L’Origine Dipendente (Paṭicca-samuppāda)

«ye dhammā hetuppabhavā tesam hetum Tathāgato āha tesañ ca yo nirodho,evaṃvādī Mahāsamano»

«Di quei fenomeni che sorgono da cause, Il Tathāgata ne ha spiegata l’origine e la cessazione; questo è l’insegnamento del Grande Asceta» 

-Vinaya, I, 40

1.L’insegnamento sull’origine dipendente (In Pāli : paṭicca-samuppāda) o Ruota dell’Esistenza, mira a esplicare l’origine causale della sofferenza; il termine pali paṭicca-samuppāda è un termine composito, formato dal vocaboli paṭicca, sam, e uppāda; paṭicca (pati + i + a) è il gerundio del verbo pacceti, che a sua volta significa ‘ricadere sopra’, ‘dipendere’ (da pati, letteralmente ‘contro’) e può essere quindi tradotto con ‘dipendente da’;sam è un prefisso indeclinabile che sta per ‘assieme’, dalla stessa radice del latino ‘simul’, (simultaneo), dell’italiano ‘socio’ e dell’inglese ‘same’; uppāda (dal vedico ud + pad, rispettivamente ‘fuori’, simile all’inglese ‘out’, e ‘passo’, dalla stessa radice dell’italiano ‘piede’ indi, ‘uscire’), deriva dal verbo uppajjati, sorgere, manifestarsi, prodursi. Paṭicca-samuppāda può essere tradotto con ‘genesi condizionata’ , ‘sorgere dipendente’ o ‘coproduzione dipendente’; l’aggettivo paṭiccasamuppanna (co prodotto, generato per via di cause, sorto dipendentemente) indica ciò che è soggetto al paṭiccasamuppāda, ovvero il dukkha.

Secondo i resoconti tradizionali, nella prima parte della sua vita, il Principe Siddhārtha condusse un’esistenza decisamente agiata e priva di problemi di ordine materiale, fino a quando, -prendendo coscienza della caducità della vita e dell’inevitabilità di malattia, invecchiamento e morte –  venne travolto da un forte senso di smarrimento e angoscia esistenziale che lo spinsero ad abbandonare la vita agiata condotta fino ad allora per cercare una soluzione al problema fondamentale della nascita e della morte e del dolore ad esse associato.

Siddhārtha si immerse totalmente nella ricerca spirituale praticando sotto la guida di diversi maestri,  fino a quando comprese che la soluzione al problema del dukkha non può essere trovata nell’edonistica ricerca del piacere dei sensi, né tanto meno nell’automortificazione, ma solo tramite la comprensione profonda e l’attenzione portata alla fonte (yoniso -manasikara), attraverso un processo di introspezione.

Prendendo proprio la sofferenza come elemento di partenza di questo processo di auto-osservazione, Il principe fattosi asceta riuscì a comprendere il meccanismo attraverso il quale la sofferenza legata alla nascita, alla malattia, all’invecchiamento e alla morte vanga a manifestarsi.

Nell’ambito dell’insegnamento buddhista, questo processo prende il nome di paṭicca-samuppāda, l’origine dipendente della sofferenza. Di fatto, tutto l’insegnamento Buddhista può essere visto come una dettagliata esposizione del funzionamento di tale processo e del modo per liberarsene.

Il principio fondamentale di questo processo è la legge di causa ed effetto o legge dell’interdipendenza, secondo la quale ogni cosa esiste per via di un complesso intreccio di cause e condizioni; applicando questo principio al manifestarsi della sofferenza, è possibile giungere all’individuazione della sua causa più profonda, al fine di eliminarla.

In un noto dialogo con Sariputta, Assaji (uno dei primi cinque discepoli del Buddha), espose in maniera concisa il principio di causa ed effetto:

“ye dhammā hetuppabhavā tesam hetum Tathāgato āha tesañ ca yo nirodho, evaṃvādī Mahāsamano.”

«Di quei fenomeni che sorgono da cause e condizioni, Il Tathāgata ne ha spiegata l’origine e la cessazione; Questo è l’insegnamento del Grande Asceta» 

-Vinaya, I, 40.

