Buddhismo ed Eutanasia

Risposta ad una domanda su fine vita e accanimento terapeutico.

«Nel valutare un’azione dal punto di vista etico, il criterio buddhista è che un’azione è buona in quanto i suoi risultati sono buoni sia per la società che per l’individuo che in essa vi abita, in uguale misura, per entrambe le parti. Nella giurisprudenza buddhista, il miglior giudice delle nostre azioni è la nostra coscienza.»

– Narada Mahathera

Domanda: «I recenti casi di cronaca hanno riportato l’attenzione alla questione dell’eutanasia; qual è la posizione del Buddhismo in merito a questo delicato tema?»

R: In merito alla questione della legittimità, sotto il profilo etico, dell’eutanasia, il Buddhismo opera una differenziazione fra due tipi di individui:

1. La persona non ancora liberatasi dalle oscurazioni mentali causa di dukkha, sofferenza esistenziale.

2. l’arahant, colui il quale, essendosi totalmente liberato dalle afflizioni mentali, è virtualmente libero dal circolo vizioso di nascita e morte.

Per quest’ultimo tipo di individuo, l’eutanasia attiva e passiva è ammessa e concessa, nel momento in cui, in caso di grave malattia, non vi siano più speranze di miglioramento. Questo stato di cose è affermato a chiare lettere in alcuni Sutta (discorsi pubblici del Buddha), quali ad esempio il Vakkalisutta (Samyutta Nikāya 22.87) e il Channasutta (Samyutta Nikāya 35.87).

D’altro canto, per coloro i quali sono ancora soggetti alle afflizioni quali l’avversione, in base alla dottrina del karma e della rinascita, tale pratica non è ritenuta opportuna. È bene precisare che su questo tema non vi sono delle proibizioni o precetti veri e propri, ma solo delle prescrizioni finalizzate al benessere dell’individuo stesso.

In accordo alle legge di causa ed effetto, ogni azione genera una serie di reazioni; per questa ragione, ogni individuo è ritenuto come il solo responsabile delle proprie scelte e azioni e delle eventuali conseguenze.

Inoltre, in base al principio della via di mezzo, non è ritenuto saggio eccedere nell’estremo dell’accanimento terapeutico; la morte è vista come parte integrante della vita degli esseri senzienti, e quando non ci sono più le condizioni necessarie per vivere naturalmente, non ha alcun senso mantenere in vita una persona tramite forme di accanimento terapeutico prive di alcun beneficio.

Peraltro, è assolutamente contrario allo spirito del buddhismo istigare qualcuno al suicidio o all’eutanasia allorché mossi da avidità, (per ottenere un eredità esempio) avversione, ignoranza eccetera. (bhikkhuni vibhanga, vinaya)

La ragione per la quale il Buddhismo sconsiglia la pratica dell’eutanasia alle persone comuni non ancora pervenute alla liberazione è dovuta al fatto che la qualità dell’esistenza futura è determinata dalle decisioni (cetanā) a cui seguono delle azioni (kamma) che a loro volta determineranno la bontà della nuova esistenza; morire con una mente colma di avversione è ritenuto svantaggioso perché andrebbe a determinare una morte dolorosa e una nuova esistenza sfortunata. Si tratta quindi di un consiglio motivato da compassione.

In ultima analisi, in una società laica e ampiamente secolarizzata, ogni persona deve essere libera di scegliere come comportarsi e cosa fare della propria vita, senza subire i diktat di terzi; il Buddhismo si limita a porre l’accento sulla responsabilità individuale del singolo individuo e della collettività.

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