Paṭācārātherīgāthā 5.10
I canti della venerabile Paṭācārā
La storia di Paṭācārā
(Tratta dal testo Paramatthadipani di Dhammapala)
Paṭācārā nacque nell’era del Buddha Gautama. Ella era la figlia del tesoriere di Sāvatti; I suoi genitori l’amavano così tanto da tenerla confinata al settimo piano della loro villa, impedendogli di uscire.
Quando ebbe sedici anni, i suoi genitori organizzarono un matrimonio combinato con un giovane del suo stesso rango. Tuttavia, si era innamorata del suo servo, e desiderava vivere con lui.
Poco prima del matrimonio, di primo mattino, Paṭācārā si travestì da serva, sgattaiolò fuori dal palazzo, e abbandonò, assieme al suo servo, la città natia.
La coppia si trasferì in una località remota dove poterono coronare il loro sogno di sposarsi. Dopo un po ‘di tempo, Paṭācārā, rimase incinta quindi, disse al marito. « Qui non ho nessuno che mi aiuti, ma una madre e un padre hanno sempre un posto nel loro cuore per i propri figli. Per favore portami a casa dei miei genitori così da poter dare alla luce nostro figlio ».
Ma il marito le disse: « Mia cara, cosa stai dicendo? Se tua madre e tuo padre mi vedessero mi torturerebbero a morte, è fuori questione per me di ritornare a palazzo ».
Paṭācārā continuò a implorare il marito di riportarla a casa, e ogni volta lui si rifiutava di andare.
Un giorno, quando suo marito era via, Paṭācārā andò dai suoi vicini e disse loro: «Se mio marito ti chiede dove sono andato, digli che sono tornata a casa dai miei genitori ». Quando il marito tornò a casa e non la trovò, la rincorse e presto la raggiunse, implorandola di tornare a casa. A metà strada iniziò a sentire i dolori del parto, e dopo aver dato alla luce un bimbo. Pensò: « Non ha senso andare dei miei genitori », e tornò a casa con il marito.
All’arrivo del secondo figlio le cose andarono come la prima volta, ma mentre stava dando alla luce il secondo figlio, si scatenò una terribile tempesta. Paṭācārā disse al marito: « Caro, i dolori si stanno manifestando, non posso sopportarli, per favore trovami un posto dove ripararmi da questa tempesta ».
Suo marito prese l’ascia e andò di qua e di là sotto la pioggia battente, cercando rami e foglie per costruire un rifugio di fortuna. Vedendo un cespuglio crescere su un formicaio andò a tagliarlo, ma mentre faceva ciò, un serpente velenoso scivolò fuori mordendolo, uccidendolo sul colpo.
Mentre Paṭācārā aspettava il marito, i dolori diventarono sempre più forti e presto diede alla luce un altro figlio. Debole, fredda e bagnata, non poté fare altro che appoggiare i pargoli al seno, e prona su di loro per terra, trascorse la notte. Intanto la donna attendeva il marito con grande angoscia, mentre i due bambini piangevano sotto il vento e la pioggia.
Il mattino seguente, presto, con il neonato sul fianco e tenendo la mano dell’altro bambino, Paṭācārā percorse il sentiero che suo marito aveva preso trovandolo morto. «E’ per causa mia, che mio marito è morto per strada », gridò.
Il giorno dopo si incamminò lungo il sentiero finché arrivò al fiume Aciravati, il quale era in piena per via dalla tempesta. Poiché debole e malandata, era incapace portare entrambi i bambini insieme. Paṭācārā mise il figlio più grande sulla riva e portò il neonato al di là del fiume. Quindi mise il piccolo su un letto di foglie e tornò a prendere il bambino più grande.
Arrivata a metà strada, un falcone scese dal cielo e si lanciò in picchiata sul neonato portandoselo via. Paṭācārā lo vide e urlò a gran voce: «Via !, Via! », ma non poté far nulla per dissuadere il Falcone. Udendo la voce della madre, il figlio più grande pensò: « La mamma mi sta chiamando ». E, in fretta per raggiungerla, scivolò giù per la riva finendo spazzato via dal fiume.
Paṭācārā, al colmo della disperazione, piangente e afflitta, si recò a Savatti, urlando e lamentandosi:
«Uno dei miei figli è stato portato via da un falco, l’altro spazzato via dal fiume, e lungo la strada mio marito giace morto ».
A Savatti incontrò un uomo e gli chiese: «Signore, dove abiti?”
«A Savatthi”, rispose lui.
«Nella città di Savatthi, in una strada come questa, vive una certa famiglia. Li conosci, signore? »
«Sì, mia buona signora, ma non chiedermi di quella famiglia, domandami qualcos’altro ».
«Non mi interessa altro, per favore parlami di loro », disse lei.
«Dal momento che insisti, non posso nascondere la verità”, disse l’uomo. « Nelle forti piogge della scorsa notte, la casa di quella famiglia è crollata, uccidendoli tutti. Ora li stanno bruciando sulla pira ».
