
Le Quattro Nobili Verità
Le Quattro Nobili Verità (Pāli: cattāri ariyasaccāni), costituiscono il nucleo fondamentale dell’insegnamento Buddhista; Il Buddha espose queste Quattro Nobili Verità nel suo primo discorso pubblico, il DhammacakkappavattanaSutta o Discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma.
Il simbolismo della Ruota del Dhamma
Il termine Dhamma significa ‘Ciò che sostiene‘, ovvero «fondamento»; Dhamma è perciò la realtà o natura fondamentale alla base di ogni esperienza. D’altro canto, L’immagine della ruota roteante, imperniata su di un asse, rende assai bene l’idea della natura ciclica e ripetitiva della realtà fenomenica.
L’intero insegnamento del Buddha è contenuto all’interno dello schema delle Quattro Nobili Verità, le quali possono essere sinteticamente riassunte in quattro proposizioni:
1. Esiste il problema della sofferenza; questo stato di cose deve essere compreso.
2. Il problema ha una causa; e tale causa deve essere abbandonata.
3. Possiamo eliminare il problema eliminandone le cause; tale cessazione deve essere realizzata.
4. Per eliminare il problema e le sue cause ci serviamo di un metodo o sentiero; questo sentiero deve essere coltivato.
Nobile realtà o Nobile Verità?
Le Quattro Verità sono dette Nobili o Ariya in quanto la loro funzione è di condurre (yana) al di fuori della portata del nemico (ari); in questo contesto, con nemico si intendono i veleni interiori causa di sofferenza.
Per quanto riguarda il termine sacca, esso deriva dalla radice verbale vedica ‘sat’, ‘essere’, ed è traducibile sia come «verità» che come «realtà», in quanto, dalla prospettiva dharmica, ciò che è reale è vero, e ciò che è vero è reale.
In merito alla questione su quale delle due sia la traduzione più appropriata, nel libro Il Pensiero Del Buddha, Richard Gombrich afferma che «Le Upanisad non distinguono fra ontologia ed epistemologia. Ciò significa che non fanno differenza fra la realtà e la verità. Ma per noi la realtà è una proprietà delle cose, mentre la verità è una proprietà delle proposizioni»; e ancora : «la parola sanscrita satyam e la corrispondente parola pali saccam possono effettivamente significare «verità» o «realtà», ma nella nostra lingua ciò non funziona».
Secondo il Prof. Asanga Tilakaratne,
«Nel definire la sofferenza una verità, ciò che si intende è che essa è realmente esistente in quanto parte essenziale della vita umana; essa necessita di essere compresa».
Lo studioso Jose I Cabezon scrive: «In questo contesto, il termine «Verità» è riferito alla validità dal punto di vista soteriologico, non all’assenza di inconsistenze logiche».
Similmente, il commentatore Buddhaghosa sottolinea l’atteggiamento pragmatico e antidogmatico da parte del Buddha nel parlare di verità:
«La verità della sofferenza è paragonabile alla malattia, la verità dell’origine della sofferenza alla causa della malattia, la verità dell’estinzione della sofferenza alla cura della malattia, e la verità del Sentiero alla medicina».
Lo stesso Buddhaghosa spiega che il termine sacca possiede diversi significati:
«Questa parola ‘verità’ (sacca) possiede diversi significati: nel versi «Si affermi la verità, senza rabbia» (Dhp 224), si tratta di una verità comunicativa. In passaggi come «Asceti e Brahmana si basano sulla verità» ci si riferisce alla verità in quanto astensione dalla menzogna. In passi quali «Perché i saggi visionari dichiarano verità differenti?» (Sn 885) si parla di verità in quanto punti di vista. In passaggi quali «La Verità è una sola, non ce n’è una seconda» (Sn884) ci si riferisce alla verità dal punto di vista ultimo, al Nibbana e al sentiero. In passaggi quali « Delle quattro verità, quante di esse sono di beneficio?» (Vibh 112) si tratta della Nobile Verità. (Visuddhimagga XVI. 13.)
1.La Prima Nobile Verità: la sofferenza
«Questa o monaci, è la nobile verità circa la sofferenza: La nascita è dolorosa l’invecchiamento è doloroso, la malattia è dolorosa, la morte è dolorosa, sottostare a ciò che non si ama è doloroso, separarsi da ciò che si ama è doloroso, non ottenere ciò che si desidera è doloroso, I cinque aggregati soggetti all’afferrarsi nel loro complesso sono dolorosi [1]».
-Dhammacakkappavattanasutta, SN 56.11
Il principio fondamentale su cui ruota l’intera dottrina delle Quattro Nobili Verità è quello del nesso di causa fra la sofferenza e ciò che la origina. In quel primo discorso pubblico, Il Buddha indicò nella sete (taṇhā) l’origine di tale sofferenza: questa sete si manifesta in tre modalità: sete di piacere sensuale, sete di esistenza e sete di non esistenza (kāmataṇhā, bhavataṇhā, vibhavataṇhā).
Il termine Pāli dukkha deriva da ‘duh’, ‘difficile’, e ‘kham’, ‘spazio’, ‘foro’ [2]. Questo vocabolo, che può apparire sia come aggettivo che come sostantivo, indica una lacuna o mancanza, un senso di vuoto (kham), difficile da sostenere (duḥ); si tratta di uno stato caratterizzato da malessere e da un’insoddisfazione latente persistente.
