
Il ruolo della donna nel Buddhismo
«Il Buddha è stato il fondatore del movimento di liberazione della donna. Il Buddha è stato il primo ad ordinare le donne, sino ad allora sottomesse ai bramini. Il messaggio del Buddha è Compassione e saggezza, cuore e mente. Il Buddha è la personificazione della grande compassione e della grande saggezza. Questa è la via realistica. Il Dharma del Buddha è come le nuvole che mandano pioggia su tutti gli uomini senza distinzione di paese, razza o religione. Il Dharma non ha confini, è in ogni tempo e in ogni luogo. La verità è semplice, sono gli uomini che l’hanno complicata.»
-Rev. Dr. Sumana Siri
Il contesto storico
Per comprendere appieno quale fosse l’attitudine del Buddha nei confronti dell’universo femminile, è di vitale importanza conoscere il contesto storico-culturale nel quale visse ed operò il fondatore del Buddhismo; secondo Piyadassi Thera,
«Quando il Buddha Siddharta Gautama apparve in India 2600 anni fa, le donne erano relegate a una posizione sociale servile e abbietta. In quel periodo storico, nel resto del mondo civilizzato, il quale si estendeva dalla Cina alla Grecia, lo status della donna era vile e degradante. Oggigiorno, è universalmente riconosciuto che il Buddha, in quanto fondatore di una religione diffusasi in lungo e in largo nel mondo, propose una filosofia fra le più magnificenti e monumentali nella storia del pensiero. Ma è tuttavia sovente dimenticato dagli storici del Buddhismo il ruolo altrettanto importante giocato dal Buddha in qualità di riformatore sociale e rivoluzionario culturale. Fra i cambiamenti provocati nel tessuto sociale del suo tempo figurano l’annichilimento del pernicioso sistema delle caste e l’emancipazione della donna» . [1]
Come sottolineato dal venerabile Piyadassi, Gautama Buddha era noto per avere avuto posizioni decisamente liberali e progressiste per la sua epoca, tanto da venir additato dai sui avversari come un «distruttore di tradizioni»; quando il re Pasenadi andò a lamentarsi del fatto che la regina consorte aveva messo al mondo una erede femmina, il Buddha lo riprese, ( non senza una dose di sarcasmo!) dicendogli:
«Di fatto, alcune donne sono migliori degli uomini, o Sovrano del Popolo, quando ella è saggia e virtuosa..» .
-Mallikāsutta, Samyutta Nikāya, 3.16
Inoltre, da persona saggia ed equilibrata quale fu, egli riconobbe la fondamentale uguaglianza fra uomini e donne, senza tuttavia negare le differenze fra i due generi; nel Samyutta Nikaya il Buddha elenca una serie di caratteristiche che differenziano le donne dagli uomini:
«vi sono cinque forme di sofferenza a cui è soggetta specificatamente una donna, alle quali l’uomo non è soggetto: innanzitutto, una donna, quando ancora giovane, va a vivere con la famiglia del marito e ad abbandonare la propria famiglia; inoltre, ella è soggetta alle mestruazioni, alla gravidanza, ai dolori del parto e al dover servire il proprio marito. Queste sono le cinque forme di sofferenza a cui è soggetta specificatamente una donna..»
– Āveṇikadukkhasutta , Samyutta Nikaya 37.3
«ci sono questi cinque poteri tipici di una donna. Quali cinque? Bellezza, ricchezza, parentado, figli e comportamento etico. Questi sono i cinque poteri di una donna. Una donna di casa dotata di questi cinque poteri tiene il marito sotto il proprio dominio»
-SN 37.27
In merito a tali caratteristiche peculiari del genere femminile, è importante comprendere che si tratta di elementi culturali e sociologici che non riguardano la sfera spirituale e religiosa; perciò, nonostante le differenze che sussistevano e ancora, in parte sussistono, a livello sociale, biologico e psicologico fra uomini e donne, dal punto di vista del Dharma, la mente illuminata non concepisce alcuna discriminazione di genere.