A questo punto il dolore la fece impazzire, così che essa non era neppure cosciente del fatto che gli indumenti le stavano scivolando di dosso. Si mise a girare in tondo, e, poiché la gonna caduta le pendeva di dietro, la gente le diede il nomignolo di Paṭācārā, « che gira trascinando la veste ».
Mentre essa andava avvicinandosi al monastero dove risiedeva il Buddha, Il Maestro si diresse verso di lei. I monaci, vedendola dissero: «che quella piccola pazza non venga qui”. Ma il Budha disse «Non glielo impedite », e, stando vicino a lei mentre essa aveva ricominciato a girare in tondo, le disse: « Sorella, riacquista la consapevolezza! ». Ed essa, riprese la consapevolezza, si accorse della sua condizione e, sopraffatta dalla vergogna si buttò faccia a terra. Un uomo le gettò la sua veste esterna ed essa se ne avvolse. Si avvicinò al Maestro, ne venerò i piedi dicendo. « Signore aiutami, ho perso tutti i mie cari, marito, i figli e i membri della mia famiglia, uccisi dal crollo della casa, ardono su una pira».
Il Buddha, disse lei: «Paṭācārā, non pensare che tu sia venuta da uno capace di esserti d’aiuto. proprio come tu ora stai versando lacrime per la morte dei tuoi bimbi e per il resto, così tu hai, in un infinito giro di esistenze, versato lacrime per la morte di bimbi e altro, più abbondanti delle acque contenute nei quattro oceani ».
In tal modo, mediante le parole del Maestro, il dolore cominciò a divenire in lei più leggero da sopportare.
« Paṭācārā, per colui che passa ad un altro mondo, non v’è figlio od altri della sua stirpe che possa essere per lui di riparo, rifugio o asilo. Neppure in questo mondo, ciò può avvenire. Pertanto, chiunque sia saggio purifichi la propria condotta, e perfezioni entro sé la via che conduce alla liberazione ».
Appena ebbe finito di parlare, essa conseguì l’entrata nella corrente del risveglio, e chiese di essere ordinata monaca. Il Buddha la condusse dalle monache e la fece ammettere fra loro.
Un giorno,le capitò di prendere dell’acqua da una bacinella, di lavarsi i piedi e di buttare via un po’ di quell’acqua, la quale si sparse per un piccolo tratto, prima di venire assorbita. Essa ne versò dell’altra, che andò più lontano. La terza volta l’acqua andò ancora più lontano, prima di scomparire. Prendendo questo come base per la riflessione, essa rifletté:
« Così i mortali muoiono, o nell’infanzia o nella mezza età o nella vecchiaia ».
Il Buddha le disse:
«Proprio così, o Paṭācārā, tutti gli esseri mortali sono destinati a morire; pertanto, è meglio essere vissuti arrivando a vedere come i cinque aggregati sorgano e scompaiono, anche se ciò sia durato un solo giorno, piuttosto che vivere cento anni senza comprendere ciò » .
Appena Il Buddha ebbe finito di dire ciò, Paṭācārā raggiunse lo stato di Arahant, assieme a una profonda conoscenza del Dhamma, nella lettera e nello spirito.
Più tardi, riflettendo su come essa avesse raggiunto la liberazione mentre era ancora una novizia, profferì questi versi ispirati:
« Naṅgalehi kasaṃ khettaṃ,
bījāni pavapaṃ chamā;
Puttadārāni posentā,
dhanaṃ vindanti māṇavā.
« Arando i campi con l’aratro,
seminando semi nel terreno
e nutrendo mogli e figli,
i giovani uomini ottengono ricchezza.
Kimahaṃ sīlasampannā,
satthusāsanakārikā;
Nibbānaṃ nādhigacchāmi,
akusītā anuddhatā.
Perché io, che dotata di condotta etica,
pratico le istruzioni del Maestro,
non dovrei raggiungere l’emancipazione,
essendo Io né pigra né irrequieta?
Pāde pakkhālayitvāna,
udakesu karomahaṃ;
Pādodakañca disvāna,
thalato ninnamāgataṃ.
essendomi lavata i piedi,
prestai attenzione all’acqua;
osservando l’acqua del pediluvio
scorrere dall’alto verso il basso,
Tato cittaṃ samādhesiṃ,
assaṃ bhadraṃvajāniyaṃ;
Tato dīpaṃ gahetvāna,
vihāraṃ pāvisiṃ ahaṃ;
Seyyaṃ olokayitvāna,
mañcakamhi upāvisiṃ.
La mia mente divenne bilanciata,
come un destriero purosangue.
Quindi, presi una lampada,
entrai nella mia stanza;
Dopo aver ispezionato il letto,
mi sedetti sulla panca.
Tato sūciṃ gahetvāna,
vaṭṭiṃ okassayāmahaṃ;
Padīpasseva nibbānaṃ,
vimokkho ahu cetaso”ti.