Dukkha è uno stato di profonda insoddisfazione esistenziale che si manifesta in modalità differenti: come pena e angoscia (soka-parideva), come dolore somatico e mentale (dukkha-domanassa), e infine come sfinimento (upāyāsa). Queste forme di sofferenza sono legate alla presa di coscienza della propria impotenza in relazione agli eventi fondamentali della nostra esistenza: nascita, invecchiamento, malattia e morte:
«Monaci, a quegli esseri soggetti al decadimento e alla morte, sorge un tale desiderio : ‘Che noi si possa non invecchiare e morire, che vecchiaia e morte non sopraggiungano per noi!’ Ma tale desiderio non può essere realizzato. Perciò, non ottenere ciò che si desidera è dukkha.»
-Mahāsatipaṭṭhānasutta
Il Dukkhatāsutta (SN, 45.165), elenca tre categorie fondamentali di dukkha:
1.dukkhadukkhatā: La sofferenza legata al presentarsi e al persistere di esperienze naturalmente dolorose, quali la malattia, i traumi fisici e psicologici eccetera.
2.vipariṇāmadukkhatā: è la sofferenza legata al cambiamento di ciò che reputiamo piacevole, come la perdita di una persona cara.
3.saṅkhāradukkhatā: la sofferenza dei processi condizionanti (saṅkhāra). Questa forma di dukkha ha a che vedere con il processo dell’origine dipendente (paticca-samuppada):
«Qualunque forma di sofferenza sorta dipende dai saṅkhāra;
Con la dissoluzione dei saṅkhāra, non sorgerà più alcuna sofferenza.»
– Dvayatānupassanā S., Sutta Nipāta
2.La Seconda Nobile Verità: l’origine della sofferenza
«Questa, o monaci, è la verità sull’origine della sofferenza: È proprio quella sete conducente a nuova esistenza, la quale, connessa al godimento e alla passione, ricerca il soddisfacimento qua e là; in altre parole: la sete di piacere sensuale, la sete d’esistenza, la sete di non esistenza.»
Per poter comprendere appieno perché il Buddha abbia indicato la sete come origine della sofferenza, bisogna innanzitutto comprendere cosa si intende con sete e quale sia la sofferenza che ne consegue.
Nell’esposizione della Prima Nobile Verità viene affermato che eventi come la nascita (jāti), l’invecchiamento (jarā) e la morte (maraṇa) sono dolorose; di base, nascita, malattia, invecchiamento e morte sono eventi naturali che nessun essere vivente può evitare; tuttavia, il problema non è rappresentato dalla nascita, dall’invecchiamento o dalla morte in sé ma dal modo in cui questi eventi vengono vissuti.
I Buddha e gli Arahant sono ugualmente soggetti alla malattia, all’invecchiamento e alla morte, ma tutto ciò non provoca in loro alcun turbamento o pena; ciò è dovuto al fatto che la loro comprensione dell’esistenza è pienamente in armonia con la reale natura delle cose.
Inoltre, la nascita è un evento di cui non abbiamo alcun ricordo; è quindi improbabile associare tale evento alla nostra sofferenza attuale. Non avendo né memoria né consapevolezza della nascita, essa da sola non può essere causa della nostra angoscia o sofferenza. Allo stesso modo, la morte è un evento che non si è ancora manifestato, e come tale non può essere causa di alcuna sofferenza. La morte ci spaventa e ci angoscia solo quando è riferita a noi stessi o a qualcuno a noi caro; quando invece riguarda un estraneo o addirittura qualcuno che noi vediamo con ostilità in noi non nasce alcun tipo di tristezza o pena. E’ evidente quindi che quei fenomeni elencati nella formulazione della prima nobile verità diventano dolorosi e angoscianti solo quando ci riguardano in prima persona.
A livello fondamentale, la nascita è la conditio sine qua non per il manifestarsi del dukkha; nell’ambito del Dharma, con nascita si intende il manifestarsi degli aggregati psicofisici soggetti all’attaccamento; Il Buddha definì questi aggregati come ‘ciò che si manifesta a livello spazio-temporale’:
«E cos’è la nascita? Ciò che a questi o quegli esseri, di questa o quella specie è nascita, origine, discesa (dal ventre materno), manifestazione, il formarsi degli aggregati, l’ottenimento delle basi sensoriali. Ciò, o monaci, è chiamata nascita».
Tuttavia, la sola nascita non è sufficiente a produrre la sofferenza; in accordo alla Dottrina dell’Origine Dipendente, la nascita è strutturalmente determinata dall’essere (bhava) [2]; per il Buddha, ogni forma di esistenza condizionata, ogni bhava, essendo caratterizzata dalla precarietà, è intrinsecamente insoddisfacente.
La sete come causa di dukkha
Il termine pali taṇhā, deriva dal sanscrito tṛṣṇā, che vuol dire sete o arsura/siccità (simile all’inglese thirst), e questo rende perfettamente l’idea di qualcosa la cui ricerca spasmodica è considerata di vitale importanza.
Come abbiamo già visto, vi sono tre forme di sete: sete di gratificazione sensoriale, sete di esistere e sete di non esistere (vibhavataṇhā); Il termine vibhava, è spesso tradotto in maniera letterale come ‘non essere’, ‘non esistere’ oppure come ‘annichilimento di sé’ .
