
Introduzione
L’origine e lo sviluppo delle diciotto scuole del Buddhismo antico indiano è tutt’ora oggetto di dibattito e controversie, data la scarsità delle fonti certe e la molteplicità dei resoconti tramandatici dalle differenti tradizioni. Della lista della diciotto scuole vi sono cinque versioni differenti:
Quella dei Theravadin, preservata in testi quali il Kathāvatthu («le controversie»), il Mahavansa e dipavamsa; quella contenuta nel testo di Vasumitraintitolato Samayabhedoparacana cakra; Il testo di Vinitadeva, un monaco Mūlasarvāstivādin; quella contenuta nel testo della scuola Mahāsāṃghika intitolato Śāriputraparipṛcchā, e quella tramandataci dai testi mahāyāna del buddhismo cinese.
In questo articolo, seguiremo la traccia fornitaci dal Kathāvatthu, dal Mahāvamsa e dal Dipavamsa della tradizione Theravāda, attingendo da altre fonti, come il testo di Vasumitra, al fine di fornire una descrizione più chiara possibile degli elementi dottrinali che contraddistinguono ciascuna scuola.
Il linguaggio del Dhamma
«Monaci, due tipi di persone diffamano il Tathāgata: quali due? chiunque esponga un discorso il cui significato necessita di essere interpretato come se fosse esplicito, e chi espone il significato di un discorso il cui senso è esplicito come necessitante di essere interpretato».
-AN, 2.21.
Nel cercare di comprendere la genesi delle differenti scuole del Buddhismo indiano, bisogna innanzitutto tenere a mente che, come spiegato in maniera esauriente dal Prof. Richard Gombrich ne Il Pensiero del Buddha, con il passare del tempo e il diffondersi del Buddhismo su vasta scala in paesi lontani dalla terra d’origine, vennero persi di vista sia il contesto sociale originario entro il quale avvenne la predicazione del Buddha, sia il significato (e di conseguenza le implicazioni di carattere etico e pratico) della fraseologia impiegata dal maestro nell’esporre il Dhamma. Per quanto riguarda il metodo didattico adottato dal Buddha, egli era solito utilizzare una terminologia familiare ai suoi interlocutori, scomponendo e ricomponendo l’etimo delle parole, svuotando così quei termini del loro significato originario e riempiendoli con un nuovo significato, al fine di veicolare il messaggio che gli stava a cuore.
Questo ha indotto alcuni studiosi poco accorti a credere erroneamente che il Buddha seguisse, a suo modo, i Veda e le Upaniṣad, (i testi sacri del brahmanesimo), mentre ne stava semplicemente impiegando la terminologia, dando a questa un nuovo significato.
Tale prassi è spesso evidenziata nei discorsi dalla locuzione «In questa dottrina e disciplina» (imasmiṃ dhammavinaye),a sottolineare che in quel contesto il Buddha stava impiegando la fraseologia tradizionale vedica in accordo al Dhamma da lui scoperto e predicato. L’uso di tale locuzione aveva anche lo scopo di differenziare la posizione del Buddha da quella degli altri maestri suoi contemporanei.
Un altro indicatore che il Buddha stava utilizzando il linguaggio tradizionale dei Veda in una maniera non convenzionale era l’inserimento, in una data sentenza, dell’espressione «Io affermo» (Aham vadāmi), come nel caso della riformulazione del concetto tradizionale di Karma contenuta nel Nibbedika Sutta (AN, 6,63):
«Monaci le intenzioni, Io intendo per Kamma. Avendo prima ponderato, uno agisce di conseguenza tramite il corpo, la parola e la mente.»
Questo è il classico esempio della riformulazione linguistica e concettuale della terminologia vedica operata dal Buddha: Se nella visione tradizionale il termine karma stava ad indicare le azioni rituali (sacrifici) generanti un risultato, nella visione del Buddha tale termine venne a significare (previo rovesciamento del significato originale), non più le azioni ma le intenzioni (cetanā), da cui esse dipendono.