In questo contesto, con ‘fenomeni’ (dhamma) si intendono gli elementi costituenti la catena del sorgere dipendente e non, come spesso si pensa, i fenomeni in generale; l’insegnamento del Buddha ha un carattere notoriamente pragmatico, e come tale, non mira a confutare sul piano ontologico l’esistenza dei fenomeni ma al superamento della sofferenza. Il Buddha stesso descrisse ai suoi discepoli lo stato d’animo e le considerazioni che lo spinsero ad abbandonare una vita fatta di agi materiali in cerca della liberazione:

«Monaci, prima di pervenire al completo risveglio, quando ero ancora un Bodhisatta, questa consapevolezza sorse in me: ‘Questo mondo è caduto in disgrazia, si nasce, si invecchia e si muore, si trapassa e si risorge, ma non si conosce alcuna via d’uscita da questa sofferenza di decadimento e morte. Chi mai renderà nota la via d’uscita da questa sofferenza di decadimento e morte?»

Questo stato di profondo turbamento fu la molla che indusse il giovane principe ad abbandonare la casa paterna per mettersi in viaggio alla ricerca di una via d’uscita (nissaraṇa) da tale stato di cose. Il principio generale dell’origine dipendente può essere sintetizzato nella seguente formula:

«imasmiṃ sati idaṃ hoti, imassuppādā idaṃ uppajjati»

«essendoci A, vi è B; con il sorgere di A, B si manifesta»  

Questo verso esemplifica il legame di dipendenza reciproca che lega i vari elementi del processo, il fatto che data l’esistenza di A, B sarà necessariamente presente. A questo proposito, è utile ricordare che vi sono fondamentalmente due tipi di dipendenza:
1:dipendenza sequenziale, dove un fattore precede il successivo in termini temporali, come ad esempio la sensazione a cui farà seguito -senza soluzione di continuità- la sete o bramosia;
2:dipendenza simultanea (correlazione), dove due fattori esistono contemporaneamente, sostenendosi a vicenda, come nel caso della dipendenza fra ideazione e materia (nāmarūpa) e cognizione (viññāṇa), i quali necessitano di esistere contemporaneamente sostenendosi l’un l’altro.

Capire l’Origine Dipendente

Alcuni insegnamenti possono apparire semplici a prima vista, ma tuttavia risultare complessi quando si tratta di metterli in pratica; nel caso dell’origine dipendente, essa appare profonda e complessa anche a prima vista:
«Ananda, l’origine dipendente è profonda, ed inoltre appare profonda»
-Mahā­nidāna­sutta, DN 15

Una delle ragioni di questo stato di cose è che nel descrivere il paṭic­ca­-samup­pāda, il Buddha dovette far ricorso ad un linguaggio altamente astratto, data l’inadeguatezza del linguaggio ordinario; Il Buddha stesso ammise che nell’esporre il Dharma, si serviva di due tipi di linguaggio, quello ‘diretto” e quello ‘indiretto’:

«Monaci, due tipi di persone diffamano il Tathāgata: quali due? chiunque esponga un discorso il cui significato necessita di essere interpretato come se fosse determinato/esplicito, e chiunque esponga il significato di un discorso il cui senso è determinato/esplicito come necessitante di essere interpretato, questi due, o monaci, diffamano il Tathāgata»

-AN, 2.21.

Dal punto di vista storico, con il passare del tempo e il diffondersi del Buddhismo su vasta scala in paesi lontani dalla terra d’origine, vennero persi di vista sia il contesto originario entro il quale avvenne la predicazione del Buddha, sia il significato di tali termini astratti che il maestro aveva in mente al momento di insegnare il Dhamma ai propri discepoli.
Tuttavia, in accordo al Sammohavinodani, un commentario all’Abhidhamma scritto dal venerabile Buddhaghosa ( V sec. d.C.), Il processo dell’Origine Dipendente può essere interpretato in due modalità : nella prima, è inteso come una concatenazione di eventi che si sviluppa, nella sua interezza nel corso di due o tre esistenze; nella seconda, come un processo che si manifesta simultaneamente in un singolo istante di coscienza.  Di seguito, un’analisi dei fattori costituenti il processo di origine dipendente:

1. Avijjā: a livello fondamentale, l’ignoranza è assenza di comprensione di cosa sia la sofferenza, di quale siano le sue cause, della possibilità di estinguerla e del metodo per estinguerla; e altresì ignoranza della natura transitoria, intrinsecamente insoddisfacente e impersonale dei fenomeni interni ed esterni.