In accordo alla psicologia del Dharma, l’individuo afferra come il proprio sé ciò che in realtà è nella natura del non-sé. In questo contesto, il concetto di non-sé indica l’assenza di dominio o padronanza sugli elementi che costituiscono la nostra realtà esistenziale, ovvero i cinque aggregati; questi aggregati sono ciò che costituisce l’esperienza in divenire che la mente ottenebrata dall’ignoranza percepisce erroneamente come la propria esistenza oggettiva.
Nell’afferrare i cinque aggregati -la cui vera natura è il non-sé– come il proprio sé, l’individuo sperimenta frustrazione e insoddisfazione (dukkha); ciò è dovuto al fraintendimento della realtà determinato dall’ignoranza o avijja. Provando insoddisfazione verso la sua presunta esistenza, egli è tentato dall’idea del non essere (vibhava), concetto speculare all’essere (bhava). In altre parole, egli è attratto dall’idea di non essere ciò che in realtà non è.
Si tratta quindi di un non essere fittizio e illusorio, che non risolve il problema dilemma esistenziale alla base del dukkha, di cui è una mera negazione. Il problema risiede proprio nell’afferrare ciò che non si è come il proprio Io, per poi ripudiarlo, in vista di un ‘Io sono’ migliore e più soddisfacente.
In questo modo, ogni tentativo di non essere, si trasforma in un’ennesima affermazione del proprio Io, in altre parole, un nuovo essere. Tale tentativo di liberarsi dell’essere attraverso il non essere non fa altro che rinforzare ancor di più le catene dell’essere.
La taṇhā è il mezzo attraverso il quale l’individuo afflitto dalla fatica del vivere cerca di sbarazzarsi di tale sofferenza sperando di ottenere benessere e soddisfazione. Questo processo è spiegato nel Sallasutta:
«Allorquando toccato da una sensazione dolorosa, in lui sorge l’avversione verso tale esperienza; Provando avversione verso quella sensazione dolorosa, in lui si sviluppa la tendenza subconscia all’avversione verso le sensazioni dolorose; essendo colpito da una sensazione dolorosa, egli cerca godimento nei piaceri sensuali. E per quale ragione? Perché l’inesperto uomo comune non conosce altra via d’uscita dalle sensazioni dolorose che il piacere dei sensi.
E nel godere del piacere dei sensi, in lui si sviluppa la tendenza subconscia alla passione per le sensazioni piacevoli, essendo egli incapace di comprendere per come realmente sono il sorgere, lo svanire, i benefici, gli svantaggi e l’emancipazione da tali sensazioni.
E in lui che è incapace di comprendere per come realmente sono il sorgere, lo svanire, i benefici, gli svantaggi e l’emancipazione da tali sensazioni, si sviluppa la tendenza subconscia all’ignoranza in riguardo alle sensazioni neutre.
Sperimentando una sensazione piacevole, egli la sperimenta con attaccamento; sperimentando una sensazione dolorosa, egli la sperimenta con attaccamento; sperimentando una sensazione né dolorosa né piacevole, egli la sperimenta con attaccamento; questo o monaci, è detto ‘l’inesperto uomo comune attaccato alla nascita, ad invecchiamento, morte, alla pena, al lamento, alla sofferenza, al dolore ed alla disperazione’; attaccato al Dukkha, Io vi dico.»
-Sallasutta, Sn 36.6
Il desiderio di abbandonare il desiderio
Nel seguente dialogo viene data una risposta all’obiezione secondo cui il desiderio di abbandonare il desiderio sia esso stesso uno stato conducente al dukkha.
..Il Bramino Uṇṇābha, disse al venerabile Ānanda:
«Amico Ānanda, qual è lo scopo del praticare la disciplina spirituale sotto la guida dell’asceta Gotama?»
«Bramino, lo scopo del praticare la disciplina spirituale sotto la guida del Beato è l’abbandono del desiderio».
«Amico Ānanda, esiste forse un sentiero, un percorso per l’abbandono del desiderio?»
«Bramino, esiste un sentiero, un percorso per l’abbandono del desiderio»
«Amico Ānanda, qual è il sentiero, qual è il percorso per l’abbandono del desiderio?»
«Bramino, in questo caso, un monaco sviluppa la base per la realizzazione (iddhipāda) dotata di raccoglimento sulla base del desiderio (chandasamādhi) e dell’intenzione (saṅkhāra) allo sforzo (padhāna); sviluppa la base per la realizzazione dotata di raccoglimento sulla base dell’energia (vīriyasamādhi) e dell’intenzione allo sforzo; sviluppa la base per la realizzazione dotata di raccoglimento sulla base del pensiero (cittasamādhi) e dell’intenzione allo sforzo; sviluppa la base per la realizzazione dotata di raccoglimento sulla base dell’investigazione (vīmaṁsāsamādhi) e dell’intenzione allo sforzo (padhana). Questo, bramino, è il sentiero, questo è percorso per l’abbandono del desiderio».
«Stando così le cose, il Sentiero è interminabile, senza fine; non è fattibile che si possa abbandonare il desiderio tramite il desiderio».
«In riguardo ciò, bramino, ti farò una domanda. Potrai rispondere come desideri.
Cosa ne pensi, bramino, c’era in te in precedenza il desiderio di andare al parco? ma una volta giunto al parco, quello stesso desiderio non si è forse dissolto?»
«Certamente amico».
«C’era in te in precedenza sforzo energico, pensando: ‘andrò al parco ‘? Ma una volta giunto al parco, quello stesso sforzo energico non si è forse dissolto?»
«Certamente amico».