L’Ordine Femminile
Per quanto riguarda il ruolo della donna all’interno della comunità spirituale da lui fondata, Il Buddha fu il primo leader della storia dell’umanità a sancire l’uguaglianza de facto fra uomini e donne, affermando esplicitamente che quest’ultime posseggono la stessa capacità degli uomini di percorrere il sentiero della liberazione fino al frutto finale della liberazione:
Quindi il venerabile Ānanda così parlò al Beato: «Signore, è fattibile che una donna la quale ha abbandonato la casa per seguire il Dhamma e la disciplina insegnata dal Tathāgata, possa realizzare il ‘l’ingresso nella corrente’, ‘ lo stato di chi ritorna una volta’, lo stato ‘del non ritorno’ e lo stato di arahant’?»
«Certamente Ānanda. ciò è possibile..»
-Vinayapiṭaka, Cūḷavagga, Bhikkhunikkhandhaka, 1. Mahāpajāpatigotamīvatthu
Questa affermazione aprì la strada alla costituzione dell’Ordine Femminile (Bhikkhuni Sangha), seppur fra non poche difficoltà organizzative e pratiche; tali difficoltà spinsero il Buddha e i suoi assistenti a formulare una serie di norme ad hoc , note come «Le otto regole importanti», finalizzate a far ingoiare il boccone amaro alla più vasta comunità di devoti e sostenitori laici.
Figlie del Buddha
Fra le principali discepole del Buddha troviamo: Pajapati Gotami zia materna del Buddha nonché prima donna a ricevere l’ordinazione monastica, Ambapali, una ricca cortigiana entrata in seguito nell’ordine; Kisa Gotami, anch’ella parente del Maestro, protagonista del noto discorso sul chicco di sesamo; la giovane Rajjumala, una schiava del villaggio di Gaya, intenta al suicidio, salvata in extremis dalle parole compassionevoli del Buddha; la monaca Soma, la monaca Dhammadinnā, Punnika la fuoricasta, Patacara, una donna che perse tutta la famiglia a seguito di eventi sfortunati, alla quale il Buddha offrì sostegno e riparo; Visakha la benefattrice di Savatthi, finanziatrice dell’ordine; La regina Mallika del Kosala, protagonista di numerosi discorsi e infine Baddhakaccana ( Yasodhara) , che in precedenza fu la moglie del futuro Buddha.
Nell’Anguttara Nikaya è lo stesso Buddha a tessere le le lodi delle sue discepole, monache e laiche, evidenziando le peculiarità di ciascuna di loro:
«Monaci, delle mie discepole monache, Mahāpajāpatī Gotamī è la più veneranda. Khemā per l’alta saggezza. Uppalavaṇṇā per i poteri psichici. Paṭācārā nel mantenere la disciplina monastica. Dhammadinnā nell’esposizione del Dhamma. Nandā è la prominente nello sviluppo dei livelli di meditazione [jhana]. Soṇā per l‘applicazione costante. Sakulā per la chiaroveggenza. Bhaddā Kuṇḍalakesā per la realizzazione istantanea del Dhamma. Bhaddā Kāpilānī nel ricordare le nascite precedenti. Bhaddakaccānā per la grande saggezza. Kisāgotamī per l’indossare abiti grezzi. Siṅgālakamātā per la liberazione mediante la fiducia […] Delle mie discepole laiche, la prima a prendere i tre rifugi fu Sujātā Seniyadhītā. Visākhā Migāramātā, è la prominente tra le donatrici. Khujjuttarā è quella che appreso maggiormente. Sāmāvatī per lo sviluppo dell’amorevole gentilezza. Uttarānandamātā per lo sviluppo degli stadi di meditazione. Suppavāsā Koliyadhītā fra coloro che donano cose raffinate. Suppiyā, la devota laica, per l’assistenza ai malati. Kātiyānī, per la fede nata dalla conoscenza. Nakulamātā, la madre di famiglia, per l’affidabilità. Kāḷī kuraragharikā, la devota laica, la cui confidenza di basa su ciò che ha udito » .
