Chi era Siddhārtha il Buddha?

STORIA DEL BUDDHISMO .1
Chi era Siddhārtha il Buddha?

Siddhārtha Gautama, conosciuto come il Buddha, nacque a Lumbini, nell’odierno Nepal. In merito all’annosa diatriba sulla sua nazionalità, è bene ricordare che a quell’epoca non si era ancora realizzata la suddivisione dei territori del subcontinente indiano in stati indipendenti quali l’India, il Nepal, il Bangladesh, l’Afghanistan ed il Pakistan. Nei testi buddhisti in lingua pali, i territori dove visse il Buddha sono conosciuti con il nome di Majjhimadesa, la Regione di Mezzo.

1.La datazione del Buddha

La datazione del Buddha è incerta; le differenti teorie proposte dagli studiosi antichi e moderni si basano su informazioni estratte dai testi canonici e post canonici quali il Vinaya-Parivāra, il Dīpavaṃsa e il Mahāvaṃsa per la tradizione Theravāda, e il Samayabhedoparacanacakra, un testo appartenente alla scuola Sarvāstivāda, riferimento scritturale dei buddhisti cinesi, giapponesi, vietnamiti eccetera. In breve, queste sono le tesi più accreditate:

  • La cronologia estesa: 623-543 a.C
  • La cronologia estesa riveduta: 566-486 a.C
  • La cronologia breve: 448-368 a.C.
  • La cronologia “punteggiata” : 566-486 a.c.
  • La cronologia anagrafica, di Rhys Davids-Gombrich : 484-404 a.C

Secondo la tradizione singalese, il Buddha visse fra il 623/624 ed il 543/544 a.C. Tuttavia, molti studiosi moderni ritengono vi sia un errore di calcolo relativo all’incoronazione dell’imperatore Ashoka[1]. Secondo il Mahāvaṃsa, l’incoronazione di Ashoka avvenne duecento diciotto anni dopo il trapasso del Buddha[2], ovvero, nel 326 a.C. Tuttavia, già nel 1837, l’orientalista britannico George Turnour notò una discrepanza di circa 60 anni fra le date relative alla vita di Candragupta [3] tramandate dalla tradizione buddhista e quelle fornite dagli storici greci come Megastene. A tal proposito, il Prof. Richard Gombrich scrive: «La datazione di Aśoka è approssimativamente stabilita sulla base del sincronismo tra il suo 13 ° editto maggiore su roccia, che secondo gli studiosi risalirebbe al 13 ° anno dopo la sua consacrazione, e i cinque monarchi ellenici ivi nominati regnanti in quel periodo. La data dell’editto deve essere il 255 a.C.; la consacrazione di Aśoka è di conseguenza datata al 268 a.C. » [4]. In questo modo, la data di morte del Buddha sarebbe avvenuta nel 486 a.C.


2.I Sakya di Kapilavatthu

Gautama era membro del Clan dei Sakya, «I Potenti», un clan tribale e un gruppo etnico di origine mista (in parte indo-ariani, provenienti dall’Est Europa, e in parte munda, originari dell’Asia orientale), insediatosi nei territori alle pendici dell’Himalaya attorno al settimo secolo a.C.  Essi, mantennero stili di vita e tradizioni peculiari rispetto a quelle dei gruppi etnici maggioritari presenti in India a quel tempo, quali ad esempio la poligamia, i matrimoni endogamici, il consumo di carne vaccina e l’organizzazione statale repubblicana; consideravano altresì la casta dei nobili guerrieri più importante rispetto a quella dei brahmana. Quella dei Sakya non era una monarchia ma una sorta di repubblica oligarchica (ganasangha) nella quale i re venivano nominati dai membri del parlamento, (Santaghara). I rapporti fra gli autarchici Sakya e le due grandi monarchie vigenti a quel tempo nella pianura del Gange -quella del Magadha e quella del Kosala- non erano certo dei più semplici; basti pensare che entrambi i Re dei due grandi regni summenzionati, Bimbisara del Magadha e Pasenadi del Kosala, vennero brutalmente destituiti e uccisi dai propri discendenti, e che lo stesso Virudhaka, figlio del Re Pasenadi ( e di una schiava Sakya spacciata da quest’ultimi per principessa), fu l’artefice della distruzione della Repubblica dei Sakya e dello sterminio dei suoi abitanti.

