Il Buddhismo deformato: l’illusione dell’illusorietà della morte

IL BUDDHISMO DEFORMATO

Parte 1.

L’illusione dell’illusorietà della morte

«Lo sforzo è il tuo dovere di oggi;

chi lo sa, la morte potrebbe arrivare anche domani!

Non c’è battaglia con la morte e la suo potente armata!»

~Bhaddekaratta Sutta

La morte è un illusione?

In accordo alla formulazione originaria del Dhamma preservata nei Discorsi del Canone Pāli, la morte non è esattamente un’illusione; innanzitutto, il Buddha non si espresse mai in quei termini; al contrario, egli invitò ripetutamente i propri allievi a tenere bene a mente l’ineluttabilità della morte e a praticare con solerzia.

L’affermazione che la morte è un’illusione si riferisce al superamento della percezione errata di un sé permanente ed esistente autonomamente. Questa dottrina nacque probabilmente in seno alla scuola idealista Cittamatra o Vijñānavāda, la quale esercitò una notevole influenza presso le scuole buddhiste cinesi, giapponesi e vietnamite.

Questa idea, così diffusa oggigiorno, sulla natura illusoria della morte è una banalizzazione delle complesse dottrine di queste antiche scuole di pensiero buddhiste indiane e di un pericoloso mix fra queste e altre dottrine di origine induista e taoista. Il concetto originale alla sua base è che se non esiste un sé permanente ed autonomo, se un simile sé non è mai nato o prodotto, esso non potrà ovviamente né morire né rinascere né tantomeno trasmigrare altrove.

Dal punto di vista della verità ultima (paramatthasatya) le cose stanno esattamente così. Non c’è alcun sé permanente ed autonomo che nasce o muore; bisogna però tenere presente che per le scuole mahāyāna della Via di mezzo, la verità ultima si intreccia indissolubilmente con la verità convenzionale (samvittisacca). Tuttavia, dalla prospettiva del Buddhismo antico, la morte del sé permanente ed autonomo è davvero un’illusione (retrospettivamente) solo per gli arahant; questa illusione è destinata a dissolversi nel momento stesso in cui il praticante realizzerà lo stato di arahant, la liberazione da ogni percezione erronea; per chi ha superato l’errata percezione del sé sostanziale, la morte esiste sono oggettivamente, come mera dissoluzione degli aggregati psicofisici; d’altro canto, per chi invece continua a credere nell’esistenza di un sé permanente, la morte continuerà ad esistere sia oggettivamente che soggettivamente.

Ed è precisamente per via del fatto che la morte è una realtà con la quale bisogna fare i conti che il Buddha ha indicato invecchiamento e morte come la condizione per il sorgente di tristezza e pena, dell’a afflizione psicosomatica e della disperazione. Affermare che la morte è una mera illusione, senza contestualizzate tale affermazione significa di fatto invalidare l’intero sentiero escatologico ideato dal Buddha stesso.

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