L’apertura del Buddha nei confronti delle donne è mirabilmente espressa nel seguente dialogo fra un sua allieva di nome Punnika, una ex serva ed aspirante monaca, e un bramino impegnato nelle abluzioni rituali; da notare il tono sferzante e tutt’altro che subordinato con cui Punnika si rivolge al bramino:
[Punnika:] «Sono una portatrice d’acqua, infreddolita, e nel trasportare l’acqua ho paura delle percosse della padrona, sicché vivo tormentata dalle sue parole e dalla sua collera. Ma tu, Bramino, di cosa hai paura, mentre trasporti l’acqua, tremante ed infreddolito?» .
[Il Bramino:] « Punnika, sai certamente, che stai chiedendo a colui che possiede un buon kamma e ha trasceso il male. Chiunque, giovane o vecchio, con un cattivo kamma, attraverso le abluzioni, viene liberato dal cattivo kamma» .
[Punnika:]«Chi insegna questo, ignorante degli ignoranti— ‘Ci si libera, attraverso le abluzioni con acqua, del cattivo kamma?’ se così fosse, rinasceranno nei mondi celesti: rane, tartarughe, serpenti, coccodrilli e tutte le creature che vivono nell’acqua. Macellai, pescatori, cacciatori, ladri, assassini, potrebbero, con le abluzioni con acqua, liberarsi dal cattivo kamma. Se questi fiumi portassero via il cattivo kamma compiuto nel passato, porterebbero via anche i meriti, e quindi saremmo completamente abbandonati a noi stessi. Qualunque sia la tua paura, nel trasportare l’acqua, non abbandonarti. Non lasciare che il freddo ti colpisca » .
[Il Bramano:] «Stavo seguendo un triste sentiero, brava donna, e tu mi hai riportato su quello nobile. Ti dono questa veste per le abluzioni con acqua » .
[Punnika:] «Tenetela. Non mi serve. Se avete paura del dolore, se non vi piace il dolore, allora non compiete nessun cattivo kamma, sia in segreto che in pubblico. Ma se compirete cattivo kamma, non sarete libero dal dolore, quando lascerete questa vita. Se avete paura del dolore, se non vi piace il dolore, prendete rifugio nel Risvegliato, prendete rifugio nel Dhamma e nel Sangha. Rispettate i precetti: che vi condurranno alla liberazione » .
– Therīgāthā 12.1
La monaca Somā
Somāsutta:
Saṃyutta Nikāya 5
1. Bhikkhunīvagga
A Sāvatthi. Di mattina presto, la monaca Somā prese mantello e scodella e andò a Sāvatthi per la questua. Quando ritornò ed ebbe consumato il pasto si diresse al Bosco dei ciechi per passarvi il giorno. Arrivatavi, ella si sedette ai piedi di un albero. Quindi Māra il malvagio[1], volendo risvegliare paura, orrore e terrore in lei, al fine di distoglierla dal raccoglimento profondo, si avvicinò e le indirizzò questi versi:
«Ciò che è stato realizzato dai saggi,
così difficile da realizzare
non può essere realizzato da una donna
con due dita di saggezza.»
Quindi la monaca Soma pensò: «Chi ha recitato questi versi, un essere umano o divino? Questo è Māra il maligno che ha recitato questi versi e vuole risvegliare in me paura, orrore e terrore, desideroso di distogliermi dal raccoglimento profondo.»
Avendo la monaca Somā intuito : «Questo è Māra il malvagio». rispose lui con questi versi:
«Cosa importa l’essere donna,
se la mente è ben concentrata,
la conoscenza scorre fluida,
e rettamente si vede il Dhamma in profondità;
chiunque pensi:
‘Io sono una donna’,
oppure ‘Io sono un uomo’,
o ‘qualunque altra cosa ‘,
costui è idoneo ai discorsi [fuorvianti ]di Māra.»
Quindi Māra il malvagio, triste e ammutolito, constatando: «la monaca Somā mi ha riconosciuto!» scomparve.