Questo ha comportato, sul piano filosofico e linguistico una translitterazione dal piano cosmologico a quello psicologico di molti concetti chiave propri a quasi tutte le correnti di pensiero indiane precedenti o contemporanee al Buddha. Dal punto di vista storico, il Buddha ha riportato il Dhamma dal reame del rituale a quello dell’attuale, come è evidente nel caso sopracitato del concetto di karma ed in moltissimi altri casi. A tale proposito, T.W. Rhys Davids, nella sua introduzione alla traduzione inglese del Dīgha Nikāya, la raccolta dei discorsi lunghi del Buddha, afferma:
«Nel discutere di sacrifici con un sacerdote dedito ai sacrifici rituali, di “unione con Dio” con un aderente a tale teologia, della superiorità della casta sacerdotale con un bramino arrogante convinto di ciò, di visione mistiche con un fedele seguace di tali credenze o di anima con una persona convinta dell’esistenza dell’anima, il metodo seguito era sempre lo stesso: Gotama si immedesimava il più possibile con la posizione mentale dell’interlocutore, evitando qualsiasi attacco alle convinzioni sostenute con passione da questi; egli accettava, come punto di partenza della propria esposizione, la desiderabilità dell’attività o della condizione ambita dall’interlocutore, fosse questa l’unione con Dio, (come nel Tevijja sutta), i sacrifici (Kūṭadanta sutta), lo status sociale (Ambaṭṭha sutta), le visioni celestiali (come nel Mahāli Sutta), o la credenza nell’anima (Poṭṭhapāda).
Egli adottava perfino la stessa fraseologia dei suoi interlocutori, e quindi, in parte infondendo un nuovo e più alto (dal punto di vista buddhista) significato in tali parole, in parte facendo ricorso ad una concezione etica comune, egli riusciva a portare i suoi oppositori alle proprie posizioni. In tale metodo da lui adottato vi erano sia un senso di rispetto che di dignità, oltreché una non piccola abilità dialettica, ed una grande padronanza dei concetti etici implicati era certamente necessaria al fine di produrre il risultato desiderato.
Comunque sia, il metodo seguito in tutti questi dialoghi presenta uno svantaggio: accogliendo la posizione dei suoi avversari, adottandone il linguaggio, i redattori dei sutta ci impongono – al fine di comprendere ciò che essi ci presentano come la visione di Gotama- di leggere in profondità fra e righe del discorso; L’argumentum ad hominem non può essere messa sullo stesso piano dell’affermazione di un’opinione espressa senza alcun riferimento ad una persona o contesto specifico.»
I quattro grandi standard
Sappiamo dal Mahāparinibbānasutta, che poco prima della sua morte, il Buddha – consapevole delle differenze di vedute già presenti nell’ampia cerchia dei suoi discepoli – diede alcune indicazioni su come distinguere l’autentico Dharma dalle opinioni personali dei singoli monaci o gruppi di monaci. Queste istruzioni sono conosciute con il nome di Catumahāpadesa o Quattro Grandi Standard:
«Quali sono, o monaci, i quattro grandi standard? Ecco o monaci, Un certo monaco potrebbe affermare: ‘Amici, proprio dalla bocca del Sublime io ho udito tale discorso, proprio dal lui ho appreso -Così è il dharma, così è la disciplina, questo è l’insegnamento del Maestro- Le parole di questo monaco non dovrebbero essere né accettate con entusiasmo né rifiutate con avversione; evitando sia un’accettazione entusiastica che un rifiuto astioso, dopo aver appreso correttamente tali affermazioni e spiegazioni semantiche, tali affermazioni dovrebbero essere comparate con i sutta e confrontate con il Vinaya; se, comparati con i Sutta e confrontati con il Vinaya, la lettera e lo spirito di queste parole non si accordano con i Sutta e non sono in accordo con il Vinaya, allora potrete giungere alla conclusione: Sicuramente non è questa la parola del Sublime e ciò è stato erroneamente inteso da quel monaco. A questo punto voi potrete rifiutare tale insegnamento. Viceversa se comparati con i Sutta e confrontati con il Vinaya, la lettera e lo spirito di queste parole risultano coincidere con i Sutta e sono in accordo con il Vinaya, allora potrete giungere alla conclusione: Sicuramente questa è la parola del Sublime e ciò è stato inteso correttamente da quel monaco. A questo punto voi potrete accettare ciò.»