3.Origini del Clan dei Sakya, fra storia e leggenda

I testi del Canone Pali fanno risalire l’origine del clan Sakya al mitico re Okkaka o Iksvaku, originario dell’area della pianura del Gange nota come Mahajanapada.[7] Okkaka era discendente della mitica dinastia solare (suriya-wansha), e per questa ragione il Buddha è spesso definito come Principe della dinastia del sole (Kumara Angirasa). Gautama fu quindi un membro della casta dei nobili guerrieri o Kṣatriya, anche se il nome Gautama suggerisce che il clan dei Shakya abbia avuto origine dal Gota (lignaggio) brahmanico dei Gautama, fondato da un Rishi di casta brahamana conosciuto come Gotama Maharishi. Il Regno del Kosala corrisponde grosso modo alla regione di Awadh, Nell’Uttar Pradesh, dove si trova fra l’altro la città di Siddhartnagar, identificata da alcuni studiosi come l’antica Kapilavastu, la capitale della Repubblica dei Sakya. Di fatto, poco tempo dopo questa conversazione, il territorio dei Sakya, noto anche come Uttara Kosala o Kosala del Nord, venne ferocemente sottomesso dal Generale Vidudabba, -figlio dello stesso Pasenadi e di una schiava dei Sakya- ed i Sakya massacrati e costretti alla fuga.

4.La lingua dei Sakya

Date queste premesse, è  assai probabile che la lingua madre del Buddha fosse il Kosalī, la lingua del Kosala. Il Kosalī era una sorta di dialetto o lingua locale, strettamente imparentata con lo stesso sanscrito e con il Pālibhāsā, il linguaggio (bhasa) in cui sono tramandati i testi canonici (Pāli). Il Pāli è verosimilmente una lingua franca creata sulla base dei dialetti parlati dal Buddha e dai suoi discepoli diretti, il Kosalī e il maghadī.

5.I Sakya e la cultura vedica

I Sakya vivevano in quella che gli studiosi chiamano attualmente l’area culturale del Grande Magadha, che si trovava nella pianura del Gange orientale a est della confluenza dei fiumi Gaṅgā e Yamunā. Come gli altri gruppi orientali della regione del Grande Magadha, gli Sakya erano saṃkīrṇa-yonayaḥ («di origine mist»), e quindi non aderivano all’organizzazione sociale del caturvarṇa composta da brāhmaṇa, khattiya, vessa e sudda; ai clan indigeni non indoariani era invece attribuito lo status di suddas, cioè di schiavi o servi, mentre ai clan indoariani e ai clan indigeni che collaboravano con essi era riconosciuto lo status di khattiya. Così, le popolazioni del Grande Magadha non condividevano la supremazia dei brāhmaṇa dei popoli di Āryāvarta, cioè la patria ariana, e i khattiya erano invece la classe più alta nelle società di Grande Magadha.[1]

La letteratura vedica considerava quindi le popolazioni del Grande Magadha al di fuori dei limiti di Āryāvarta, con il Manusmṛiti che raggruppa i Vaideha, Māgadhī, Licchavika e Mallaka, i quali erano confinanti con i Sakya, come «non ariani» e nati da matrimoni di caste miste; i Baudhāyana-Dharmaśāstra che richiedono ai visitatori di queste terre di compiere sacrifici purificatori come espiazione. Questa visione negativa dei popoli della regione del Grande Magadha da parte dei popoli vedici si estendeva agli Shakya, come riportato nell’Ambaṭṭha ​​Sutta, secondo il quale i brāhmaṇa descrivevano gli Shakya come «feroci, rozzi, permalosi e violenti» e accusavano loro di non onorare, rispettare, stimare, riverire o rendere omaggio ai brāhmaṇa a causa della loro origine umile.[6]