«C’era in te in precedenza il pensiero: ‘andrò al parco?’ ma una volta giunto al parco, quello stesso pensiero non si è forse dissolto?»
«Certamente amico».
«C’era in te in precedenza un’investigazione: ‘è se andassi al parco?’ ma una volta giunto al parco, quella stessa investigazione non si è forse dissolta?»
«Certamente amico».
«Similmente, bramino, quel monaco arahat che ha messo fine agli inquinanti, raggiunto la perfezione, fatto ciò che doveva essere fatto, depositato il fardello, raggiunto il proprio bene, sciolto il legame dell’esistenza, pienamente liberato tramite saggezza, in passato ebbe il desiderio di ottenere lo stato di arahat; ma quel precedente desiderio si è completamente dissolto, una volta raggiunto lo stato di arahat; quel precedente sforzo finalizzato ad ottenere lo stato di arahat, si è completamente dissolto una volta raggiunto lo stato di arahat; quel precedente pensiero finalizzato ad ottenere lo stato di arahat, si è completamente dissolto una volta raggiunto lo stato di arahat; quella precedente investigazione finalizzata ad ottenere lo stato di arahat, si è completamente dissolto una volta raggiunto lo stato di arahat».
«Cosa ne pensi, bramino, stando così le cose, [il sentiero] è interminabile, senza fine?»
«Sicuramente, amico Ānanda, stando così le cose, [il sentiero] ha una fine, non è senza fine.»
-Uṇṇābhabrāhmaṇa Sutta
Sete e attaccamento
Un altro fattore chiave all’origine della sofferenza associato alla sete è l’attaccamento o upādāna; upādāna significa prendere (adāna) verso di sé (upa); upādāna però significa anche “combustibile”; L’attaccamento è il carburante del processo culminante nel dukkha.
Nella catena dell’Origine Dipendente, il Buddha ha indicato la sete stessa come il fondamento causale dell’afferrarsi, (taṇhāpaccayā upādānaṃ); tale sete è stata definita come fertilizzante (sneho) e alimento (Āhāra) dell’esistenza condizionata. L’attaccamento è il processo dell’appropriazione mentale dell’oggetto desiderato, mentre l’essere (bhava) rappresenta l’identificazione con tale esperienza.
Ma allora per quale ragione Il Buddha ha indicato la sete come causa della sofferenza? abbiamo detto che la sete è associata alla ricerca della felicità e del benessere; tuttavia, questa ricerca ha come fondamento l’ignoranza (avijjā) del cambiamento di tutte le cose e dell’insoddisfazione che questo cambiamento comporta.
Avijjā è un termine che deriva dalla radice verbale ‘vid’ che significa ‘sentire’; dalla stessa radice verbale da cui deriva anche il termine vedana, sensazione. Avijjā è l’incapacità di conoscere la reale natura delle cose, e in particolare, di comprendere cosa sia la sofferenza, quali ne siano le cause, e come arrivare alla sua cessazione.
Oltre ad ignorare la realtà delle cose, non sappiamo di ignorare la realtà delle cose; in altre parole, non sappiamo di non sapere. Per questo motivo, l’avijjā è un fenomeno molto resistente ai nostri tentativi di liberarcene.
Tuttavia, nel momento in cui realtà si paleserà ai nostri occhi, quando cioè il fenomeno desiderato perderà quelle caratteristiche che lo rendevano attraente, o quando la nostra stessa percezione delle cose cambierà, allora sperimenteremo disillusione e la conseguente frustrazione frutto del tradimento delle nostre aspettative; questo stato di cose è detto sofferenza del cambiamento o vipariṇāma dukkha.
In questo modo, la sofferenza del cambiamento si va ad aggiungere alla sofferenza che proviamo allorché colpiti da situazioni o eventi dolorosi, il dukkha-dukkha.
Desideriamo vivere, bramiamo la salute e aborriamo l’idea della malattia, dell’invecchiamento e della morte, nostre o dei nostri cari; desideriamo stare con le persone che amiamo e detestiamo dover stare con persone o in situazioni a noi sgradite; vogliamo possedere cose o fare delle esperienze speciali, ma non sempre le cose vanno come noi vorremmo; così ci attacchiamo al nostro essere, al corpo, alla mente o ai sentimenti in cerca di sicurezza e soddisfazione, e nel fare ciò siamo totalmente inconsapevoli della natura incerta dell’esperienza umana e delle cose a cui ci attacchiamo in cerca di soddisfazione e stabilità.
L’ignoranza su cui si fonda la sete ci impedisce di vedere la natura incerta che caratterizza tutti i fenomeni e cristallizza ciò che è per natura dinamico in una serie di eventi erroneamente percepiti come statici e affidabili nella nostra disperata ricerca della felicità.
Sulla base di questo fraintendimento della realtà, prendiamo le cose in maniera personale, afferrandoci al nostro corpo e alla mente, e identificandoci con essi in termini di Io e mio; ciò determina l’angoscia esistenziale e la paura dell’invecchiamento e della morte, che in ultima istanza determinano il manifestarsi della sofferenza relativa a ciò che esiste come prodotto precario di cause e condizioni, il Sankhara-dukkha.
Due tipi di desiderio
«l’intenzione passionale è la sensualità dell’uomo
le belle immagini sensuali rimangono nel mondo,
Mentre i saggi si abbandonano il desiderio.»