Così, afferrando uno spillo,
immersi lo stoppino [nel combustibile] [1];
Proprio come l’estinguersi di quella lampada
fu la liberazione del mio cuore!

1: causando così lo spegnimento della lampada.
ENGLISH VERSION
The Story of Lady Patacara
During the Buddha’s lifetime there was a rich man who had a charming daughter called Patacara. Her parents loved her so much that they kept her in the seventh storey of their mansion and did not let her go anywhere.
When she was sixteen, Patacara’s parents made arrangements for her to marry the son of another wealthy man. But she had already fallen in love with her pageboy and wanted to be with him.
Just before the wedding, early in the morning, Patacara dressed up like a servant and slipped out of the mansion. She met her pageboy at an arranged place and they ran away together.
The couple traveled to a faraway place and were married. After some time Patacara was ready to give birth to their child. “Here I have no one to help me,” she said to her beloved husband, “but a mother and father always have a soft spot in their heart for their child. Please take me to my parents’ house so I may give birth to our child.”
But her husband said, “My darling, what are you saying? If your mother and father were to see me they would torture me to death. It is out of the question for me to go.” She begged him over and over again and each time he refused to go.
One day, when her husband was away, Patacara went to her neighbours and told them, “If my husband asks you where I have gone tell him that I have gone home to my parents.” When he came home to find Patacara missing, her husband ran after her and soon caught up, begging her to return home. She began to refuse but right then her birth pains started and she soon gave birth to a son. She thought, “There is no point in going to my parents’ home now,” and returned home with her husband.
After some time she was ready to give birth to her second child and left for her parents’ home again while her husband was at work. Again her husband came after her and begged her to return with him but she refused.
While this was happening a fearful storm arose. Patacara told her husband, “Dear, my birth pains have come upon me. I cannot stand it, please find me a place to shelter from this storm.”
Her husband took his axe and went here and there in the heavy rain, looking for branches and leaves to make a shelter. Seeing a bush growing on an anthill he went to chop it down. As he did so a poisonous snake slithered out and bit his hand, killing him immediately.
As Patacara waited for her husband, her pains became more and more severe and soon she gave birth to another son. Weak, cold and wet she could do nothing more than place her children to her bosom, curl into the ground and wait out the night, worrying desperately after her husband and sheltering as best she could.
Early the next morning, with the newborn on her hip and holding the hand of the other child, Patacara went along the path her husband had taken and eventually found him lying dead. “All because of me my husband died on the road,” she cried.
After a while she continued walking along the path until she came to the river Acirawati, which was flooded from the storm. Since she felt weak from the previous night she could not carry both children together. Patacara placed the older boy on the bank and carried the younger one across the river. She then put the baby on a bed of leaves and returned for the older child.
Hardly had she come to midstream when a hawk came down from the sky and swooped off with the young child. Patacara saw the hawk and screamed in a loud voice, “Su!, Su!” When he heard her voice across the water the older boy thought, “Mother is calling me.” And, in a hurry to get to her, he slipped down the bank and was swept away by the river.
Now Patacara became very distressed and cried and cried, saying, “One of my sons has been carried away by a hawk, the other swept away by the river, and by the roadside my husband lies dead.” She went off weeping until she met a man and asked him, “Sir, where do you live?”
“In Savatthi,” he replied.
“In the city of Savatthi in such and such a street lives such and such a family. Do you know them, Sir?”
“Yes, my good Lady, but don’t ask me about that family. Ask me about another family you know.”
“Good Sir, I know only that family. Please tell me about them,” said she.
“Since you insist, I cannot hide the truth,” said the man. “In the heavy rains last night, the family’s house collapsed, killing all of them.”
“Oh no!” cried Patacara.
“Yes; can you see that fire over there?” he asked, pointing to some flames. “That is their funeral fire.”
No sooner had Patacara heard this than she fell on the ground, rolling to and fro with grief. Some villagers came and took her to the Jetavana monastery, where the Buddha was teaching. The Buddha asked some ladies to wash her, clothe her and give her food, and then he consoled her in a most sweet and wonderful voice. When she recovered her senses, and having gained insight into her experiences, Patacara begged the Buddha to ordain her. Thus Patacara became a bhikkhuni (nun).
Credits: Buddhanet.
Plowing the fields,
sowing seeds in the ground,
supporting partners and children,
young men acquire wealth.
I am accomplished in ethics,
and I do the Teacher’s bidding,
being neither lazy nor restless—
why then do I not achieve quenching?
Having washed my feet,
I took note of the water,
seeing the foot-washing water
flowing from high ground to low.
My mind became serene,
like a fine thoroughbred steed.
Then, taking a lamp,
I entered my dwelling,
inspected the bed,
and sat on my cot.
Then, grabbing the pin,
I drew out the wick.
The liberation of my heart
was like the quenching of the lamp.
Rispondi