6. Il Background religioso di Siddhārtha Gautama

I Sakya non erano quindi seguaci del Bramanesimo ma adoratori del Dio sole (ādiccabandhu); questa distinzione può forse aiutarci a capire in che modo il Buddha fu capace di proporre una dottrina in cui i principi fondamentali del bramanesimo venivano messi radicalmente in discussione. Di fatto, il movimento degli asceti contemplativi (sramana) del quale Siddhārtha Gautama faceva parte, si originò in un contesto sociale come quello del Grande Magadha, in cui il bramanesimo non rappresentava la religione predominante.
Secondo Peter della Santina, «Al tempo del Buddha in India fioriva una cultura religiosa eterogenea. E questo risulta chiaro anche da uno sguardo superficiale sui fatti salienti della vita del Buddha stesso. Per esempio, alla sua nascita due tipi di persone fecero pronostici sul suo futuro grandioso. La prima profezia fu quella di Asita, un eremita asceta che viveva sui monti, sebbene le biografie del Buddha dicano che Asita era un bramino, un membro della casta sacerdotale della società ariana. Questa è già di per sé una chiara evidenza dell‟interazione delle due antiche tradizioni religiose, in quanto indica che già nel VI secolo A.C., anche i bramini avevano cominciato ad abbandonare la vita di famiglia e adottare lo stile di vita degli eremiti erranti, qualcosa di inaudito mille anni prima. Si racconta poi che più tardi furono invitati 108 bramini alla cerimonia in cui veniva dato un nome al giovane principe. Anch‟essi profetizzarono la futura grandezza del bimbo. Chiaramente erano sacerdoti che non avevano rinunciato alla vita di famiglia e che quindi rappresentavano la pratica ortodossa originale accettata dagli arii.»[8]

7. Rinuncia, Ricerca e Risveglio

Secondo i resoconti tradizionali, nella prima parte della sua vita, il Principe Siddhārtha condusse un’esistenza decisamente agiata e priva di problemi di ordine materiale, fino a quando, -prendendo coscienza della caducità della vita e dell’inevitabilità di malattia, invecchiamento e morte – venne travolto da un forte senso di smarrimento e angoscia esistenziale che lo spinsero ad abbandonare la vita agiata condotta fino ad allora per cercare una soluzione al problema fondamentale della nascita e della morte e del dolore ad esse associato.

Siddhārtha si immerse totalmente nella ricerca spirituale praticando sotto la guida di diversi maestri, fino a quando comprese che la soluzione al problema del dukkha non può essere trovata nell’edonistica ricerca del piacere dei sensi, né tanto meno nell’automortificazione, ma solo tramite la comprensione profonda e l’attenzione portata alla fonte (yoniso-manasikara), attraverso un processo di introspezione. Prendendo proprio la sofferenza come elemento di partenza di questo processo di auto-osservazione, Il principe fattosi asceta riuscì a comprendere il meccanismo attraverso il quale la sofferenza legata alla nascita, alla malattia, all’invecchiamento e alla morte vanga a manifestarsi. Nell’ambito dell’insegnamento buddhista, questo processo prende il nome di paṭicca-samuppāda, l’origine dipendente della sofferenza. Di fatto, tutto l’insegnamento Buddhista può essere visto come una dettagliata esposizione del funzionamento di tale processo e del modo per liberarsene.

8. Chi è un Buddha?

Il termine Buddha è il participio passato di Bujjhati che vuol dire ‘risvegliato’. Questo termine deriva dalla radice del verbo Bujjh, ‘conoscere’, ‘comprendere’, ‘essere svegli’. Un Buddha non è né una figura divina né un profeta, ma una grande persona (mahāparisa) che ha realizzato la vera natura dell’esistenza, emancipandosi dal doloroso ciclo di nascita, vecchiaia e morte. In India, l’appellativo di Buddha è da sempre impiegato per designare quei personaggi che hanno raggiunto tale realizzazione, di cui il più famoso fu Siddharta Gautama, il fondatore del Buddhismo.