-Nibbedhikasutta, AN 6.63
A questo punto, è necessario fare un’importante distinzione fra il desiderio in quanto impulso naturale alla sopravvivenza (kama) e la sete che è causa di sofferenza; la sete di cui parlava il Buddha è una sovrastruttura psicologica che trova il suo fondamento nell’idea erronea che possedendo qualcosa o divenendo qualcuno sia possibile raggiungere finalmente la tanto felicità. In altre parole, la sete è il correre spasmodicamente dietro i desideri in cerca di soddisfazione.
Questi due fenomeni sono certamente correlati, ma tuttavia devono essere accuratamente distinti l’uno dall’altro; Il Buddhismo non ha nulla a che vedere con il puritanesimo e l’ascetismo che nega le naturali esigenze del corpo.
Come spiegato nell’introduzione del Sallasutta, anche i Buddha e gli Arahant sperimentano sensazioni piacevoli e spiacevoli, ma la differenza fra i risvegliati e le persone non ancora emancipate sta nel modo in cui ci si relaziona alle sensazioni; i Buddha e gli Arahant provano sensazioni piacevoli e dolorose come tutti, ma senza farsi condizionare da queste:
«Il saggio non sperimenta alcun piacere o dolore
mentale, essendo egli ben istruito;
Questa è la grande differenza fra il sapiente
e l’inesperto uomo comune.
Il sapiente ha ben compreso la realtà,
avendo visto in profondità questo e l’altro mondo;
Gli oggetti del desiderio non sconvolgono la sua mente,
e le cose sgradevoli non provocano in lui avversione
Per lui, attrazione e repulsione sono cessate,
entrambe estinte, non più esistenti;
Conoscendo lo stato privo di dolore,
pienamente comprendendo, egli trascende l’esistenza.»
A tal proposito, il Ven. Ajhan Sumedho scrive:
«Per quanto riguarda bramosia, avversione ed ignoranza, i tre maggiori problemi condivisi da tutti noi, bisogna riconoscere che il corpo umano è fatto di desiderio, e che al fine della sua sopravvivenza deve essere nutrito. Potreste provare avversione nei riguardi del desiderio se avete assunto una posizione contraria ad esso senza aver compreso le necessità del corpo. Fin quando il corpo vivrà, vi sarà il desiderio ad operare attraverso di esso: Desiderio di cibo, bevande e sesso sono cose naturali. Esse sono nella natura del non-sé; non sono un’anomalia personale. Attraverso la saggezza li riconosciamo per quello che sono, invece di attaccarci incantati ad essi, esasperandoli o cercando di annullarli per via dell’avversione.»
Il desiderio deve essere quindi compreso e non stigmatizzato; inoltre, non tutte le forme di desiderio sono causa di sofferenza: ad esempio, il desiderio di ottenere la liberazione dalla sofferenza o il desiderio di aiutare il prossimo non sono condizionanti ma liberanti. Cercare di ottenere gratificazione e benessere rincorrendo i desideri è come cercare di dissetarsi dall’arsura bevendo acqua salata: una tentativo maldestro, frutto dell’ignoranza della realtà delle cose, che in ultima analisi avrà come risultato ancora più sete ed ancora più frustrazione.
Il cambiamento e il tradimento delle aspettative
In epoca recente, in molti, influenzati da una concezione edonistica quale fine ultimo del vivere e dal “pensiero positivo”, hanno etichettato il Buddhismo come “pessimista” e tendente all’apatia. Tuttavia, secondo R.G. de. S. Wettimunny, un allievo laico del venerabile Ñāṇavīra Thera,
«Una delle ragioni per la quale la persona comune non può accettare che ogni sua esperienza, in qualunque momento, sia caratterizzata dal dukkha, è dovuta al fatto che egli pensi al dukkha puramente nei termini di sgradevolezza manifesta, come nel caso dell’ansia, della tristezza o della disperazione.
L’identificazione dell’esperienza come ‘sé’ non comporta nell’immediato, (ovvero, non necessita, simultaneamente all’identificazione) un’insoddisfazione manifesta; questa si manifesterà nel tempo, presto o tardi; nella misura in cui la sgradevolezza è feconda, o che le condizioni per il manifestarsi del dukkha sono presenti, in quella misura, è presente il dukkha.
Come una persona che avesse accettato un moneta falsa considerandola autentica; il tradimento [delle aspettative, N.d.T.] diverrà palese solo quando egli proverà ad acquistare qualcosa, scoprendo così che quella moneta non può essere accettata. Il possesso della moneta contraffatta, assieme alla convinzione della sua autenticità, è già un tradimento, un possesso gravido di un tradimento manifesto.»
Il Dutiyaupādāparitassanāsutta (SN 5.7) spiega come le aspettative illusorie siano alla base della comparsa di dukkha:
«In che modo, monaci, l’afferrarsi genera l’ansia? Ecco, una persona comune priva di istruzione considera il corpo … la sensazione … la percezione … le intenzioni … la cognizione … in questo modo: ‘Ciò è mio, ciò sono Io, questo è il mio Sé’; ma il corpo, la sensazione, la percezione, le intenzioni e la cognizione cambiano, diventando differenti; con il cambiamento e l’alterazione del proprio corpo … in lui sorgono tristezza e angoscia, dolore e dispiacere e disperazione».
3.La terza Nobile Verità: la cessazione della sofferenza
«Questa, o monaci, è la nobile verità sulla cessazione della sofferenza: La completa dissoluzione e cessazione di quella sete, la sua fine, il suo abbandono e rigetto, la liberazione e l’indipendenza da essa.»