2. Saṅkhārā: questo vocabolo, di cui non esiste una traduzione precisa nelle lingue occidentali, assume un significato differente a seconda del contesto; nel contesto dell’origine dipendente, con saṅkhārā si intendono quelle attività determinanti la cognizione, ovvero, il modo in cui facciamo esperienza della realtà; se è presente l’ignoranza, queste attività saranno influenzate da tale errata percezione della realtà, condizionando di conseguenza a loro volta il processo cognitivo. Per questa ragione, il termine saṅkhāra, è spesso tradotto con ‘condizionante’ oppure con ‘determinante’. Vi sono tre tipi di condizionanti: corporei, verbali e mentali (kāyasaṅkhāra, vacīsaṅkhāra, cittasaṅkhāra). Inspirazione ed espirazione (assāsapassāsā) sono i condizionanti corporei, in quanto essi rappresentano la funzione fisiologica fondamentale; pensiero e ponderazione (vitakkavicārā) sono i condizionanti della parola, giacché queste due attività precedono e determinano l’espressione verbale; sensazione e percezione (saññā, vedanā) sono invece i condizionanti mentali per eccellenza, essendo funzioni fondamentali per il processo cognitivo (viññāṇa).
Secondo J. Jurewicz, il termine sankhāra avrebbe avuto origine nella mitologia vedica pre-buddhista; in quel contesto, questo termine starebbe ad indicare sia la volontà di esistere che l’atto stesso che dà il via al processo di creazione del sé (ātman).

3. Viññāṇa: la cognizione è il processo della conoscenza degli oggetti dei sensi attraverso le relative facoltà sensoriali: visto, udito, olfatto, gusto, tatto e mente. La cognizione è la consapevolezza della presenza di un dato oggetto nel campo della coscienza soggettiva: se la cognizione è condizionata dall’ignoranza, essa sarà inevitabilmente distorta, e darà origine ad una percezione erronea dualistica nella quale un soggetto che percepisce se stesso come un’entità autonoma e permanente, percepirà altresì un oggetto «là fuori», distinto da se stesso; questo stato di cose è la base fondamentale per la separazione dualistica fra il soggetto e gli oggetti esterni, separazione dalla quale nasceranno le differenti modalità relazionali soggettivo-oggettivo: attrazione verso gli oggetti percepiti come gratificanti, avversione verso ciò che è percepito come dannoso o sgradevole, eccetera. Al contrario, se lo stato fondamentale della mente è improntato alla saggezza, il soggetto percepirà se stesso come un’entità dinamica, soggetta al mutamento e in stretta relazione di inter-dipendenza con gli oggetti percepiti.

4: Nāmarūpa il quarto anello è rappresentato dal binomio nāmarūpa, dove con rūpa si intendono gli oggetti dell’esperienza o immagini, e con nāma o ‘nome’ l’insieme di quei fattori mentali deputati alla designazione degli oggetti: il contatto, la sensazione, l’appercezione, l’intenzione e l’attenzione. (Vedanā, saññā, cetanā, phasso, manasikāro). Per quanto riguarda il rūpa, ogni oggetto è caratterizzato da quattro qualità di base, conosciute in gergo tecnico come i quattro elementi di terra, acqua, fuoco e vento. Con terra si intende la qualità fondamentale dell’inerzia, della resistenza; con acqua la qualità della motilità, fluidità e plasticità; il fuoco rappresenta la temperatura, il calore, e il vento la mobilità, il movimento.

Ogni volta che facciamo esperienza di un oggetto, si manifesterà la cognizione; dalla presenza simultanea di oggetto e cognizione, e con la presenza dell’attenzione, sorgerà il contatto; il contatto è l’interazione fra il soggetto cosciente e l’oggetto; tale contatto darà origine alla sensazione, all’appercezione e all’intenzione. La sensazione è il modo in cui l’oggetto è esperito in termini di mi piace, non mi piace, non mi interessa; il riconoscimento è il conoscere un oggetto sulla base della memoria, la facoltà di discernere un dato fenomeno dagli atri sulla base delle esperienza passate; l’intenzione è il modo in cui il soggetto decide di relazionarsi con l’oggetto, sentito come piacevole, sgradevole, o neutro, e riconosciuto come tale in base alla memoria.