La storia di Paṭācārā
(Tratta dal testo Paramatthadipani di Dhammapala)
Paṭācārā nacque nell’era del Buddha Gautama. Ella era la figlia del tesoriere di Sāvatti; I suoi genitori l’amavano così tanto da tenerla confinata al settimo piano della loro villa, impedendogli di uscire. Quando ebbe sedici anni, i suoi genitori organizzarono un matrimonio combinato con un giovane del suo stesso rango. Tuttavia, si era innamorata del suo servo, e desiderava vivere con lui. Poco prima del matrimonio, di primo mattino, Paṭācārā si travestì da serva, sgattaiolò fuori dal palazzo, e abbandonò, assieme al suo servo, la città natia. La coppia si trasferì in una località remota dove poterono coronare il loro sogno di sposarsi. Dopo un po’ di tempo, Paṭācārā, rimase incinta quindi, disse al marito. « Qui non ho nessuno che mi aiuti, ma una madre e un padre hanno sempre un posto nel loro cuore per i propri figli. Per favore portami a casa dei miei genitori così da poter dare alla luce nostro figlio ».
Ma il marito le disse: « Mia cara, cosa stai dicendo? Se tua madre e tuo padre mi vedessero mi torturerebbero a morte, è fuori questione per me di ritornare a palazzo ».
Paṭācārā continuò a implorare il marito di riportarla a casa, e ogni volta lui si rifiutava di andare. Un giorno, quando suo marito era via, Paṭācārā andò dai suoi vicini e disse loro: «Se mio marito ti chiede dove sono andato, digli che sono tornata a casa dai miei genitori ». Quando il marito tornò a casa e non la trovò, la rincorse e presto la raggiunse, implorandola di tornare a casa. A metà strada iniziò a sentire i dolori del parto, e dopo aver dato alla luce un bimbo. Pensò: « Non ha senso andare dei miei genitori », e tornò a casa con il marito.
All’arrivo del secondo figlio le cose andarono come la prima volta, ma mentre stava dando alla luce il secondo figlio, si scatenò una terribile tempesta. Paṭācārā disse al marito: « Caro, i dolori si stanno manifestando, non posso sopportarli, per favore trovami un posto dove ripararmi da questa tempesta ».
Suo marito prese l’ascia e andò di qua e di là sotto la pioggia battente, cercando rami e foglie per costruire un rifugio di fortuna. Vedendo un cespuglio crescere su un formicaio andò a tagliarlo, ma mentre faceva ciò, un serpente velenoso scivolò fuori mordendolo, uccidendolo sul colpo. Mentre Paṭācārā aspettava il marito, i dolori diventarono sempre più forti e presto diede alla luce un altro figlio. Debole, fredda e bagnata, non poté fare altro che appoggiare i pargoli al seno, e prona su di loro per terra, trascorse la notte. Intanto la donna attendeva il marito con grande angoscia, mentre i due bambini piangevano sotto il vento e la pioggia.
Il mattino seguente, presto, con il neonato sul fianco e tenendo la mano dell’altro bambino, Paṭācārā percorse il sentiero che suo marito aveva preso trovandolo morto. «E’ per causa mia, che mio marito è morto per strada», gridò. Il giorno dopo si incamminò lungo il sentiero finché arrivò al fiume Aciravati, il quale era in piena per via dalla tempesta. Poiché debole e malandata, era incapace portare entrambi i bambini insieme. Paṭācārā mise il figlio più grande sulla riva e portò il neonato al di là del fiume. Quindi mise il piccolo su un letto di foglie e tornò a prendere il bambino più grande.
Arrivata a metà strada, un falcone scese dal cielo e si lanciò in picchiata sul neonato portandoselo via. Paṭācārā lo vide e urlò a gran voce: «Via !, Via! », ma non poté far nulla per dissuadere il Falcone. Udendo la voce della madre, il figlio più grande pensò: « La mamma mi sta chiamando ». E, in fretta per raggiungerla, scivolò giù per la riva finendo spazzato via dal fiume.
Paṭācārā, al colmo della disperazione, piangente e afflitta, si recò a Savatti, urlando e lamentandosi:
«Uno dei miei figli è stato portato via da un falco, l’altro spazzato via dal fiume, e lungo la strada mio marito giace morto ».