Tuttavia, come vedremo in seguito, queste precauzioni da parte del Maestro non furono in grado di evitare il proliferare di opinioni divergenti circa l’interpretazione dei suoi discorsi fra i membri della comunità da lui fondata, né di impedire il diffondersi di un incredibile numero di discorsi liberamente attribuitigli nei decenni successivi alla sua morte da membri di questa o quella scuola. Nel periodo successivo alla morte del fondatore, l’insegnamento esposto in numerosi discorsi pubblici, si evolse lentamente un sistema dottrinario, detto Buddhasāsana (Dottrina del Buddha); gli enunciati contenuti nei discorsi vennero sintetizzati in un sistema dottrinale abbastanza omogeneo, ed in seguito interpretati e commentati in specifici testi detti esegetici detti Aṭṭhakathā (commentari). La predicazione del Buddha e le sue vicende terrene furono per secoli tramandate oralmente, di volta in volta convocate riunioni dei monaci in cosiddetti concili per determinarne la forma e il contenuto originale, depurandolo da quanto si riteneva introdotto successivamente, finché, circa nell’anno 80 a.C. furono per la prima volta messe per iscritto nella prima redazione del Canone nell’isola di Ceylon. Questa redazione originale è purtroppo andata persa. il Canone Pali ci è tuttavia giunto integro, a meno di successive edizioni e revisioni difficili da identificare, tramite le successive copie che ne furono fatte nei monasteri cingalesi ed esportazioni e traduzioni compiute in altri paesi dell’area.
Dopo il grande trapasso (parinirvana) del Buddha, i suoi discorsi vennero raccolti e classificati in testi contenuti nei piṭaka (sezioni) e nei nikāya (raccolte), in occasione del primo grande concilio, ( Sanghayana) dei grandi Arahant, svoltosi sotto la guida del Venerabile Mahakassapa. Secondo Buddhaghosa, gli insegnamenti del Buddha vennero raccolti in cinque Nikāya (raccolte) in ragione della loro lunghezza. I discorsi più lunghi furono raccolti nel Dīghanikāya (Raccolta dei testi lunghi), mentre i discorsi di media lunghezza vennero inseriti nel Majjhima Nikāya (Raccolta dei testi di media lunghezza); Nell’Aṅguttaranikāya (Raccolta Numerica) vennero inclusi i discorsi numerati. Alcuni Insegnamenti dati dal Buddha (Dhamma) furono compattati e riuniti in base all’argomento e raccolti nel Saṃyutta Nikāya (Raccolta dei Discorsi in Gruppi), ed infine i discorsi più brevi nel Khuddaka Nikāya (Raccolta dei discorsi Brevi).Ognuna di queste raccolte venne quindi assegnata ad un gruppo di monaci allievi di uno stesso maestro per memorizzarli e preservare il Dhamma per le future generazioni. Il Dīghanikāya venne assegnato ai discepoli di Ānanda, Il Majjhima Nikāya ai discepoli di Sariputta, l’Aṅguttaranikāya ai discepoli di Anuruddha ed Il Saṃyutta Nikāya ai discepoli di Maha Kassapa. Il Khuddaka Nikāya venne memorizzato da tutti i monaci collettivamente e così preservato nei secoli.
Fu proprio per via delle diverse interpretazioni date a questo sistema di dottrine, si vennero a formare le diciotto scuole del primo Buddhismo oggetto del nostro studio. Ognuna di esse differiva dalla altre per via delle differenti interpretazioni date ai punti più sottili del sistema dottrinale del Buddhasāsana.
I grandi concili (Saṅgāyana)
Vi furono in tutto sei grandi concili buddhisti, ma tuttavia, ai fini della nostra ricerca, risultano di importanza capitale solamente i primi tre, tenutisi rispettivamente a Rajagaha (VI sec. a.C), Vaishali (V sec. a.C.) e Pataliputra, (l’odierna Patna), nel terzo secolo a.C.