Lo stato di cessazione del dukkha è detto nirodha; in accordo al Visuddhimagga, il termine Pali Nirodha è formato dal prefisso ‘ni’ ‘assenza’, + ‘rodha’ , prigione; nirodha è la libertà dalla coercizione della sete e degli altri fattori mentali nocivi alla base di dukkha. L’individuo che ha raggiunto tale stato è detto Arahant; questo vocabolo, secondo l’interpretazione del venerabile Punnaji Mahathera deriverebbe da ‘ara’, ‘corda’ o ‘legame’ + ‘han’ , ‘distruggere’: un Arahant è colui o colei che si è liberato dai vincoli che legano all’esistenza condizionata.
Un sinonimo di nirodha è il più famoso nirvana o nibbāna. Dal punto di vista linguistico, il termine nibbāna ha una chiara valenza allegorica: nir+vāyati significa infatti “soffiare via”, nel senso di raffreddare, di dare refrigerio a qualcosa di infuocato e rovente; in questo contesto, l’immagine allegorica del fuoco assume il significato di afflizione.
Per il Buddha, il nibbāna è la forma di felicità più alta, in quanto non essendo dipendente da fattori esterni né tantomeno interni, non è soggetto al mutamento e alla cessazione. È quindi un “non-stato” irreversibile ed eterno. Nei sutra, il nibbāna è definito come la cessazione delle tre afflizioni radice di ignoranza, bramosia e avversione, oppure, in maniera più sofisticata, come la cessazione del bhava, l’esistenza condizionata (bhava-nirodho nibbānam).
La possibilità di emanciparsi dal condizionamento della sete è legata al fatto che la mente è per sua natura luminosa e pura, e solo temporaneamente oscurata dalle afflizioni:
«La mente, monaci, è completamente luminosa, eppur tuttavia oscurata da afflizioni transitorie».
– Pabhassara Sutta
Vi sono tre porte per accedere allo stato di emancipazione:
1.Attraverso la realizzazione delle tre caratteristiche dell’esistenza, ovvero: Impermanenza, insoddisfazione e non-sé (anicca, dukkha, anatta);
2. Realizzando le Quattro Nobili Verità stesse;
3.Comprendendo il processo dell’Origine Dipendente (Paticca-samupada).
Per arrivare a ciò, il praticante avrà bisogno di coltivare il sentiero adatto a tale scopo; la pratica del Dharma è esattamente quel tipo di sentiero. Le metodologie ideate dal Buddha sono sintetizzate nella Quarta Nobile Verità, il Nobile ottuplice Sentiero.
4.La Quarta Nobile Verità: il Nobile Ottuplice Sentiero
«E questa, o monaci, è la nobile verità circa il sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza, ovvero il Nobile ottuplice sentiero: Corretta comprensione, corretta intenzione, corretta parola, corretto agire, corretto stile di vita, corretto sforzo, corretta consapevolezza e corretto raccoglimento.»
Il Nobile Ottuplice Sentiero o Ariya Aṭṭhaṅgika Magga è il metodo ideato dal Buddha per arrivare alla cessazione della sofferenza. Ai fini didattici, il sentiero è descritto nella forma di otto elementi, ma tuttavia si tratta di una suddivisione puramente teorica; dal punto di vista pratico, si tratta di un unico processo graduale.
Ciascuno degli elementi che compongono il Nobile Ottuplice Sentiero è descritto con l’appellativo sammā, ‘giusto’ o ‘corretto’, un vocabolo che deriva dalla radice ‘saṃ’, la quale indica ciò che è equilibrato, bilanciato e armonioso, in accordo al concetto della via di mezzo fra gli opposti estremi di indulgenza e mortificazione.
«Monaci, questi due estremi non dovrebbero essere perseguiti dal praticante spirituale (pabājita). Quali due? Ricercare la felicità nel piacere sensuale (kāma), la quale è bassa, volgare, propria dei mondani, ignobile e priva di beneficio, e la pratica del mortificare se stessi, la quale è dolorosa, ignobile e priva di beneficio. Abbandonando entrambi gli estremi, il Tathāgata ha realizzato la via di mezzo conducente alla visione, alla conoscenza, alla quiete, alla realizzazione, al pieno risveglio, all’emancipazione.»
-Dhammacakkapavattana Sutta
In termini pratici, ciò significa che il praticante non dovrebbe né indugiare nell’esperienze – piacevoli o dolorose che siano- né tantomeno reprimere ciò che sente; questa approccio mediano implica una forma di autodisciplina definita dal Buddha con il termine di «samvara» o «autocontrollo». Praticare il samvara significa imparare a utilizzare l’attenzione sollecita per «filtrare» i dati sensoriali che si presentano alle porte dei sensi; questo implica l’esercizio della volontà o scelta attiva nei riguardi degli stimoli sensoriali come anche verso le proprie reazioni interne.
Inutile dire che questo genere di autodisciplina basata sulla pratica dell’auto-consapevolezza, non si sviluppa da un giorno all’altro ma necessita di dedizione e impegno costante nel tempo. Inoltre, è bene ricordare che l’autodisciplina è rivolta alle proprie sensazione, ai propri sentimenti e reazioni, e non agli oggetti esterni.
