenzialmente un fenomeno costante, permanente. Perciò il Buddha invitava ad osservare che il sé è innanzitutto determinato da qualcos’altro di incostante.
Comprendendo che il sé è incostante, si realizzerà che il sé è un inganno. In altre parole, si arriverà a comprendere che tale sé è una propria creazione sorta afferrando ciò che in realtà è non-sé (i cinque aggregati), come se essi fossero il proprio sé. A quel punto, egli realizzerà che quei fenomeni sono non-sé.
Così, quando i determinanti (saṅkhārā) sono percepiti come incostanti, il fenomeno (dhamma) viene altresì percepito come incostante, e di conseguenza, come non-sé. Nel comprendere che tutti (sabbe) i determinanti sono incostanti, si comprenderà che tutti i fenomeni sono non-sé. In questo modo la comprensione che «tutti i determinanti sono incostanti» conduce a comprendere che «tutti i fenomeni sono non-sé»[7]
13. Cambiamento continuo e percezione soggettiva
In questa nostra analisi della nozione buddhista di tempo, vi è un ultimo, ma fondamentale, punto da prendere in considerazione, ovvero, quello relativo alla differenza fra l’idea di cambiamento continuo o flusso, così popolare negli ambienti spirituali contemporanei, e la percezione soggettiva del cambiamento in quanto fenomeno caratterizzato dalla discontinuità. A tal proposito, Wettimunny scrive:
«Ci viene detto che un dato oggetto è in uno stato di cambiamento continuo o flusso. Il problema sorge quando tale visione viene estesa e si afferma che un oggetto quale il tavolo di fronte a me non è lo stesso oggetto da un momento all’altro, e perciò, non esiste «realmente» . Nonostante ciò, la percezione che ‘c’è il tavolo’ appare molto più valida nell’esperienza concreta; quest’ultima percezione è valida nonostante i cambiamenti che stanno avvenendo (cambiamenti che per me possono essere percettibili o meno), fintanto che il tavolo può essere trattato come lo stesso tavolo. La distinzione fra la percezione del ‘cambiamento continuo ’ o ‘flusso’ e la percezione ‘c’è il tavolo ’ è della massima importanza, in quanto essa traccia una linea di confine fra una percezione teoretico-postulazionale e una esistenziale o fenomenologica. Ma queste due percezioni sono compatibili fra loro? In caso contrario, quale è quella corretta?
Il primo commento che vorremmo fare è che i questo caso, il cambiamento continuo non è un fenomeno osservabile. Per poter affermare ‘questo oggetto è cambiato’ due cose sono necessarie: 1. Uguaglianza o identità , e 2. disuguaglianza o differenza. A meno che non via sia qualcosa che rimane la stessa non è possibile ‘questa’, e se non c’è qualcosa di differente, non si può dire ‘è cambiata’.
Prendiamo in considerazione un semplice esempio: immaginate che vi sia un ampio muro color rosso che io percepisco di un solo colore. Dopo qualche tempo noto che ‘il rosso è sbiadito’. In che modo dovremmo interpretare ciò? Ovviamente, se guardo il muro e noto che è blu non direi che ‘il rosso è sbiadito’, per la semplice ragione che il blu è un colore totalmente diverso dal rosso. In tal caso, direi semplicemente che il muro ha cambiato colore. Ma se dico che ‘il rosso è sbiadito’ sto dicendo che il muro è sempre di color rosso ma di una tonalità più chiara. Ciò che rimane identico è il determinante generale ‘rosso’, e ciò che è differente è la particolare tonalità di rosso.
Questo esempio dimostra che ciò che rimane identico o invariabile è la caratteristica generale, mentre ciò che varia è la caratteristica subordinata o particolare. […]
Possiamo applicare la stessa analisi all’essere umano. Da infante a bambino, da bambino ad adulto, da adulto ad anziano, tutti questi aspetti particolari variano, ma mentre avvengono questi cambiamenti, il generale ‘essere umano’ rimane lo stesso..