Il Primo Concilio
Come abbiamo già detto, circa tre mesi dopo la morte del Buddha, i discepoli superstiti, al fine di preservare il suo insegnamento per le generazioni successive, decisero di tenere un concilio in cui sarebbero stati fissati sia l’insegnamento che le regole della disciplina monastica, sulla base di ciò che era stato udito dai discepoli più vicini al maestro, in special modo Ānanda e Upali, l’ex barbiere dei Sakya, che in quanto addetto alla rasatura dei nuovi ordinandi aveva udito personalmente un’infinità di volte la recitazione delle regole monastiche imposta ad ogni nuovo monaco. Ānanda venne invitato a condividere i discorsi da lui uditi, mentre Upali trasmise per intero il corpus della regola monastica. Il concilio, presieduto da Mahakassapa e patrocinato dal Re Ajatasattu, venne tenuto in una località tutt’ora esistente chiamata “cava dei sette saggi”, -un terrazzamento roccioso comprensivo di sette cave che si affaccia sulla città di Rajgir, nell’odierno stato del Bihar – e continuò per circa tre mesi.
Il secondo Conclio
Un secolo dopo questo primo concilio, all’interno della comunità monastica vennero a manifestarsi delle divergenze in merito a certi punti minori della disciplina: Un gruppo di monaci, detti Vajjiputtaka (dal nome del paese di provenienza), propose l’abolizione di un decina di restrizioni presenti nel codice etico dei monaci elencate nella seconda sezione del Vinaya Pitaka, e nel Mahāvaṃsa, un testo redatto a Ceylon sulla storia del Buddhismo antico. Le dieci regole in questione erano:
1. La possibilità di conservare del sale per condire gli alimenti non saporiti,
2. Il mangiare fuori dal tempo prescritto, ovvero anche dopo mezzogiorno,
3. Andare nei villaggi ed accettare altro cibo dopo aver consumato il pasto principale,
4. Celebrare l’assemblea mensile (uposatha) in diverse sedi dello stesso distretto,
5. Prendere decisioni sull’amministrazione dell’ordine in assenza del numero legale,
6. Seguire l’esempio del proprio precettore/maestro anche in caso di comportamenti erronei o contrari al Dhamma e alla disciplina,
7. Bere latte non frullato,
8. Bere bevande alcoliche non fermentate,
9.Utilizzare stuoie per sedersi non rifinite da frange (senza orli),
10.Accettare oro e argento dai laici, cioè il denaro.
Queste proposte suscitarono polemiche e discussioni senza fine, e si formarono due fazioni, i favorevoli e i contrari. Al fine di risolvere la questione, venne indetto un secondo concilio, tenutosi nella città di Vaishali, ma non riuscendo a trovare una posizione comune, la questione venne decisa con un referendum fra gli otto monaci più anziani presenti, che rigettarono in toto le proposte di modifica avanzate dai monaci Vajjiputtaka. Qualche tempo dopo, i Vajjiputtaka, tennero un contro-concilio in cui venne elaborato un manifesto in cinque punti dove per la prima volta venivano messe in discussione le qualità di un Arahant. Le cinque obiezioni erano:
1. Un Arahant può essere soggetto a sogni erotici accompagnati da polluzioni notturne;
2. Un Arahant non è ha la piena conoscenza in riguardo ad argomenti non dharmici;
3. Un Arahant può essere soggetto al dubbio in riguardo a cose diverse dal Dharma;
4. Non è possibile ottenere la condizione di Arahant senza l’ausilio di un maestro esterno;
5. Un Arahant potrebbe intraprendere il nobile sentiero sulla base di stati d’animo negativi come la tristezza o la pena.