Ci sono tre tipi di Buddha: Il sammāsambuddha (pienamente risvegliato), il Paccekabuddha (Buddha solitario), ed il Sāvakabuddha (discepolo risvegliato), termine usato nei testi esegetici per definire l’arahant. Il sammāsambuddha è un individuo che ha realizzato le tra caratteristiche universali, le quattro Nobili Verità e l’origine dipendente senza l’ausilio di alcun maestro, senza seguire alcun sentiero spirituale preesistente. Il Paccekabuddha ha le stesse realizzazioni del Buddha pienamente risvegliato, ma non possedendo capacità didattiche necessarie, rimane in silenzio godendo dei frutti della liberazione fino al compimento dei suoi giorni. Un Sāvakabuddha (Arahant) è una persona che ha realizzato la liberazione attraverso una delle tre modalità sopra descritte, avendo prima praticato il sentiero esposto dal Buddha.

9. La pedagogia del Buddha

«Monaci, due tipi di persone non rappresentano correttamente il Tathāgata: quali due? chiunque esponga un discorso il cui significato necessita di essere interpretato come se fosse determinato/esplicito, e chiunque esponga il significato di un discorso il cui senso è determinato/esplicito come necessitante di essere interpretato, questi due, o monaci, non rappresentano correttamente il Tathāgata.»

-AN, 2.24.

Per quanto riguarda il metodo didattico adottato dal Buddha, egli era solito utilizzare una terminologia familiare ai suoi interlocutori, scomponendo e ricomponendo l’etimo delle parole, svuotando così quei termini del loro significato originario e riempiendoli con un nuovo significato, al fine di veicolare il messaggio che gli stava a cuore. Questo ha indotto alcuni studiosi poco accorti a credere erroneamente che il Buddha seguisse, a suo modo, i Veda e le Upaniṣad, (i testi sacri del brahmanesimo), mentre ne stava semplicemente impiegando la terminologia, dando a questa un nuovo significato. Tale prassi è spesso evidenziata nei discorsi dalla locuzione «In questa dottrina e disciplina» (imasmiṃ dhammavinaye), a sottolineare che in quel contesto il Buddha stava impiegando la fraseologia tradizionale vedica in accordo al Dhamma da lui scoperto e predicato. L’uso di tale locuzione aveva anche lo scopo di differenziare la posizione del Buddha da quella degli altri maestri suoi contemporanei.  Un altro indicatore che il Buddha stava utilizzando il linguaggio tradizionale dei Veda in una maniera non convenzionale era l’inserimento, in una data sentenza, dell’espressione «Io affermo» (Aham vadāmi), come nel caso della riformulazione del concetto tradizionale di Karma contenuta nel ‘Discorso sull’analisi penetrativa’ (AN, 6,63):

«Cetanāhaṃ, bhikkhave, kammaṃ vadāmi. Cetayitvā kammaṃ karoti: kāyena, vācāya, manasā.» 

«Monaci le intenzioni, Io intendo per Kamma. Avendo prima ponderato, uno agisce di conseguenza tramite il corpo, la parola e la mente.»

-Nibbedhika Sutta, AN 6,63

Questo è il classico esempio della riformulazione linguistica e concettuale della terminologia vedica operata dal Buddha; ciò ha comportato, sul piano filosofico e linguistico -oltreché su quello escatologico- una passaggio dal piano cosmologico a quello psicologico, esistenziale, di molti concetti chiave propri a quasi tutte le correnti di pensiero indiane precedenti o contemporanee al Buddha. Dal punto di vista storico, il Buddha ha riportato il Dhamma dal reame del rituale a quello dell’attuale; a tale proposito, T.W. Rhys Davids, nella sua introduzione alla traduzione inglese del Dīgha Nikāyala raccolta dei discorsi lunghi del Buddha, afferma:

