
DUE ASPETTI DELLA DOTTRINA SUL NON-SÉ
Assenza di controllo e non-identificazione
L’insegnamento buddistico sul non-sé (Pāli: anattā) contiene in sé due importanti sfaccettature: in primo luogo, la contemplazione del non sé deve condurre ad una presa di coscienza che le cose, essendo mutevoli e insoddisfacenti, sono al di là del controllo soggettivo da parte dell’individuo; se così non fosse, come chiosò il Buddha nel Discorso sul non sé, le cose potrebbero essere controllate secondo i propri desideri:
«La coscienza, o monaci, è non-sé; se invero, o monaci, essa fosse un sé, non condurrebbe all’afflizione, e da essa si potrebbe ottenere ciò: ‘possa questa mia coscienza essere così, possa questa mia coscienza non essere così’; monaci, siccome la coscienza è non-sé, proprio per questa ragione essa conduce all’afflizione, e da essa non è possibile ottenere ciò: ‘possa questa mia coscienza essere così, possa questa mia coscienza non essere così».[1]
In secondo luogo, il non sé è uno stato in cui non c’è un’identificazione soggettiva- oggettiva[2], ovvero, uno stato di non attaccamento nei riguardi dell’esperienza; la realizzazione di questo aspetto del non sé è il risultato dell’aver compreso che ciò che è transitorio (aniccā) è altresì insoddisfacente (dukkha) e quindi indegno di essere afferrato come proprio (etaṁ mama), come il proprio sé (eso me attā) o identificato con se stessi (eso aham asmi):
«La cognizione è permanente o mutevole?»
«mutevole, Signore».
«Ma ciò che è mutevole, è soddisfacente o insoddisfacente?»
«Insoddisfacente, Signore».
«Ciò che è mutevole, insoddisfacente, soggetto alla legge naturale del cambiamento, è forse saggio considerare ciò come ‘Questo è mio, questo sono Io, questo è il mio sé’?».
«No di certo, Signore».
[…] Perciò,qualsiasi cognizione, del passato, del futuro o del presente, interna o esterna, grossolana o sottile, inferiore o superiore, lontana o vicina, qualunque percezione, deve essere saggiamente riconosciuta in questo modo: ‘ciò non è mio, ciò non sono Io, ciò non è il mio sé’.»
L’insegnamento sul non-sé è perciò un rimedio alla percezione erronea che vede le cose come permanenti (nicca), e perciò affidabili, soddisfacenti (sukha), e quindi valevoli di essere considerate come proprie o addirittura come il proprio sé, come se stessi (attā). Il processo cognitivo alla base della creazione di un tale sé fittizio è descritto nel Mūlapariyāyasutta, il primo testo della Raccolta dei testi di media lunghezza (Majjhima Nikāya):
«Monaci, un incolto uomo comune, privo della visione dei nobili, ignorante in riguardo al Dhamma dei nobili, privo di esperienza del Dhamma dei nobili[…] percepisce ciò di cui ha preso coscienza proprio come ciò di cui ha coscienza; avendo percepito ciò di cui ha preso coscienza come tale, immagina [un sé] identico a ciò di cui ha coscienza, immagina [un sé] in relazione a ciò di cui ha coscienza, immagina [un sé] distinto da ciò di cui ha coscienza, immagina ciò di cui ha coscienza come ‘mio’; ed egli prova diletto in ciò che ha conosciuto. E per quale ragione? Perché egli non ha pienamente compreso questo stato di cose.»
In questo contesto, il Buddha utilizzò un termine dal significato molto importante: maññati; il verbo maññati deriva dalla radice verbale ‘mañ’, ‘pensare’. Maññati è l’immaginare o concepire, il proiettare delle qualità o caratteristiche su di un oggetto che in realtà ne è privo; esso rappresenta il modus percipiendi tipico della persona non risvegliata. Nell’immaginare se stesso in una data modalità, l’individuo proietta sull’oggetto percepito concetti (sankha) quali ‘ciò è mio’, ‘Ciò sono Io, o ‘Questo è il mio Sé’. In questo modo, i cinque aggregati costituenti la persona diventano soggettivamente, i cinque aggregati soggetti all’afferrarsi (pancaupadanakhanda); in questo contesto, con afferrarsi si intende l’afferrarsi alla concezione illusoria di un sé permanente.
Secondo Bhikkhu Bodhi, «l’espressione «Egli immagina [un sé] identico all’elemento X», indica una relazione di identificazione diretta con il fenomeno percepito; «Immagina [un sé] in relazione all’elemento X», indica una relazione di inerenza o appartenenza, l’identificare se stessi come facenti parte di un certo fenomeno; «Immagina [un sé] distinto dall’elemento X », indica una relazione di differenziazione e distinzione con il fenomeno, e la possibilità di potersene appropriare; «Immagina l’elemento X come ‘mio’», indica l’esperienza dell’appropriazione, il portare l’oggetto sotto il proprio controllo».
Infine, l’espressione «Egli prova diletto nell’elemento X», indica la strategia fondamentale attraverso la quale la persona cerca di dare sostanza al proprio supposto sé tramite la gratificazione dei sensi.
NOTE
1. Per inciso, questa è anche la ragione per la quale il desiderio è considerato dal Buddha come fonte di infelicità.
2.La nozione di identificazione non deve essere fraintesa come una negazione da parte buddhista della realtà dell’identità, come intesa convenzionalmente, della persona stessa; tale negazione invaliderebbe di fatto la legge della retribuzione delle azioni eticamente sensibili compiute in accordo alla propria volontà o scelta:
«Amico Gotama, io sostengo questa dottrina e punto di vista: ‘Non esiste alcuna persona che agisce per propria volontà o che agisce per volontà altrui’».
«Brāhmaṇa, non ho mai visto o sentito una tale dottrina, un tale punto di vista. Come può una persona, muovendosi avanti e indietro per propria volontà dire: ‘Non esiste alcuna persona che agisce per propria volontà o che agisce per volontà altrui’?
Cosa ne pensi, Brāhmaṇa, esiste il fenomeno dell’iniziare, del dare il via [ad un’attività]? »
«Esiste, amico.»
«Esistendo un tale fenomeno dell’iniziare [un’attività], è possibile discernere degli esseri che compiono delle azioni?»
«Certo, amico».
«Ecco Brāhmaṇa, esistendo il fenomeno dell’iniziare [un’attività], è possibile osservare degli esseri che compiono [delle attività]; questi sono gli esseri che iniziano [un’attività] da se stessi o per conto di altri.»
-Attakārī Suttam, AN. 6.38
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