A questo contro-concilio, presieduto dal monaco Mahadeva, prese parte un grande numero di monaci, e per questa ragione, i suoi partecipanti presero il nome di Mahāsāṃghika, quelli della grande assemblea. I monaci anziani, rimasti in minoranza, rigettarono simili speculazioni costruite ad arte contro di loro, decisi a preservare l’insegnamento nella sua forma originaria. Si consumò quindi la prima vera e propria scissione nell’ordine monastico: da una parte i Mahāsāṃghika, e dall’altra gli anziani dalle idee più conservatrici. Da queste due fazioni, sorsero 18 scuole, sei dai Mahāsāṃghika e 12 dal gruppo degli anziani. Secondo il Mahāvaṃsa:
«Quel concilio tenuto all’inizio dai Mahathera capeggiati da Mahakassapa si chiama concilio dei thera. Una sola fu la Dottrina dei monaci anziani, nei primi cento anni; in seguito da quella nacquero altre scuole. Quei monaci dissidenti, in tutto diecimila, che erano stati censurati dai Thera del secondo concilio fondarono la scuola detta Mahāsāṃghika; da questa ebbe origine la Gokulikā e l’Ekavyohārikā. Dai Gokulikā nacquero la Pannattivāda e la Bahulikā, e da questa la Cetiyavāda; con la Mahāsāṃghika in tutto sei scuole. Inoltre, dai Therāvdin (gli anziani) nacquero queste due scuole: quella dei monaci Mahīmśāsaka e quella dei Vajjiputtaka. Dai Vajjiputtaka nacquero i dhammuttariya, i Bhaddayānika, i Chandāgārika, e i Sammiti,. Dai monaci Mahīmśāsaka nacquero inoltre questi due: i Sabbatthavādin e i dhammaguttika; dai Sabbatthavādin nacquero i Kassapiya e da questi i Sankatika; dai Sankatika nacquero i Suttavādin. Insieme alla scuola Theravāda queste sono le dodici che, con le sei anzidette, fanno diciotto. Nei successivi cento anni sorsero altre diciassette scuole, ed altra ancora ne sorsero in seguito: La Hemavata, la Rājagirika, la Siddhatthaka, quella dei monaci Pubbaseliya, l’ Aparaseliya e la Vajiriya; queste sei limitatamente al Jambudipa (India). La Dhammaruci e la Sagaliya limitatamente all’isola di Lanka.»
Il terzo concilio
Secondo il Kathāvatthu, circa trecento anni dopo il trapasso del Buddha, L’imperatore Asoka, dopo avere constatato la morte di milione di persone durante la battaglia finale contro il Re del Kalinga, precipitò in uno stato di disgusto profondo. Fu in quel periodo che un giovane arahant di soli sette anni di nome Nigrodha venne in aiuto dell’imperatore, aiutandolo a superare i sensi di colpa. Asoka rimase così impressionato da Nigrodha al punto di sviluppare una vera e propria adorazione verso il Buddhismo. Asoka ordinò la costruzione di 84.000 Stupa e monasteri in tutta l’India in onore degli 84.000 insegnamenti del Buddha. In conseguenza dell’espansione dell’ordine del Buddha, un gran numero di persone venne attratta dal Buddhismo, e per questa ragione divenne difficile persino trovare persone disposte a sostenere i sacerdoti delle altre religioni. Così, molti di questi sacerdoti entrarono nell’ordine buddhista. Per loro non rimaneva nient’altro da fare se non diventare monaci buddhisti. In questo modo, centinaia di sacerdoti vennero ordinati monaci buddhisti, ma invece di vivere in accordo agli insegnamenti del Buddha, questi continuarono a praticare i vecchi rituali ed i sacrifici all’interno dei monasteri.
