
R.G. de S. Wettimunny
The Buddha’s teaching and the ambiguity of existence
«Cosa pensate, monaci, la forma…la sensazione…la percezione…le intenzioni…la cognizione è costante o incostante?»
«incostante, Signore».
«E ciò che è incostante, è insoddisfacente o soddisfacente?»
«Insoddisfacente, Signore.»
«E ciò che è incostante, insoddisfacente, soggetto per natura al cambiamento, è forse saggio considerarlo come: “Questo è mio, ciò sono Io, questo è il mio sé”?».
«No di certo Signore».
«Pertanto, o monaci, qualunque forma, sensazione, percezione, intenzione e cognizione, passata, futura o presente, interna o esterna, grossolana o sottile, inferiore o superiore, lontana o vicina, deve essere compresa, con saggezza, secondo realtà; ‘Ciò non è mio, ciò non sono Io, non è il mio sé’».
– Khajjanīyasutta, Samyuttanikaya III
L’insegnamento del Buddha è finalizzato all’eliminazione di qualunque forma di sofferenza mentale, non all’eliminazione del dolore fisico. Una sensazione fisica, piacevole o dolorosa che sia, può apparire come fonte di piacere o dolore in un dato momento, sulla base del suo significato, proprio come una determinata percezione può dare piacere o dolore per via del suo significato; Il semplice fatto di provare piacere anziché dolore nel notare una sensazione fisica dolorosa scomparire, indica che l’affermazione del Buddha secondo cui «tutto ciò che è transitorio è doloroso» (yad aniccam tam dukkham), sia qualcosa di molto più sottile di quanto possa sembrare.
Il cambiamento è un dato di fatto; che ci piaccia o meno, il cambiamento accade; il cambiamento è una caratteristica che permane a prescindere da tutto ciò che uno possa fare o non fare. Il cambiamento non è né piacevole né spiacevole. Piacere e dolore hanno a che vedere con il sentire della mente.
Che cos’è, allora, questo dukkha legato al cambiamento? cos’è questo dukkha che tutto pervade di cui parlava il Buddha? La soggettività è indissolubilmente legata alla percezione della permanenza e della piacevolezza. Se uno di questi tre viene a mancare, anche gli due verranno a decadere.
Prendiamo ad esempio un’esperienza soggettiva, ovvero, un’esperienza che incorpora la soggettività. In breve, le cose funzionano così: la presenza di una cosa afferrata come il (mio) sé. Ciò che è afferrato come il mio sé è sempre un’esperienza concepita come ‘Io’ e ‘mio’; in altre parole, si tratta di un’esperienza incorporante la concezione soggettiva indicata nella struttura fondamentale. Siccome ciò che è afferrato come il mio sé è di fatto Il ‘mio sé’, possiamo descrivere l’esperienza ancora più succintamente come: La presenza del ‘mio sé’.
Ora, questa esperienza permarrà solamente fino a quando la percezione della piacevolezza sarà presente nella struttura. Ma la percezione della piacevolezza permarrà solamente fino a quando il mio sé verrà percepito come stabile e permanente. Ciò significa che anche la percezione della stabilità dovrà essere presente nella struttura dell’esperienza.
Perciò, se ciò che è afferrato come il proprio sé, deve essere concepito come piacevole, non potrà essere percepito soggetto al decadimento. Ciò che ripugna maggiormente il sé è il timore della sua fine. Come può, ciò che Io sono, il mio sé, essere visto come soddisfacente, nel momento in cui esso è percepito come soggetto, presto o tardi alla morte?
Quando si è compreso che il sé è incostante, questo stesso sé verrà visto come insoddisfacente. Questa percezione della natura insoddisfacente andrà a discapito della percezione della piacevolezza. Di conseguenza, tutto ciò che non può esistere a prescindere dalla percezione della piacevolezza verrà influenzato negativamente.
Di cosa si tratta? Innanzitutto, delle considerazioni di ‘Io’, ‘mio’ e ‘sé’. Ora, quando i cinque aggregati soggetti all’attaccamento afferrati come il proprio sé vengono percepiti come incostanti, questi verranno di conseguenza percepiti come insoddisfacenti, e perciò, come non-sé.
A prescindere dall’arduo compito di acquisire una visione diretta e una comprensione che tutte le esperienze soggettive sono transitorie, insoddisfacenti e impersonali, la ragione per la quale l’uomo comune trova difficile accettare tutto ciò anche a livello intellettuale, è che egli tende continuamente a percepire un Io separato e distinto dall’esperienza, il quale è visto riflessivamente come il mio sé.
Egli non comprende che l’Io è una descrizione che investe l’esperienza immediata, un concetto (māna), una sovrastruttura mentale che lui stesso tacitamente sovrappone all’esperienza. Non vedendo tutto ciò, «estrapola» un Io dall’esperienza, trattandolo come qualcosa di indipendente dall’esperienza, separato da essa, ovvero, come un sé. Perciò, egli dovrebbe cercare di prevenire questa «estrapolazione» e comprendere che non vi è alcun Io al di fuori dell’esperienza.
Un’altra ragione per la quale la persona comune non può accettare che ogni sua esperienza, in qualunque momento, sia caratterizzata dal dukkha, è che egli pensi al dukkha puramente nei termini di sgradevolezza manifesta, come nel caso dell’ansia, della tristezza o della disperazione.
L’identificazione dell’esperienza come sé non comporta nell’immediato, (ovvero, non necessita, simultaneamente all’identificazione) un’insoddisfazione manifesta; questa si manifesterà nel tempo, presto o tardi; nella misura in cui la sgradevolezza è feconda, o che le condizioni per il manifestarsi del dukkha sono presenti, è già presente il dukkha.
Come una persona che ha accettato un moneta falsa considerandola autentica, il tradimento [delle aspettative, N.d.T.] diverrà palese solo quando costui proverà ad acquistare qualcosa, scoprendo così che quella moneta non può essere accettata. Il possesso della moneta contraffatta, assieme alla convinzione della sua autenticità, è già un tradimento, un possesso gravido di un tradimento manifesto:
«In che modo, monaci, l’afferrarsi genera l’ansia? Ecco, una persona comune priva di istruzione considera il corpo … la sensazione … la percezione … le intenzioni … la cognizione … in questo modo: ‘Ciò è mio, ciò sono Io, questo è il mio Sé’; ma il corpo, la sensazione, la percezione, le intenzioni e la cognizione cambiano, alterandosi; con il cambiamento e l’alterazione del proprio corpo … in lui sorgono tristezza e angoscia, dolore e dispiacere e disperazione».
– Dutiyaupādāparitassanāsutta (SN 5.7)
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