Né la sensazione né l’appercezione possono essere controllati: essendo delle mere risposte automatiche ad un serie di stimoli, esse seguono un ritmo naturale, manifestandosi quando vi sono le cause e dissolvendosi con il dissolversi delle stesse; l’unico fattore sulla quale possiamo esercitare la nostra volontà è l’intenzione: ad esempio, se qualcuno ci insulta, sperimenteremo una sensazione (mentale) sgradevole, associata all’appercezione di quel particolare stato d’animo sulla base delle esperienze passate; in quel momento, abbiamo la facoltà di decidere come reagire: possiamo scegliere di reagire all’insulto con il silenzio o con la violenza o l’indifferenza, o magari con la saggezza, la fuga, insultando a nostra volta eccetera. La presenza simultanea di cognizione, materia e fattori nama, è la base per il manifestarsi del samsara, il circolo vizioso in cui nascita e morte danno origine al dukkha.

5. Saḷāyatana: Le sei basi sensoriali: vista, udito, olfatto, gusto, tatto, e mente. Queste sei facoltà dipendono dal nāmarūpa nel senso che il modus percipiendi dell’individuo è determinato dal processo cognitivo descritto finora; abbiamo un corpo materiale, dotato di cognizione e di fattori mentali la cui funzione è quella di riconoscere e designare gli oggetti; questo corpo è dotato di facoltà sensoriali quali la vista eccetera, e tramite queste sei facoltà entriamo in relazione con gli oggetti stessi; per via del fatto che la nostra cognizione è oscurata dall’ignoranza, la relazione sarà condizionata dall’illusoria separazione dualistica fra il soggetto e l’oggetto.

Come già accennato, vi sono due tipi di dipendenza: dipendenza consequenziale e dipendenza reciproca o mutua dipendenza: nel primo tipo, un fattore del sentiero precede quello successivo, il quale sorge sulla base del precedente; nel secondo invece, due o più fattori sono presenti contemporaneamente, sostenendosi a vicenda. Affinché il processo dell’origine dipendente abbia luogo, la cognizione, il nāmarūpa e le sei basi dei sensi devono necessariamente essere presenti contemporaneamente:

«Proprio come due fasci di canne si sostengono l’una con l’altra, allo stesso modo,  nāmarū­pa è la base di viññāṇa, e viññāṇa è la base del nāmarū­pa; nāmarū­pa è la base per le sedi sensoriali, le sedi sensoriali sono base per il contatto… ed in questo modo che tutta questa intera massa di sofferenza viene a manifestarsi»

-Naḷa­kalāpī­sutta, SN 12.67

6. Phassa: il contatto è l’interazione fra il Sé, -l’insieme dinamico di nāmarūpa e cognizione, concepito erroneamente come un sé sostanziale da una mente condizionata dall’ignoranza- e i fenomeni del mondo esteriore, tramite le sei basi sensoriali.

7. Vedanā: sensazione: il modo in cui un oggetto con il quale siamo venuti in contatto tramite le sei base sensoriali è esperito, nei termini di mi piace, non mi piace, e non mi interessa; questi tre tipi di sensazione sono la declinazione egoica dei tre tipi di esperienza possibili in natura: piacere, dispiacere e indifferenza. Sebbene in realtà vi siano solo tre tipi di sensazioni -piacere-dolore ed indifferenza-, la mente ignorante concepisce questi tre  come esperienze soggette e collegate indissolubilmente ad un sé; il piacere diventa «mi piace», il dolore «non mi piace» e l’esperienza neutra «non mi interessa».

8. Taṇhā la sete, indica le reazione emotiva alla sensazione, il desiderio di appropriarsi delle esperienze piacevoli, di respingere quelle sgradevoli e di ignorare ciò che non interessa; la sete ha tre aspetti fondamentali: la sete di piacere, la sete di esistenza, e la sete di non esistere; queste tre modalità rappresentano tre diverse strategie adottate dall’ego al fine di convalidare la propria esistenza, di gratificare se stesso, di riaffermare la propria esistenza nel tempo, e di sfuggire a tutte quelle situazioni sentite come dolorose, sgradevoli e perciò insoddisfacenti.

9.Upādāna: l’afferrare: Il processo mentale dell’appropriarsi dell’esperienza in termini soggettivi, l’afferrarsi a ciò che si desidera, la personalizzazione dell’esperienza, la creazione di un legame di dipendenza fra l’Io e gli oggetti desiderati, il prendere ciò che meramente appare come il proprio sé per il proprio Io o sé; l’afferrarsi è il tentativo dell’Io di cristallizzare l’esperienza, ovvero di rendere permanente ciò che invece è per sua natura soggetto al mutamento. Tale fenomeno è definito bhava o esistenza, l’elemento successivo della catena dell’origine dipendente.