A Savatti incontrò un uomo e gli chiese: «Signore, dove abiti?”
«A Savatthi”, rispose lui.
«Nella città di Savatthi, in una strada come questa, vive una certa famiglia. Li conosci, signore? »
«Sì, mia buona signora, ma non chiedermi di quella famiglia, domandami qualcos’altro ».
«Non mi interessa altro, per favore parlami di loro », disse lei.
«Dal momento che insisti, non posso nascondere la verità”, disse l’uomo. « Nelle forti piogge della scorsa notte, la casa di quella famiglia è crollata, uccidendoli tutti. Ora li stanno bruciando sulla pira ».
A questo punto il dolore la fece impazzire, così che essa non era neppure cosciente del fatto che gli indumenti le stavano scivolando di dosso. Si mise a girare in tondo, e, poiché la gonna caduta le pendeva di dietro, la gente le diede il nomignolo di Paṭācārā, « che gira trascinando la veste ».
Mentre essa andava avvicinandosi al monastero dove risiedeva il Buddha, Il Maestro si diresse verso di lei. I monaci, vedendola dissero: «che quella piccola pazza non venga qui”. Ma il Budha disse «Non glielo impedite », e, stando vicino a lei mentre essa aveva ricominciato a girare in tondo, le disse: « Sorella, riacquista la consapevolezza! ». Ed essa, riprese la consapevolezza, si accorse della sua condizione e, sopraffatta dalla vergogna si buttò faccia a terra. Un uomo le gettò la sua veste esterna ed essa se ne avvolse. Si avvicinò al Maestro, ne venerò i piedi dicendo. « Signore aiutami, ho perso tutti i mie cari, marito, i figli e i membri della mia famiglia, uccisi dal crollo della casa, ardono su una pira».
Il Buddha, disse lei: «Paṭācārā, non pensare che tu sia venuta da uno capace di esserti d’aiuto. proprio come tu ora stai versando lacrime per la morte dei tuoi bimbi e per il resto, così tu hai, in un infinito giro di esistenze, versato lacrime per la morte di bimbi e altro, più abbondanti delle acque contenute nei quattro oceani ».
In tal modo, mediante le parole del Maestro, il dolore cominciò a divenire in lei più leggero da sopportare.
«Paṭācārā, per colui che passa ad un altro mondo, non v’è figlio od altri della sua stirpe che possa essere per lui di riparo, rifugio o asilo. Neppure in questo mondo, ciò può avvenire. Pertanto, chiunque sia saggio purifichi la propria condotta, e perfezioni entro sé la via che conduce alla liberazione ».
Appena ebbe finito di parlare, essa conseguì l’entrata nella corrente del risveglio, e chiese di essere ordinata monaca. Il Buddha la condusse dalle monache e la fece ammettere fra loro. Un giorno, le capitò di prendere dell’acqua da una bacinella, di lavarsi i piedi e di buttare via un po’ di quell’acqua, la quale si sparse per un piccolo tratto, prima di venire assorbita. Essa ne versò dell’altra, che andò più lontano. La terza volta l’acqua andò ancora più lontano, prima di scomparire. Prendendo questo come base per la riflessione, essa rifletté:
« Così i mortali muoiono, o nell’infanzia o nella mezza età o nella vecchiaia ».
Il Buddha le disse:
«Proprio così, o Paṭācārā, tutti gli esseri mortali sono destinati a morire; pertanto, è meglio essere vissuti arrivando a vedere come i cinque aggregati sorgano e scompaiono, anche se ciò sia durato un solo giorno, piuttosto che vivere cento anni senza comprendere ciò » .
Appena Il Buddha ebbe finito di dire ciò, Paṭācārā raggiunse lo stato di Arahant, assieme a una profonda conoscenza del Dhamma, nella lettera e nello spirito.
Più tardi, riflettendo su come essa avesse raggiunto la liberazione mentre era ancora una novizia, profferì questi versi ispirati:
« Arando i campi con l’aratro,
seminando semi nel terreno
e nutrendo mogli e figli,
i giovani uomini ottengono ricchezza.
