La storia di Rajjumālā

Mālā, una schiava del villaggio di Gayā, invisa alla propria padrona, la quale la maltrattava in ogni modo. Un giorno, per sfuggire dalle angherie della padrona, la quale era solita afferrarla per i capelli, decise di radersi la testa. In seguito, la padrona legò lei una corda intorno alla testa, con la quale la portava in giro; da qui il nome Rajjumālā (da Rajju, ‘corda’, e mālā, ‘ghirlanda’).
Incapace di sopportare quella vita, ella andò nel villaggio vicino con l’intenzione di suicidarsi; tuttavia incontrò il Buddha, che la istruì sul Dhamma. Avendo raggiunto l’entrata nella corrente del risveglio, tornò in seguito dalla padrona, la quale, dopo aver appreso quanto accaduto, si recò dal Buddha divenendone seguace.
Il Buddha spiegò che le due donne, in una vita precedente erano state serva e padrona a parti invertite, e che colei che era stata la serva, aveva promesso vendetta per la crudeltà inflittale. Rajjumālā venne liberata e in seguito  rinacque nel reame divino di Tāvatimsa.

La storia di Rajjumālā esemplifica il potere trasformativo del Dharma, della compassione e della gentilezza.
“Nell’epoca della tecnologia e dell’informazione, il Dharma è la tecnologia della trasformazione.”
(Rev. Dr. Sumana Siri Nayaka Thera)

Vimānavatthu

Itthivimāna

Mañjiṭṭhakavagga

12. Rajjumālāvimānavatthu (826)

(Estratto)

“In passato fui una serva presso una famiglia di bramini. Priva di meriti e sfortunata; ero conosciuta come Rajjumālā.  venni maltrattata, minacciata e picchiata. Ero stanca di vivere in quel modo.

Un giorno presi una giara, fingendo di andare al pozzo a prendere dell’acqua; abbandonata la giara scappai nella foresta a lato della strada.

 Là iniziai a pensare al suicidio. Pensai che non avesse senso vivere così. Feci un cappio stretto e lo legai ad un albero. Mi guardai attorno per vedere se c’era qualcuno e pensai : ‘chi è che vive in questa foresta’?

Poi vidi il Buddha , Il saggio benefattore del mondo intero, seduto in meditazione ai piedi di un albero, libero da qualunque paura. Rimasi  scioccata (saṃvega) e sorpresa; I peli sul mio corpo si rizzarono. Pensai:  “Chi è quell’essere che vive in questa foresta –  è un umano o un dio?” La vista di lui era elettrizzante.

Calmo e beato, Egli ha abbandonato la foresta delle contaminazioni. Quando lo vidi provai delizia. Capii che non era un essere umano comune.

Il Buddha dimorava calmo nei sensi, godendo della meditazione, con la mente stabilita internamente, benevolo verso il mondo intero.

Come un leone nella sua caverna, egli è senza paura o terrore.
Raro è vedere [un simile essere], come [è raro] vedere un fiore di udumbara.

 Il Tathāgata mi chiamò gentilmente: “Rajjumāla, prendi rifugio nel Tathāgata” .
 
Quando sentii quelle dolci e gentili parole, dense di significato, soffici  e piacevoli, tutto il mio dolore scomparve.

 Avendo intuito che la mia mente era pronta, limpida e chiara, il Tathāgata, benevolo verso il mondo intero, mi istruì:

“Questa è la sofferenza, questa è l’origine della sofferenza,  la fine della sofferenza e la via diretta che conduce al senza morte”.

Seguendo le istruzioni del buon compassionevole, realizzai lo stato pacifico, il Nibbāna, il senza morte.

Con un amore ben saldo , inamovibile nella visione, e con fiducia incrollabile, io nacqui come autentica figlia del Buddha.”

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