10. Bhava: l’essere o esistere, è lo stato esistenziale plasmato dai nostri desideri e dalle azioni compiute ai fini di soddisfare tali desideri; la nostra esistenza è il risultato diretto dell’afferrarsi, il processo di appropriazione dell’esperienza in termini di Io e mio. L’esistere è l’appropriarsi degli aggregati psicofisici, -i quali collettivamente formano la base per il manifestarsi del sé- e tale esistere o essere permarrà fintato che rimarremo afferrati a quella data situazione. La mente condizionata dall’ignoranza afferra ciò che è un mero processo in divenire, costantemente plasmato dalle nostre scelte e delle azioni, per un sé statico.

11. Jāti :Nascita: l’esistere, il prendere ciò che è un fenomeno fluido per un Io statico, il confondere l’esistenza per un Io-sono-qualcosa, Io sono, implica l’appropriarsi concettuale del concetto di nascita, che in quest’ottica diventa «la mia nascita», e questa appropriazione implica una percezione di stabilità, di staticità e indissolubilità che in realtà non esiste. La nascita che è parte del processo dell’origine dipendente è quindi quella che è stata afferrata concettualmente come parte di quel processo di auto convalida della propria esistenza.

Secondo il commentario Sammohavinodani, un commentario risalente al V secolo d.C. ad opera di Buddhaghosa: «Per via del fatto che in questo caso con “nascita” ci si riferisce alla “caratteristica di ciò che è prodotto” (sahkhatalakkhana), 𝐥’𝐞𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐧𝐳𝐚 (𝐛𝐡𝐚𝐯𝐚) 𝐞̀ 𝐢𝐥 𝐜𝐨𝐧𝐝𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐧𝐚𝐬𝐜𝐢𝐭𝐚 𝐢𝐧 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐨 𝐟𝐢𝐠𝐮𝐫𝐚𝐭𝐨 {𝐩𝐚𝐫𝐢𝐲𝐚̈𝐲𝐞𝐧𝐚), unicamente come condizione decisiva di sostegno. 𝐋𝐨 𝐬𝐭𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐝𝐢𝐬𝐜𝐨𝐫𝐬𝐨 𝐯𝐚𝐥𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐥𝐚 𝐧𝐚𝐬𝐜𝐢𝐭𝐚, 𝐥𝐚 𝐯𝐞𝐜𝐜𝐡𝐢𝐚𝐢𝐚 𝐞 𝐥𝐚 𝐦𝐨𝐫𝐭𝐞 […] Nonostante nascita, invecchiamento e morte non siano quantificabili in termini di istanti di coscienza, sono comunque inclusi, in quanto esistenti all’interno del singolo istante di coscienza».

La nascita come metafora esistenziale

Similmente, nel libro Il cuore dell’albero della Bodhi, Buddhadasa Bhikkhu afferma:

«Ogni singolo affioramento del senso dell’io-mio è considerato una nascita (jati) e questo è appunto il senso della parola nascita in accordo al Dhamma. Non pensate alla nascita da ventre materno. l’uomo nasce dal ventre una volta sola e viene chiuso nella bara una volta sola. Il Buddha non si riferiva alla nascita fisica: intendeva la nascita spirituale, la nascita dell’attaccamento all’io-mio».

12. Jarāmaraṇa soka­-pari­deva-­duk­kha-­do­manas­sa-upāyāsā: decadimento, morte e sofferenza: nel momento in cui questa falsa percezione di stabilità viene ad infrangersi per via del naturale dispiegarsi degli eventi della vita quali il decadimento psicofisico, il presentarsi di una malattia o la presa di coscienza dell’approssimarsi della morte, quella falsa sicurezza indotta dall’errata percezione delle cose viene a disintegrarsi, lasciando spazio all’angoscia, uno stato di profonda sofferenza psicosomatica definito genericamente dukkha. Il dukkha si manifesta quando l’individuo comincia a prendere coscienza della certezza della propria fine, del fatto di non essere quell’entità statica e imperitura che l’individuo si era convinto di essere, del fallimento di tutte le strategie quali la sete e l’afferrarsi adottate al fine di  dare forma e sostanza al proprio essere, un essere autonomo ed eterno.

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