Perché io, che dotata di condotta etica,
pratico le istruzioni del Maestro,
non dovrei raggiungere l’emancipazione,
essendo Io né pigra né irrequieta?
essendomi lavata i piedi,
prestai attenzione all’acqua;
osservando l’acqua del pediluvio
scorrere dall’alto verso il basso,
La mia mente divenne bilanciata,
come un destriero purosangue.
Quindi, presi una lampada,
entrai nella mia stanza;
Dopo aver ispezionato il letto,
mi sedetti sulla panca.
Così, afferrando uno spillo,
immersi lo stoppino [nel combustibile] [1];
Proprio come l’estinguersi di quella lampada
fu la liberazione del mio cuore!.»
La storia di Rajjumāla
Mālā, una schiava del villaggio di Gayā, invisa alla propria padrona, la quale la maltrattava in ogni modo. Un giorno, per sfuggire dalle angherie della padrona, la quale era solita afferrarla per i capelli, decise di radersi la testa. In seguito, la padrona legò lei una corda intorno alla testa, con la quale la portava in giro; da qui il nome Rajjumālā (da Rajju, ‘corda’, e mālā, ‘ghirlanda’). Incapace di sopportare quella vita, ella andò nel villaggio vicino con l’intenzione di suicidarsi; tuttavia incontrò il Buddha, che la istruì sul Dhamma. Avendo raggiunto l’entrata nella corrente del risveglio, tornò in seguito dalla padrona, la quale, dopo aver appreso quanto accaduto, si recò dal Buddha divenendone seguace. Il Buddha spiegò che le due donne, in una vita precedente erano state serva e padrona a parti invertite, e che colei che era stata la serva, aveva promesso vendetta per la crudeltà inflittale. Rajjumālā venne liberata e in seguito rinacque nel reame divino di Tāvatimsa.
Vimānavatthu
Itthivimāna
Mañjiṭṭhakavagga
12. Rajjumālāvimānavatthu (826)
(Estratto)
«In passato fui una serva presso una famiglia di bramini. Priva di meriti e sfortunata; ero conosciuta come Rajjumālā. venni maltrattata, minacciata e picchiata. Ero stanca di vivere in quel modo. Un giorno presi una giara, fingendo di andare al pozzo a prendere dell’acqua; abbandonata la giara scappai nella foresta a lato della strada. Là iniziai a pensare al suicidio. Pensai che non avesse senso vivere così. Feci un cappio stretto e lo legai ad un albero. Mi guardai attorno per vedere se c’era qualcuno e pensai : ‘chi è che vive in questa foresta’?
Poi vidi il Buddha , Il saggio benefattore del mondo intero, seduto in meditazione ai piedi di un albero, libero da qualunque paura. Rimasi scioccata (saṃvega) e sorpresa; I peli sul mio corpo si rizzarono. Pensai: «Chi è quell’essere che vive in questa foresta – è un umano o un dio?» La vista di lui fu elettrizzante.
Calmo e beato, Egli ha abbandonato la foresta delle contaminazioni. Quando lo vidi provai delizia. Capii che non era un essere umano comune. Il Buddha dimorava calmo nei sensi, godendo della meditazione, con la mente stabilita internamente, benevolo verso il mondo intero. Come un leone nella sua caverna, egli è senza paura o terrore. Raro è vedere [un simile essere], come [è raro] vedere un fiore di udumbara.
Il Tathāgata mi chiamò gentilmente: «Rajjumāla, prendi rifugio nel Tathāgata» .
Quando sentii quelle dolci e gentili parole, dense di significato, soffici e piacevoli, tutto il mio dolore scomparve. Avendo intuito che la mia mente era pronta, limpida e chiara, il Tathāgata, benevolo verso il mondo intero, mi istruì:
«Questa è la sofferenza, questa è l’origine della sofferenza, la fine della sofferenza e la via diretta che conduce al senza morte».
Seguendo le istruzioni del buon compassionevole, realizzai lo stato pacifico, il Nibbāna, il senza morte. Con un amore ben saldo, inamovibile nella visione, e con fiducia incrollabile, io nacqui come autentica figlia del Buddha.»
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