Quando un cambiamento percepito è descritto come ‘continuo’ significa che o la necessaria analisi di un’esperienza complessa è al di là delle capacità del percettore, o che, inconsapevolmente, un dato postulato teoretico si è insinuato nella sua descrizione di tale esperienza. Non si nega certamente la percezione del movimento e altre forma di cambiamento; è certamente possibile che sia la percezione del movimento ad indurci alla percezione del cambiamento continuo o flusso; ma queste esperienze sono notoriamente difficili da descrivere. Esse implicano la gerarchia di passato, presente e futuro, e nonostante ciò, sono percepite come un fenomeno presente.
Ora veniamo agli oggetti mentali o stati della mente. Gli stati mentali quali la tristezza, la gioia eccetera appaiono, persistono e svaniscono. Tutte le esperienze fisiche o mentali sono soggette a tre caratteristiche, ovvero:1.sorgere, 2.svanire, e 3. Cambiare mentre si permane. […] ciò significa che una cosa sorge e svanisce, e fra il suo sorgere e il suo svanire, persiste come il medesimo fenomeno mentre avviene un cambiamento a livello subordinato o particolare.
Nel contesto dell’insegnamento del Buddha, è necessario eliminare la nozione del cambiamento continuo o flusso continuo, in quanto l’insegnamento del Buddha ha a che vedere con l’esperienza personale, e la nozione di cambiamento continuo o flusso applicata all’esperienza personale è una contraddizione. Se il cambiamento ha qualcosa di significativo nella mia esistenza (o nella mia esperienza personale), devo esserne cosciente, devo poter percepire quel cambiamento, ed ogni volta che percepisco un cambiamento, lo percepisco come discontinuo».
Infine:
«Il punto è che dukkha non ha nulla a che vedere con l’identità personale del tavolo o la sua supposta mancanza di identità propria. Dukkha ha a che vedere con il (mio) sé in quanto soggettività, che è un altro paio di maniche. […] il fatto è che anche quando l’ignoranza è stata completamente eliminata, (come nel caso degli arahant), il tavolo continua ad avere un propria identità; vale a dire, esso continuerà ad esistere come lo stesso tavolo (pur subendo cambiamenti a livello sottile –smalto che sbiadisce, bordi che si smussano, eccetera) fino a quando arriverà il momento in cui verrà distrutto o cadrà a pezzi. Tuttavia, per l’arahant non si tratterà più del ‘mio tavolo’, in quanto, con la completa distruzione dell’ignoranza, qualunque nozione di ‘Io’, ‘mio’ e ‘sé’ è in lui cessata.» [8]
Note:
«Kālo ghasati bhūtani sabbān’eva sahattanā.yo ca kāloghaso bhūto so bhūtapacanim pacī.»
1.kāloghaso, “consumatore el tempo”: colui che avendo abbandonato la sete di esistenza, è libero dal doloroso divenire samsārico, il vortice esistenziale che si sviluppa nei tre tempi di passato presente e futuro.
2.Pacī (cucina) dal verbo pacati, lett. ‘cuocere’, ‘bollire’, ‘arrostire’; ‘bhūtapacanim’, qui tradotto come ‘cuocitore di esseri’, assume il significato metaforico di ‘tormento’, probabile allusione alla sofferenza dei reami infernali. Il riferimento è alla liberazione dalla coercizione del desiderio di reiterata esistenza (bhavatanhā).
Note bibliografiche:
- Gombrich, Richard, The Signicance of Former Buddhas in the Theravada Buddhism, BUDDHIST STUDIES IN HONOR OF WALPOLA RAHULA
- Kalupana, D.J., Mūlamadhyamakakārikā, Delhi, Motilal Banarsidass, 2012
- Vasubhandu, Abhidhamakosa.
- Westerhoff, The Golden Age of Indian Buddhist Philosophy in the First Millennium
- Buddhaghosa, Sammohavindani, ed Inglese a Cura di N. Thera, PTS , Londra.
- Ñāṇavīra, Thera, Clearing the Path: Writings of Nanavira Thera (1960-1965) Path Press, 1987
- Wettimunny, Ramsay G. de S, The Buddha’s Teaching And The Ambiguity of Existence, Gunasena, 1978
- Ibid.
Rispondi