«Nel discutere di sacrifici con un sacerdote dedito ai sacrifici rituali, di «unione con Dio» con un aderente a tale teologia, della superiorità della casta sacerdotale con un bramino arrogante convinto di ciò, di visione mistiche con un fedele seguace di tali credenze o di anima con una persona convinta dell’esistenza dell’anima, il metodo seguito era sempre lo stesso: Gotama si immedesimava il più possibile con la posizione mentale dell’interlocutore, evitando qualsiasi attacco alle convinzioni sostenute con passione da questi; egli accettava, come punto di partenza della propria esposizione, la desiderabilità dell’attività o della condizione ambita dall’interlocutore, fosse questa l’unione con Dio, (come nel Tevijja sutta), i sacrifici (Kūṭadanta sutta), lo status sociale (Ambaṭṭha sutta), le visioni celestiali (come nel Mahāli Sutta), o la credenza nell’anima (Poṭṭhapāda). Egli adottava perfino la stessa fraseologia dei suoi interlocutori, e quindi, in parte infondendo un nuovo e più alto (dal punto di vista buddhista) significato in tali parole, in parte facendo ricorso ad una concezione etica comune, egli riusciva a portare i suoi oppositori alle proprie posizioni. In tale metodo da lui adottato vi erano sia un senso di rispetto che di dignità, oltreché una non piccola abilità dialettica, ed una grande padronanza dei concetti etici implicati era certamente necessaria al fine di produrre il risultato desiderato.. Comunque sia, il metodo seguito in tutti questi dialoghi presenta uno svantaggio: accogliendo la posizione dei suoi avversari, adottandone il linguaggio, i redattori dei sutta ci impongono – al fine di comprendere ciò che essi ci presentano come la visione di Gotama- di leggere in profondità fra e righe del discorso; L’argumentum ad hominem non può essere messa sullo stesso piano dell’affermazione di un’opinione espressa senza alcun riferimento ad una persona o contesto specifico.»

10. Buddhismo, Civiltà dell’Indo e Brahmanesimo

In conclusione, vorrei citare per intero questo interessante passaggio dall’ottimo libro del Professor Della Santina circa il complesso rapporto fra il Buddhismo e le altre culture spirituali dell’India antica:

«Il Buddhismo è una religione che trae gran parte della sua ispirazione dalla cultura religiosa della valle dell’Indo. Gli elementi di rinuncia, meditazione, rinascita, karma e liberazione, componenti così importanti della cultura religiosa della popolazione della alle dell’Indo, sono altrettanto importanti nel buddhismo. Forse il Buddha stesso volle indicare che le origini della dottrina da lui proclamata risalivano alla civiltà dell’Indo, quando disse che la via da lui insegnata era un’antica via e che il traguardo da lui indicato era un antico traguardo. La tradizione buddhista sostiene che prima del Buddha Shakyamuni ci furono altri sei Buddha preistorici. Credo che ciò stia ad indicare una certa continuità tra la cultura e le tradizioni religiose della valle dell’Indo e gli insegnamenti del Buddha. Quando analizziamo i due fenomeni religiosi chiamati buddhismo e induismo, vi troviamo elementi ereditati dalle due grandi tradizioni religiose dell’antica India in proporzioni e prevalenza più o meno significative. Nel buddhismo possiamo riconoscere il peso preponderante dell’eredità religiosa trasmessa dalla civiltà dell’Indo, mentre solo una piccola parte può essere fatta risalire alla religione degli antichi arii. Nel buddhismo ci sono indubbiamente elementi ereditati dalla religione degli arii, come la presenza degli dei vedici, ma il loro ruolo rimane secondario. Viceversa, molte scuole dell’Induismo conservano una gran parte di elementi ereditati dalla tradizione degli arii e solo una piccola proporzione può essere fatta risalire alla religione della valle dell’Indo. Molte sette dell’Induismo si basano infatti sulle caste, sull’autorità della rivelazione esposta nei Veda e sull’efficacia delle pratiche del sacrificio. Malgrado questi evidenti elementi arii, nell’Induismo troviamo anche elementi importanti della cultura dell’Indo, come la rinuncia, la meditazione, la rinascita, il karma e la liberazione.» [9]