Ritornando al problema del dukkha, se esso dipende dall’ignoranza della realtà, il rimedio deve necessariamente prevedere l’eliminazione di questa ignoranza ; ciò può avvenire attraverso la coltivazione dello stato mentale opposto, ovvero la conoscenza o vijja. Vijja è ò sinonimo di corretta comprensione:
«Qual è, o Signore, quel fenomeno che se abbandonato, porta all’abbandono dell’ ignoranza ed al sorgere della conoscenza?
«L’ignoranza, o monaco, è quel fenomeno che una volta abbandonato porta all’abbandono dell’ignoranza, al sorgere della conoscenza.»
«Ma in che modo, o Signore, un monaco, rettamente conoscendo e comprendendo, realizza l’abbandono dell’ignoranza e il sorgere della conoscenza?»
«La vista, o monaco, allorché compresa e realizzata in quanto impermanente porta all’abbandono dell’ignoranza e al sorgere della conoscenza; gli oggetti visivi..la coscienza visiva..il contatto visivo.. ed anche le sensazioni, piacevoli dolorose o neutre, sorte per via del contatto visivo: riconoscendo e comprendendo tutto ciò come impermanente, un monaco realizza l’abbandono dell’ignoranza e il sorgere della conoscenza.»
-Paṭhamaavijjāpahānasutta, SN 35.79
Paññā, sīla, samādhi
Il Nobile Ottuplice Sentiero, è generalmente suddiviso in tre parti: saggezza (paññākkhanda), etica (sīlakkhanda), e meditazione (samādhikkhandha). I primi due elementi del sentiero, corretta comprensione e corretta intenzione, sono inclusi nella sezione della saggezza; sulla base della saggezza, è possibile coltivare la componente etica, composta dalla corretta parola, dal corretto agire e dal corretto stile di vita; infine, sulla base dell’etica possiamo sviluppare gli elementi che compongono raccoglimento meditativo: corretto sforzo, corretta consapevolezza e corretto raccoglimento.
Sīla, samādhi e paññā
«Etica, raccoglimento, saggezza e l’incomparabile liberazione;
tali elementi furono compresi dall’illustre Gotama.
Avendo realizzato ciò, Il Buddha lo insegnò ai monaci.
Il Maestro, dotato di visione e completamente emancipato,
mise mette fine alla sofferenza»
-Attasūriyasutta
Da un’altra prospettiva, la saggezza liberante (paññā) non può che nascere da una mente chiara, consapevole e centrata (samādhi) che a sua volta dipende dall’assunzione di uno stile di vita etico (sīla). In questo modo, questi tre fattori si compenetrano e sostengono a vicenda. Perciò, la triplice ripartizione del sentiero può essere letta in entrambi i modi: come paññā, sīla, samādhi oppure come sīla, samādhi e paññā. La saggezza rafforza l’etica, e l’etica sostiene la pratica della meditazione, la quale a sua volta conduce allo sviluppo della saggezza; come affermato nel Soṇadaṇḍasutta del Digha Nikaya:
«Dove vi è etica, vi è saggezza, dove c’è saggezza vi è etica. Una persona etica è saggia, ed un saggio è virtuoso. Etica e saggezza sono definite come le virtù più alte di questo mondo.»
La natura «a spirale» del Nobile Sentiero è chiaramente illustrata nel Micchattasutta (AN 10.103) il quale presenta la progressione graduale dello stesso culminante nei due fattori risultanti o Phala (lett. : frutti) di corretta conoscenza e corretta liberazione:
«In colui il quale è dotato di corretta comprensione, vi sarà anche la corretta intenzione: in colui il quale è dotato di corretta intenzione, vi sarà anche la corretta parola; in colui il quale è dotato di corretta parola, vi sarà anche l’azione corretta; in colui il quale è dotato di agire corretto, vi sarà anche lo stile stile di vita corretto; in colui il quale è dotato di stile di vita corretto, vi sarà anche la corretta applicazione; in colui il quale è dotato di corretta applicazione, vi sarà anche la corretta consapevolezza; in colui il quale è dotato di corretta consapevolezza, vi sarà anche il corretto raccoglimento; in colui il quale è dotato del corretto raccoglimento, vi sarà anche la corretta conoscenza; in colui il quale è dotato della corretta conoscenza vi sarà anche la corretta liberazione.»
Ognuno dei tre aspetti del Sentiero svolge una funzione particolare: secondo l’analisi buddhista della mente, a livello più grossolano, vi sono le scelte e le azioni attuate sulla base di tali afflizioni, cetanā o karma; in secondo luogo, vi è la manifestazione a livello cosciente delle afflizioni āsava; al livello più profondo e inconscio del nostro essere vi sono le tendenze latenti alla base delle afflizioni o anusaya.
la funzione di sīla è di contenere gli effetti negativi che le azioni compiute sulla scorta delle afflizioni potrebbero produrre. La pratica dell’etica consiste nell’abbandonare quelle azioni e comportamenti che hanno come risultato ulteriore sofferenza, per chi le compie e per il prossimo; la funzione della componente meditativa (samādhi) è duplice: sostenere l’abbandono delle emozioni perturbanti nel momento in cui esse si stanno manifestando e favorire lo sviluppo della saggezza liberante; questi due aspetti sono conosciuti con i nomi di Samatha e Vipassanā, rispettivamente “calma” e “visione profonda”; infine, per quanto riguarda la saggezza (paññā) nata dalla combinazione di questi due aspetti della meditazione, il suo fine è quello di sradicare in via definitiva dal continuum mentale le tendenze latenti o predisposizioni alle afflizioni (anusaya).
