
«Durante l’esposizione di quel discorso [sulle quattro verità], nel venerabile Koṇḍañña sorse la pura, immacolata visione del Dharma: ‘Tutto ciò che sorgere, ha la natura di cessare’».
-Dhammacakkappavattana Sutta
Questi versi, attribuiti al venerabile Koṇḍañña e riportati nel Dhammacakkappavattana Sutta (altrimenti noto come «Discorso di Benares»), circa la realizzazione della transitorietà dei fenomeni, potrebbero, a prima vista, destare nel neofita una qualche perplessità; qualcuno potrebbe domandarsi: cosa c’entra la comprensione della natura transitoria di tutti i fenomeni con l’emancipazione dall’insoddisfazione esistenziale o dukkha?
Prima di analizzare la questione, riassumiamo brevemente il contenuto del Sutta: per prima cosa, il Buddha espone al gruppo dei cinque asceti il principio della «Via di Mezzo» tra la repressione della bramosia e la spasmodica rincorsa a soddisfarla; indi il Mastro procede affermando che la causa della nostra perpetua insoddisfazione, di quel senso di vuoto che attanaglia le vite di tutti gli esseri viventi che egli definisce dukkha, risiede proprio nella bramosia di gratificazione, nel desiderio di esistere (immaginata come più soddisfacente dell’attuale) o di non essere ciò che si è. A questo punto, il Buddha afferma che per liberarsi dal vincolo delle passioni, per usare una frase di Battiato, sarà necessario abbandonare tale bramosia, e che per poter fare ciò si dovrà seguire un sistema di addestramento graduale definito il «Nobile Ottuplice Sentiero».
Dunque, a cosa si riferiva Koṇḍañña? la risposta a questa domanda è che per il Buddha l’insoddisfazione nasce dal desiderare una felicità duratura attraverso l’appropriazione di ciò che è in realtà transitorio; questo stato di cose è determinato dall’ignoranza della transitorietà dei fenomeni; l’errata percezione della stabilità (nicca) ci porta a considerare le cose come soddisfacenti (sukha) e quindi ad attaccarci, a indentificarci con esse (atta).
Tuttavia, una volta che la transitorietà è percepita e compresa, ne conseguirà la realizzazione del fatto che ciò che è transitorio è insoddisfacente (Yad aniccam tam dukkham), e ciò che è insoddisfacente non ci appartiene davvero, (yam dukkham tad anatta), e perciò non deve essere afferrato come ‘me’ o ‘mio’ (yad anatta tam ‘N’etam mama, n’eso ham asmi, na me’so atta’ ti. Evam etam yathabhutam sammappannaya datthabbam).
(La pratica del Dharma è di fatto un addestramento finalizzato all’attuazione di questa ingiunzione al non attaccamento).
A quel punto, avendo compreso che si tratta di esperienze insoddisfacenti e frustranti sulla lunga distanza, il praticante diverrà finalmente capace di abbandonare le cause dell’insoddisfazione e di divincolarsi da essa, come affermato nel Dhammapada:
«Tutti i condizionanti sono transitori,
Comprendendo questo stato di cose con saggezza,
ci si divincola dall’insoddisfazione;
Questo è il sentiero della purezza.»
«Tutti i condizionanti sono insoddisfacenti»,
Comprendendo questo stato di cose con saggezza,
ci si divincola dall’insoddisfazione;
Questo è il sentiero della purezza.»
«Tutti i fenomeni sono non-sé,
Comprendendo questo stato di cose con saggezza,
ci si divincola dall’insoddisfazione;
Questo è il sentiero della purezza.»
Ed è questo il senso che dell’affermazione di Koṇḍañña (e la conseguente approvazione dal parte del Buddha) deve essere intesa. Paradossalmente, ciò che ci spinge verso la ricerca spasmodica della gratificazione e di una prospettiva esistenziale più allettante rispetto a quella presente è proprio l’incapacità di comprendere la transitorietà delle situazioni spiacevoli, del dolore:
«Allorquando viene toccato da una sensazione dolorosa, in lui sorge avversione verso tale esperienza; provando avversione verso quella sensazione dolorosa, in lui si sviluppa la tendenza latente all’avversione verso le sensazioni dolorose; toccato da una sensazione dolorosa, egli cerca sollievo nel godimento dei piaceri sensuali. E per quale ragione? Perché l’inesperto uomo comune non conosce altra via d’uscita dalle sensazioni dolorose che il piacere dei sensi; e nel godere del piacere dei sensi, in lui si sviluppa la tendenza latente alla passione per le sensazioni piacevoli, essendo incapace di comprendere per come realmente sono il sorgere, lo svanire, i benefici, gli svantaggi e l’emancipazione da tali sensazioni. Ed in colui che è incapace di comprendere per come realmente sono il sorgere, lo svanire, i benefici, gli svantaggi e l’emancipazione da tali sensazioni, si sviluppa la tendenza latente all’ignoranza in riguardo alle sensazioni neutre. Sperimentando una sensazione piacevole, la sperimenta con attaccamento; sperimentando una sensazione dolorosa, la sperimenta con attaccamento; sperimentando una sensazione né dolorosa né piacevole, la sperimenta con attaccamento; questo o monaci, è detto ‘l’inesperto uomo comune, attaccato alla nascita, all’invecchiamento, alla morte, alla pena, al lamento, alla sofferenza, al dolore e alla disperazione, attaccato al dukkha’».
-Salla Sutta, SN 36
In conclusione, è importante rammentare che gli stati afflittivi della mente come il desiderio, l’avversione eccetera non devono essere repressi (né tantomeno perseguiti) ma semplicemente compresi per ciò che sono.
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