NOTE

1) Ashoka Maurya: Il grande imperatore buddhista dell’India, fu patrocinatore del terzo concilio di Pataliputra; in seguito a quel concilio, Ashoka decise di promuovere la propagazione del buddhismo in tutto il mondo, attraverso l’invio di missioni verso i paesi esteri. In uno dei suoi editti su roccia è scritto:

«La conquista del Dharma è stata vinta qui, sui confini, e anche aseicento yojana (5.400-9.600 km) di distanza, dove regna il re greco Antioco, e oltre, dove regnano i quattro re di nome Tolomeo, Antigono, Magante e Alessandro, così come nel Sud, tra i Chola, i Pandya, e fino a Tamraparni (Sri Lanka).»

2) Tale cifra è ottenuta sommando gli anni in cui i successori di Upāli, i monaci Dāsaka, Soṇaka, Siggava e Mogalliputta-tissa ricoprirono il ruolo di ‘pamokkha’ o capo-lignaggio. Secondo il Dīpavaṃsa, Upāli morì all’età di 74 anni, Dāsaka a 64, Soṇaka a 66, Siggava a 76, e Moggaliputta ad 80 anni. Inoltre, nello stesso testo leggiamo:

«Il dotto Upāli fu capo del lignaggio del vinaya ad aeternum, Dāsaka thera per cinquant’anni, Sonaka per quarantaquattro, Siggava per cinquantacinque, Mogalliputta per sessantotto.»

3) Chandragupta Maurya  (350?-298 a.C. circa) : Fondatore dell’impero Maurya, padre di Bindusara (320-268 a.C) e nonno paterno di Ashoka (304-232 a.C circa); noto ai greci con il nome di Sandrakottos.

4) Citato in: Charles S. Prebish, Cooking the Buddhist Books: The Implications of the New Dating of the Buddha for the History of Early Indian Buddhism.

5) Ambaṭṭhasutta DN 3.

6) Credit: wikipedia

7) «In passato, secondo coloro che ricordano il lignaggio ancestrale, i Sakya erano i padroni, mentre tu discendi da una schiava dei Sakya. I Sakya considerano il Re Okkaka come loro capostipite. Un tempo il Re Okkaka, che amava e adorava la sua regina, lasciò il regno ad un suo figlio, bandì i fratelli maggiori dal regno- Okkamukha, Karandu, Hatthiniya e Sinipura- e costoro, essendo stati banditi, costruirono la loro dimora sulle pendici dell’Himalaya vicino ad uno stagno di loti dove cresceva un grande albero di tek, e timorosi di inquinare il loro lignaggio, presero a mogli le loro stesse sorelle. Quindi, il Re Okkaka chiese ai suoi ministri e consiglieri: “Dove sono adesso i principi?” “Sire, adesso vivono sulle pendici dell’Himalaya, vicino ad uno stagno di loti dove cresce un grande albero di tek, e timorosi di inquinare il loro lignaggio, hanno preso a mogli le loro stesse sorelle. ” Quindi, il Re Okkaka esclamò: “Potenti (sakyā) sono invero i principi, davvero potenti, o amico, sono i principi! Questa è la ragione, o Ambaṭṭha, per la quale sono chiamati Sakya.»

8) Peter della Santina, L’Albero dell’illuminazione.

9) Idid.


BIBLIOGRAFIA (PARZIALE)

Della Santina, Peter : L’Albero dell’illuminazione.  Pian dei Ciliegi, 2003.

Gombrich,Richard: The Signicance of Former Buddhas in the Theravada Buddhism,  BUDDHIST STUDIES IN HONOR OF WALPOLA RAHULA

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