Queste tendenze latenti o predisposizioni, paragonabili alla parte invisibile di un Iceberg, fermentano nell’incoscienza e proliferano per via dell’ignoranza. Le tendenze latenti non sono di norma percepite dalla coscienza ordinaria, e tuttavia, allorché stimolate, esse si attivano dando vita alle afflizioni mentali.
Per queste ragioni, la cessazione della sofferenza che da essa dipende non può essere realizzata attraverso l’analisi razionale delle cose, né tanto meno tramite la teoria.
In merito alle tendenze latenti, il Buddha affermò che il modo migliore per eliminale consiste nel coltivare il non attaccamento nato dalla saggezza:
«Monaci, in riguardo a quegli stati a cause dei quali l’individuo viene ossessionato dalla proliferazione dei concetti nati dall’appercezione, se verso di essi non vi è diletto, se non vengono accolti e afferrati, vi sarà la cessazione della tendenza latente alla bramosia, della tendenza latente all’avversione, della tendenza latente alle visioni errate, della tendenza latente al dubbio, della tendenza latente all’orgoglio, della tendenza latente alla brama verso l’esistere, della tendenza latente all’ignoranza, la fine dell’armarsi di bastone, dell’armarsi di spada, delle dispute, dei conflitti e delle lotte, delle accuse, della calunnia e delle menzogne.»
-Madhupindika Sutta, MN 18
Coltivare il non attaccamento tramite la visione
Praticare il non attaccamento (nikkhanta) equivale a togliere il nutrimento vitale delle tendenze latenti, l’ignoranza che determina la percezione erronea del valore, dell’affidabilità e piacevolezza dei fenomeni a quali siamo attaccati; questa valutazione erronea dipende dalla percezione della loro stabilità; la percezione della stabilità (nicca) è alla base della percezione della piacevolezza (sukha), che a sua volta determina l’attaccamento e la conseguente identificazione con l’oggetto (atta).
Al contrario, il non attaccamento è il risultato dell’aver percepito la natura transitoria (anicca), insoddisfacente (dukkha) e vuota di esistenza a sé stante di tutti i fenomeni percepiti (anatta).
«Tutti i condizionanti sono incostanti: realizzando ciò attraverso la saggezza, ci si divincola dalla sofferenza. Questa è la via per la purificazione.»
«Tutti i condizionanti sono insoddisfacenti: realizzando ciò attraverso la saggezza, ci si divincola dalla sofferenza. Questa è la via per la purificazione.»
«Tutti i fenomeni sono non-sé: realizzando ciò attraverso la saggezza, ci si divincola dalla sofferenza. Questa è la via per la purificazione.»
-Aññāsikoṇḍaññattheragāthā
In ultima analisi, la via indicata dal Buddha per eliminare le tendenze latenti consiste nella percezione delle tre caratteristiche universali di impermanenza, insoddisfazione, non sé.
Note:
1.In questo contesto, il termine dukkha è usato in qualità di aggettivo anziché di sostantivo: la traduzione: “la nascita è sofferenza/dolore” (sostantivo) è quindi errata. Nella grammatica Pali, l’aggettivo si accorda sempre con il numero (singolare o plurale), il genere (maschile, neutro o femminile), ed il caso (accusativo, ablativo, nominativo etc.) del sostantivo a cui si accompagna.
In questo caso specifico, il fatto che si tratti di un aggettivo è facilmente riscontrabile da una semplice osservazione delle declinazioni dei nomi e dalle desinenze, qui evidenziate con diversi colori ed in grassetto:
«Idaṃ kho pana, bhikkhave, dukkhaṃ ariyasaccaṃ—/jātipi dukkhā/, /jarāpi dukkhā/, /byādhipi dukkho/, /maraṇampi dukkhaṃ/, /appiyehi sampayogo dukkho/, /piyehi vippayogo dukkho/, /yampicchaṃ na labhati tampi dukkhaṃ/—/saṃkhittena pañcupādānakkhandhā dukkhā/.»
2.jāti: in questo contesto, la nozione di nascita è da intendersi in senso figurato (pariyayena)
3.Il riferimento è al foro assiale su cui venivano installate le ruote dei veicoli che gli antichi popoli nomadi originari delle steppe mongoliche e del caucaso (come gli antenati dello stesso Buddha) usavano per spostarsi nei loro viaggi migratori che li condussero ad insediarsi nel nord dell’India.
A questo proposito, Winthrop Sargeant spiega:
«Gli antichi popoli Ariani che portarono la lingua sanscrita in India erano popoli nomadi dediti all’allevamento di cavalli e bestiame, e viaggiavano in veicoli trainati da cavalli o buoi. I prefissi Su e dus stanno ad indicare il ‘buono’ ed il ‘cattivo rispettivamente. La parola kha, che in sanscrito che significa “cielo”, “etere” o “spazio”, era originariamente la parola per “foro”, in particolare il foro assiale di uno di quei veicoli utilizzati dagli aria nei loro spostamenti. Così, sukha significava in origine “avere un foro assiale buono”, mentre con duhkha si intendeva “avere un foro assiale rovinato”, causa quindi di disagio per i viaggiatori.»
4. contemplando il corpo come corpo: questa è un’espressione idiomatica dell’originale Pali ‘kāye kāyānupassī’, espressione che sta a significare l’osservazione diretta, non mediata cioè dai concetti, di quanto accade nel momento presente.
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