I monaci virtuosi cominciarono a svolgere le loro attività separatamente rifiutandosi di celebrare l’Uposatha (la pratica dell’ osservanza dei precetti per i monaci) assieme ai monaci corrotti. In questo modo, la cerimonia di Uposatha non venne più celebrata per sette anni. Infastidito da questo stato di cose, Asoka inviò un emissario per convincere i monaci a celebrare l’Uposatha congiuntamente; quando questi si rifiutarono di sottostare all’ingiunzione di Asoka, l’emissario, in un eccesso di zelo, decapitò con la propria spada ciascuno di quei monaci. Rammaricato per l’accaduto, Asoka indisse un nuovo concilio, con l’intento di purificare la dottrina buddhista dalle contaminazioni delle credenze ad esso estranee. Questo terzo concilio si tenne a Pāṭaliputra, sotto la supervisione di Moggalliputta Tissa, il monaco più anziano ed esperto di quell’epoca. Alla fine di questo terzo concilio, Asoka decise di inviare gruppi di monaci in qualità di messaggeri al fine di diffondere gli insegnamenti del Buddha . L’arrivo dell’Arahant Mahinda a Ceylon (Sri Lanka) fu il risultato di questo grande sforzo prodotto da parte del Re Asoka.
Fu proprio durante il concilio di Pataliputra che Moggalliputta Tissa scrisse il Kathāvatthu (libro sulle controversie), al fine di confutare le teorie da lui considerate eretiche delle altre scuole. Buona parte delle notizie circa le diciotto scuole e le relative posizioni dottrinarie derivano proprio dal testo di Moggalliputta. Il Kathāvatthu documenta oltre 200 controversie. I punti discussi sono divisi in quattro paṇṇāsaka (letteralmente “gruppo di 50”). Ogni paṇṇāsaka è di nuovo diviso in 20 capitoli (vagga) in tutto. Inoltre, altri tre vagga seguono i quattro pañāsaka. Ogni capitolo contiene domande e risposte per mezzo delle quali vengono presentate, confutate e respinte le opinioni più diverse. La forma dei dibattiti non dà alcuna identificazione dei partecipanti e non esce dal dibattito per dichiarare esplicitamente da che parte è giusta.
I principali punti di divergenza
Per C.G Pande, i principali argomenti di divergenza fra le varie scuole del primo buddhismo furono: 1. la natura trascendente (lokottarā) del Buddha. 2. Se ogni parola del Buddha è capace di liberare dal samsara colui che le ascolta. 3. inoltre, quando venivano notata delle contraddizioni nei testi canonici, sorse il problema distinguere i sutra il cui significato è diretto o esplicito (nitartha) da quelli dal significato recondito o indiretto (neyyata). In seguito, questo portò allo sviluppo della teoria delle Due Verità della scuola Satyasiddhi, considerata come l’anello di congiunzione fra le scuole del Nikāya e il Mahāyāna. 4.Assieme alla questione sulla trascendenza del Buddha, sorse quello circa la sua nascita ed il rapporto con il sangha. 5. Mentre l’ideale del Buddha diventava sempre più preponderante, quello dell’Arahant entrava in declino, e questo era il punto più dibattuto dell’intera gamma delle controversie settarie. 6. Il problema dell’esistenza del Pudgala. (persona). 7. Il problema dell’Antarabhava (stato intermedio). 8. l’esistenza degli oggetti passati e futuri. 9. la natura degli Anusaya o passioni latenti. 10. il funzionamento della coscienza. 11. il numero di Asamkrta (fenomeni incondizionati). 12. l’ordine del Bhavana ( meditazione, sviluppo interiore) e dell’abhisamaya ( realizzazione).Sempre secondo Pande,
«I principali filoni che vennero così a svilupparsi furono: il docetismo nella scuola Mahāsāṃghika, e in seguito, nel Mahāyāna; il Pudgalavāda (personalismo) nella scuola Vajjiputtaka e nel Sarvāstivāda, e la teoria del Dharma (natura dei fenomeni), principalmente nei testi Abhidharma dei Sarvāstivāda e dei Sthaviravāda. I fattori che maggiormente portarono alla nascita del docetismo buddhista posso essere così riassunti: Una naturale tendenza condusse alla glorificazione del Buddha, e fantasie mitiche vennero tessute attorno alla sua personalità. Egli venne investito di qualità sovrumane. Nacque così l’idea che egli non potesse essere soggetto alle limitazioni della vita ordinaria, in quanto Il Buddha non poteva che essere totalmente perfetto. […] Il Buddha, perciò, non visse mai come essere umano ordinario, apparendo tale per compassione verso gli ignoranti.»
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